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Data
l’acqua alle mani dal bacile sul quale galleggiavano profumati petali di rosa,
si posero a tavola davanti ad una fumante zuppa di porco. La Ilde servì
personalmente gli ospiti e si soffermò a descrivere sottovoce la ricetta alla
Berta: «Le braciole di maiale si devono tagliare a strisce, non più alte di due
pollici, e vanno rosolate a puntino, girandole spesso. Con le spezie, poi, non
si può fare economia, e la cipolla va ben cialdellata nel lardo. Il segreto sta
nella cannella: non va messa a bollire col resto, ma aggiunta alla fine, prima
di servire!»
A
Bencio venne chiesto di raccontare la loro disavventura.
«Pare
che da Firenze sia giunta al Vescovo l’offerta d’una rendita di tremila fiorini
d’oro in cambio dei suoi castelli»
«Cinquemila,
babbo» interruppe la Berta «io ho sentito dir cinquemila»
«Benedetta
figliola, lasciami parlare! Nella piazza di San Salvatore, s’era insieme con
Lemo di Giusto, che è mercante di guado e di panni ma spesso porta anche i
nostri vasi a Pisa, e si può dire che siamo in amicizia oltre che in affari».
Si
riempì la bocca di zuppa, masticò in fretta e prima di continuare si nettò la
bazza col bordo della tovaglia.
«Lemo
è stato preso che rientrava in città da Firenze, dove aveva sistemato certe
faccende col banco dei Cerchi. Capirete, oggigiorno chi commercia deve per
forza passar sotto le grinfie dei banchieri fiorentini! Dunque potete credere
come avesse notizie di prima mano»
«Dai
Cerchi?»
«Ve
la racconto dal principio. Sembra che a muovere le acque sia stato il nostro
Vescovo, preoccupato da questa guerra snervante con Firenze».
Mauro
non stava alle mosse: «Lo disse, in privato, che non era lui a voler la guerra,
ma in pubblico inveisce contro di loro!»
«Comunque
sia, appena l’oste aretina partì per l’Ancisa, l’altro giorno, Guglielmino se
n’andò a Civitella»
«Questo
si sa»
«Da
lì mandò a dire ai Fiorentini che era disposto a trattare, e la cosa mise
discordia tra i signori del Giglio: chi non voleva spender fiorini per far pace
con Arezzo e chi intendeva coglier l’occasione per distruggere i castelli
dell’odiato Vescovo. Discussero parecchio, e alla fine convennero di trattare,
ma non per abbattere i castelli, bensì per usarli a controllo delle vie»
«Mi
pareva bene che comprassero qualcosa per disfarla!» commentò Pietro.
«Mandarono
messer Durazzo e messer Marsilio de’ Vecchietti, vincolandoli a spendere il
meno possibile»
«E
Guglielmino?»
«Sempre
stando a quanto dicono in Firenze, mise delle condizioni. In particolare voleva
tener Bibbiena e Civitella, ma i Fiorentini dissero che se dovevano pagare, o
era per tutti i castelli o non se ne faceva di niente. Bibbiena è il più forte
e da Civitella possono agevolmente controllare Arezzo. Stavano per abbandonare
la trattativa, quando arrivò la notizia della spedizione sul San Donato: fu
riferito loro, forse ad arte, che i nostri erano arrivati fin sotto le mura di
Firenze!»
«Macché!
Io c’ero» smentì Mauro.
«Comunque
funzionò, perché quelli decisero di portare le sue richieste ai signori
rimettendo a loro ogni decisione».
Ad
un cenno della Ilde, arrivarono in tavola due vassoi su cui troneggiavano
magnifici fagiani, interi e vivi all’apparenza, ma in realtà ripieni di lardo
di maiale, rosmarino, salvia, chiodi di garofano, cipolla tritata ed altre
spezie. Li accompagnava un guazzo di starne bollite nel latte di mandorle.
Gli
occhi di Bencio seguivano quell’appetitoso spettacolo, ma Pietro lo spinse a
proseguire: «Le cose non sono andate poi come Guglielmino avrebbe voluto»
«No,
purtroppo. Per facilitare una decisione favorevole dei signori fiorentini, il
Vescovo fece toglier l’assedio dell’Ancisa»
«Ecco
perché siamo tornati così presto!» A Mauro divennero chiare molte cose.
«Ma
nel frattempo voci sulla trattativa erano arrivate all’orecchio del Podestà.
Conosco il Capitano del Popolo e stamani ho avuto occasione di domandargli
lumi. M’ha detto d’aver sentito Guido Novello gridare al tradimento e il
Tarlati sostenere che Guglielmino s’era schierato di nuovo con i guelfi. Gli
stessi familiari del Vescovo erano sconcertati, e in particolar modo Guglielmo
Pazzo»
«Lo
credo!» Questo capitolo della storia Mauro l’aveva vissuto direttamente «Il
Pazzo pensava di cacciare per sempre i Fiorentini dal Valdarno»
«Ci
sarà mai pace, per Arezzo?» sospirò la Berta.
Stavolta
suo padre non la rimbrottò: «Comunque
c’è qualcos’altro, in ballo, oltre la pace tra le due città»
«Sarebbe
a dire?» lo pressò Mauro.
«Non
lo so, ma anche Lemo e lo stesso Capitano del Popolo si pongono la stessa
domanda: perché tener segreta la trattativa? Sicuramente il Vescovo ha scopi
inconfessabili, o misteriosi. Comunque domani c’è consiglio, in città» concluse
«e si deciderà di attaccare Civitella».
Per
un momento il vasaro guardò Pietro sconsolato, per tornare subito dopo ad
occuparsi del cosciotto di fagiano.
Terminato
il banchetto, la Ilde accompagnò la Berta alla stanza da letto preparata per la
futura sposa.
«Grazie
a Dio siete salvi». Le carezzò i capelli neri mentre l’aiutava a svestirsi.
«Resterete con noi tutto il tempo necessario, e spero che vi troverete bene»
«Non
voglio esser di peso, però». Guardò con gratitudine il misto di oro e argento
che venava i capelli della padrona di casa. «Non sono abituata a star senza far
niente e vi darò una mano, se siete d’accordo»
«Ma no,
cara figliola, non ce n’è proprio bisogno»
«Un’altra
cosa». Si fermò, incerta se proseguire: «Stanotte, mentre in San Salvatore mi
stringevo a mio padre impaurita e presa da brividi di freddo, ho fatto un
voto».
«Di
che si tratta?»
I
grandi occhi neri si velarono di lacrime: «Non è bella, la prigionia. Erano
entrati in bottega in sei e armati di tutto punto: brutti ceffi al soldo del
Comune».
La
Ilde le sedette accanto nel letto.
«“Dov’è
tuo padre?” m’hanno urlato.
“Che
c’è, Berta?” ha chiesto lui da sopra sentendo il fracasso.
“Scendete,
mastro Bencio: avete da venir con noi”
“Cosa!?
E dove?”
“Vi
condurremo alla Cittadella, per ordine del Podestà”
“Un
momento, ma perché?”
“Subito!
E non fate resistenza, ché non vorremmo farvi male!” Era il capo del drappello,
a parlare: “Prendete i mantelli, ché vi torneranno comodi”.
“Ma
perché, che s’è fatto? Lasciate almeno la mia figliola” implorò mio padre
invano».
La
ragazza si voltò alla Ilde come a chieder comprensione: «Ci spingevano perché
non si rallentasse. Giunti al Foro, vedemmo altra gente condotta in Cittadella
come noi. Riconoscemmo Lemo di Giusto e qualcuno dei cervellieri. Insieme abbiamo
passato una lunga notte di paura»
«Che
brutta avventura, la mia figliola, v’è capitata. Ma il voto, dicevate: di che
si tratta?»
«Stretta
a mio padre, ho invocato la Madonna, e poi il Santo Salvatore, la cui chiesa ce
l’avevo proprio davanti, e il nostro patrono San Donato e San Michele
Arcangelo. Ho promesso che se ne fossimo usciti salvi e avessi potuto sposare
il vostro Mauro, avrei visitato tutte le pievi dedicate alla Madre di Gesù che
sono intorno ad Arezzo, e in ognuna avrei acceso un cero per ringraziamento».
La
Ilde tirò un sospiro di sollievo: aveva temuto qualcosa di peggio, magari un
voto che compromettesse le nozze.
«Non
vi preoccupate, per questo: vedrete che si potrà fare senza troppa difficoltà».
Le
stampò un bacio sulla fronte come avrebbe fatto con una figlia e la lasciò
dormire, chiudendo piano la porta.
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