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"Quelle
mura laggiù, che città difendono?»
Mauro
e gli altri della guardia osservarono increduli l’indice del Vescovo puntato
verso la fila dei palvesi che proteggevano le formazioni guelfe.
Di
là dall’Arno, la campana dell’abbazia di Strumi batté l’ora terza d’una
giornata già calda. Il vento di libeccio aveva spinto grosse nubi sui prati
sommitali del Pratomagno.
«Brutto
segno» mormorò tra sé uno scudiero coi colori dei Guidi, impegnato a tener
buono il cavallo del suo padrone. A levante la sagoma tozza del masso della
Verna guardava severa lo schieramento degli eserciti.
«Eminenza,
quelle che vi sembrano mura sono i palvesi dei nemici» rispose Mauro
imbarazzato.
Ghigo
era al suo fianco: il Vescovo lo aveva accettato nella sua scorta personale.
Guglielmo Pazzo e Buonconte schieravano i feditori, scorrendo senza posa il
fronte d’attacco, dall’Arno alla base della collina di Certomondo. Ogni casata
aveva assegnato i cavalieri migliori alla schiera del primo cozzo. Le froge dei
destrieri sbuffavano vapori caldi; gli zoccoli, ferrati secondo le tecniche più
recenti, raspavano la terra; le criniere si agitavano, trattenute a briglia
corta; i vessilli le bandiere gli stendardi stavano levati di fronte al nemico.
Fermo
al centro della schiera grossa di cavalleria, Guglielmino sembrò scacciare con
la mano un pensiero fastidioso e poi chiese la mitria. Se la impose ed alzò
sull’esercito il braccio destro, liberando la mano dal guanto di ferro e
piegando le dita nel gesto della benedizione.
Mauro,
come tutti appeso a quel movimento, si fissò ai bagliori che rimandava l’anello
episcopale, colpito dai raggi d’un sole già alto. Poi tremò guardando i nembi
sul Pratomagno.
«Pare
che ci vengano addosso» sussurrò Ghigo, che sembrava preso dagli stessi
pensieri.
«Non
più parole, ormai!» La voce possente di Guglielmino, che aveva impugnato la
mazza, liberò un volo di colombe dalla chiesetta di Certomondo, sopra le teste
dei cavalieri della riserva di Guido Novello. «Vincete! Per Dio e per san
Donato! Alla battaglia! All’armi! All’armi!»
«All’armi!»
fece eco l’esercito, e l’aria s’increspò agitando le foglie dei pioppi lungo il
fiume. «San Donato cavaliere!»
Le formazioni
dei feditori mossero in linea: prima al passo, poi al trotto, al galoppo, alla
carica ben presto.
La
terra tremò sotto i colpi degli zoccoli.
Dai
palvesi dei nemici si udì in risposta un grido più terreno, ma anch’esso corale
e forte: «Narbona cavaliere!». Il vento lo scagliò contro le criniere lanciate
a divorar la pianura.
«Aiutate
la mia povera vista, giovane Mauri. Narratemi l’impresa»
«La
polvere alzata dai feditori m’impedisce di veder bene, mio Vescovo, ma una cosa
è certa: il nemico non s’è mosso e tra breve i nostri gli saranno sopra».
Il
vento trascinò il polverone verso levante, liberando la visuale. Ghigo indicò
all’amico un nugolo di quadrelle che s’era levato da dietro i palvesi gigliati.
«Lancio
di balestre, fitto» riferì Mauro, e rimase sospeso ad aspettarne l’effetto.
«Non hanno fatto gran danni: solo qualche cavallo stramazzato, e prima che
ricarichino sarà tardi».
Ancora
un cenno di Ghigo, ora verso il centro dello schieramento nemico, dove un folto
gruppo di cavalieri sopravanzò la fila dei grandi scudi.
«Schierano
i feditori, ma ancora non galoppano. I nostri li travolgeranno»
«E
sarà meglio, perché il primo assalto sarà decisivo»
«Ecco,
ecco! Son loro addosso!»
«Li
sento, che credete!?»
In
effetti il brontolio del galoppo s’era mutato ora nel fracasso dello scontro:
ferro su ferro, lama su corazza, ascia su scudo. E arrivavano le prime grida, e
i nitriti delle bestie, bersaglio grosso per le lance lunghe degli appiedati.
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