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Una
luna quasi piena rischiarava la notte stellata, gettando un raggio fin dentro
la camera di Mauro. L’alba del 4 di giugno avrebbe illuminato tra poco il
sabato fissato per le nozze.
L’agitazione
gli aveva impedito di chiudere occhio: il momento atteso era finalmente giunto.
Stava per avere la sua Berta e cominciava per lui una vita nuova, da uomo. Al
confronto sbiadiva la memoria dell’investitura a cavaliere, che pure tanto lo
aveva inorgoglito, o l’esordio in battaglia, sul San Donato. Già sentiva
l’onore d’esser lui, ora, la famiglia Mauri, e di aggiungere un anello alla
catena delle generazioni.
Una
sottile vena d’inquietudine s’insinuava però a tratti nella mente, un timore
vago che tentava invano di ricacciare. Si tirò a sedere sul letto. Sapeva bene
di non esser solo, e che non sarebbe diventato il capofamiglia, non ancora
almeno: Pietro non era poi così vecchio e, a parte l’amputazione delle dita, la
sua vigoria era intatta e lo sarebbe stata ancora a lungo; e lo stesso valeva
per la Ilde, che avrebbe continuato a sostenerlo nei momenti difficili; così
pure la prospettiva di avere la Berta con sé, di affrontare insieme a lei le
future responsabilità, lo rassicurava non poco.
Tuttavia
gli tornava a momenti la sensazione del distacco dai giorni vissuti fin lì,
spensierati e leggeri: si rivedeva fanciullo a cercar tra i rovi nidi di
fagiani, o a riempirsi la bocca di more, a correre, d’estate, giù per i campi
biondi di grano maturo, o più spesso a insistere col vecchio Moro per avere una
delle sue storie di re e di principi e di imprese leggendarie.
Nella
camera che aveva accolto i suoi sogni di bambino quasi temeva l’arrivo
dell’alba, mentre fuori le stelle già scoloravano.
Nel
medesimo momento la luce dell’aurora disegnava il profilo della nuova
Cattedrale di Arezzo sul colle di San Pietro, davanti allo sguardo preoccupato
del Vescovo.
Anch’egli
era rimasto sveglio. Dalla metà di maggio, saputo che i Fiorentini avevano
portato le insegne alla Badia di Ripoli, dichiarando di fatto la guerra contro
Arezzo, usava le ore da compieta a mattutino per pregare e per riflettere.
Dunque
lo scontro del Toppo non era servito a nulla, non era giovata la spedizione
primaverile sul San Donato, il falò del grande olmo, né la presa di Chiusi e
l’incendio di Buonconvento: quella genia di mercanti non s’era fatta
intimorire. O forse sì, visto che avevano accettato la trattativa, e non si
sarebbe arrivati a quel punto se la testardaggine dei ghibellini aretini non lo
avesse messo con le spalle al muro.
L’idea
del parlamento era giusta, perdìo! Firenze voleva libero accesso alle vie
commerciali delle Romagne e lui, a fronte di un congruo indennizzo, avrebbe
concesso loro i suoi castelli del Casentino. I mercanti del giglio volevano
metter le mani sulle ferriere e glielo avrebbe permesso, se avessero fatto
parte con lui. A garanzia del patto aveva proposto che Bibbiena, la sua
Bibbiena dalla quale si poteva controllare l’intera valle, si governasse di
comune intesa. E al diavolo Guido Novello, la sua Poppi e tutti i Guidi, al
diavolo i Tarlati e le loro ambizioni!
E
Arezzo? Ah, per san Donato! È proprio alla sua città che pensava: pacificata
con Firenze avrebbe potuto espandersi a mezzogiorno, verso Perugia, e
soprattutto a levante, consolidando il suo potere sugli Appennini fino alle
terre del Montefeltro, dominio dei suoi alleati più fedeli.
Ecco,
la trattativa non era certo per viltà come dicevano le malelingue, ma parte
d’un disegno ambizioso che avrebbe coronato degnamente la sua lunga vita.
Era
convinto che anche dopo il fallimento della trattativa non si sarebbe giunti
alla guerra, se ai primi di maggio non fosse passato per Firenze il maledetto
Zoppo degli Angiò, a rinfocolare i propositi dei più bellicosi tra i Fiorentini
e a riattizzare le speranze dei fuoriusciti aretini.
Stavolta
non si limiteranno ad una cavalcata, né basterà un assedio o qualche villaggio
dato alle fiamme.
Fissò
la sagoma del suo Duomo, e si chiese dove avesse sbagliato. I lavori della
nuova Cattedrale erano fermi da Natale, in attesa di iniziare la demolizione di
quella vecchia, né si era potuto costruire una torre campanaria. I bronzi che
dovevano spandere il sacro suono sopra la città, forgiati dal Campanella giù
alla Ruga Mastra, giacevano in un angolo del pavimento, e a Guglielmino
sembrava insopportabilmente stonato ogni rintocco che proveniva dal vecchio
duomo di San Pietro.
“Ci
sarà battaglia in campo aperto” pensò, “e sarà la resa dei conti: o noi o loro.
Non è ciò che volevi, ma sei il Vescovo e il signore di Arezzo, e guiderai la
tua città in battaglia, perché da qui passa il futuro della tua gente e la
difesa di quanto hai costruito in questi quarant’anni”.
Si
guardò le mani scotendo la testa: si dolse che fossero tanto rugose, le nocche
sporgenti in modo deforme, il palmo rinsecchito, la pelle giallastra e
incartapecorita. Riusciva ancora a stringere l’elsa, e non gli mancava la forza
per brandire un’arma, ma non era più capace di stendere completamente le dita,
neppure per benedire.
Dopo
aver scaraventato il contenuto dell’orinale dalla finestra della sua camera
direttamente sull’orto dietro casa, la Berta appoggiò i gomiti sul davanzale,
le mani protese fuori a sorreggere ancora il vecchio vaso di coccio. Non aveva
mai capito l’usanza dei cittadini di liberarsi dei bisogni notturni gettandoli
sulla pubblica via, gridando viva!
appena un attimo prima: più volte le era capitato di dover saltare di lato per
non essere investita, e soprattutto d’estate il puzzo stagnava per le strade.
Alzò
gli occhi al chiarore dell’alba verso levante, sopra i tetti delle case ed
oltre le mura della Cittadella, e si stupì dei propri pensieri: “Sta
cominciando il giorno più bello della mia vita e guarda di cosa mi vado a
preoccupare!” Quasi lanciò il pitale sotto al letto e poi tornò alla finestra,
a godersi l’aria fresca, osservando il lento spegnersi delle stelle all’avanzar
della luce.
I
capelli corvini le ricadevano sciolti sulle spalle coperte dalla camicia di
canapa grezza che s’era buttata addosso levandosi e le causava un fastidioso
prurito. Nelle calde notti estive dormiva nuda e scoperta, mal sopportando
anche il leggero lenzuolo di lino. In realtà le piaceva anche ammirarsi: sapeva
d’essere ben fatta e glielo ripetevano le occhiate degli uomini e l’immagine riflessa
nel piccolo specchio d’argento che era stato di sua madre, regalatole dal padre
il giorno che era diventata donna.
Non perdeva
occasione, Bencio, di descriverle le virtù i pregi la bellezza la dedizione il
sorriso il lavoro instancabile della madre. Mai le aveva fatto cenno al dramma
della sua nascita, ma qualche anno prima, divenuta grande, era riuscita a farsi
dire dall’anziana levatrice come fossero andate le cose: per salvar la madre,
in quel parto difficile, si sarebbe dovuto soffocar la creatura. Bencio aveva
implorato vita per la sua sposa, ma lei, il corpo squassato dalle contrazioni,
i capelli disfatti, lo sguardo cerchiato da borse livide su un volto già
bianco, le mani afferrate alle coltri, aveva raccolto le ultime forze, e
digrignando i denti in un impeto rabbioso le aveva ordinato: «Falla nascere!»
S’era poi abbandonata esanime proprio nel momento in cui appariva la testolina
della neonata, in un groviglio sanguinolento di tessuto e placenta, trattenuti
dalle spire del cordone in cui il corpicino era avviluppato, fin quasi a
soffocarne. Neanche aveva sentito, la povera mamma, il suo primo vagito.
“E adesso,
come potrò far la madre io, ché tu non mi hai insegnato?” La Berta ricacciò in
gola le lacrime, tirò su col naso e si staccò dalla finestra.
Mentre
ravviava i lunghi capelli col pettine d’osso, s’impose di pensare alla vita
matrimoniale a fianco del suo bel Mauro, nobile cavaliere! “Più nobile d’animo
che di lignaggio” mormorò tra sé con un sorriso.
Ammirò
l’abito azzurro dai riflessi di seta: se l’era cucito da sola usando una pezza
che Bencio aveva fatto arrivare apposta da Venezia.
Bencio.
Ecco l’altra sua preoccupazione: non era da ingrati lasciarlo solo? S’era preso
cura di lei facendole da padre e da madre, ed ora che era quasi vecchio lo
abbandonava, e per di più mentre traslocava la bottega nel Borgo Maestro. S’era
detto felice del partito scelto dalla sua Berta, ma una punta di delusione gli
aveva incrinato la voce: avrebbe preferito che continuasse l’attività, magari
accanto ad un giovane esperto del mestiere. Ma non s’era opposto, anzi. «Mi
prenderò una serva» l’aveva rassicurata, «ed anche un lavorante: qualche bravo
ragazzo si trova sempre!» Ancora però non aveva trovato né l’una né l’altro.
D’improvviso
l’assalì la paura di far tardi e, scacciando ogni pensiero, riprese a lisciarsi
i capelli con mosse frenetiche.
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