sabato 16 maggio 2020

EPISODIO 31 - SABATO 4 GIUGNO 1289



Una luna quasi piena rischiarava la notte stellata, gettando un raggio fin dentro la camera di Mauro. L’alba del 4 di giugno avrebbe illuminato tra poco il sabato fissato per le nozze.
L’agitazione gli aveva impedito di chiudere occhio: il momento atteso era finalmente giunto. Stava per avere la sua Berta e cominciava per lui una vita nuova, da uomo. Al confronto sbiadiva la memoria dell’investitura a cavaliere, che pure tanto lo aveva inorgoglito, o l’esordio in battaglia, sul San Donato. Già sentiva l’onore d’esser lui, ora, la famiglia Mauri, e di aggiungere un anello alla catena delle generazioni.

Una sottile vena d’inquietudine s’insinuava però a tratti nella mente, un timore vago che tentava invano di ricacciare. Si tirò a sedere sul letto. Sapeva bene di non esser solo, e che non sarebbe diventato il capofamiglia, non ancora almeno: Pietro non era poi così vecchio e, a parte l’amputazione delle dita, la sua vigoria era intatta e lo sarebbe stata ancora a lungo; e lo stesso valeva per la Ilde, che avrebbe continuato a sostenerlo nei momenti difficili; così pure la prospettiva di avere la Berta con sé, di affrontare insieme a lei le future responsabilità, lo rassicurava non poco.
Tuttavia gli tornava a momenti la sensazione del distacco dai giorni vissuti fin lì, spensierati e leggeri: si rivedeva fanciullo a cercar tra i rovi nidi di fagiani, o a riempirsi la bocca di more, a correre, d’estate, giù per i campi biondi di grano maturo, o più spesso a insistere col vecchio Moro per avere una delle sue storie di re e di principi e di imprese leggendarie.
Nella camera che aveva accolto i suoi sogni di bambino quasi temeva l’arrivo dell’alba, mentre fuori le stelle già scoloravano.

Nel medesimo momento la luce dell’aurora disegnava il profilo della nuova Cattedrale di Arezzo sul colle di San Pietro, davanti allo sguardo preoccupato del Vescovo.
Anch’egli era rimasto sveglio. Dalla metà di maggio, saputo che i Fiorentini avevano portato le insegne alla Badia di Ripoli, dichiarando di fatto la guerra contro Arezzo, usava le ore da compieta a mattutino per pregare e per riflettere.
Dunque lo scontro del Toppo non era servito a nulla, non era giovata la spedizione primaverile sul San Donato, il falò del grande olmo, né la presa di Chiusi e l’incendio di Buonconvento: quella genia di mercanti non s’era fatta intimorire. O forse sì, visto che avevano accettato la trattativa, e non si sarebbe arrivati a quel punto se la testardaggine dei ghibellini aretini non lo avesse messo con le spalle al muro.
L’idea del parlamento era giusta, perdìo! Firenze voleva libero accesso alle vie commerciali delle Romagne e lui, a fronte di un congruo indennizzo, avrebbe concesso loro i suoi castelli del Casentino. I mercanti del giglio volevano metter le mani sulle ferriere e glielo avrebbe permesso, se avessero fatto parte con lui. A garanzia del patto aveva proposto che Bibbiena, la sua Bibbiena dalla quale si poteva controllare l’intera valle, si governasse di comune intesa. E al diavolo Guido Novello, la sua Poppi e tutti i Guidi, al diavolo i Tarlati e le loro ambizioni!
E Arezzo? Ah, per san Donato! È proprio alla sua città che pensava: pacificata con Firenze avrebbe potuto espandersi a mezzogiorno, verso Perugia, e soprattutto a levante, consolidando il suo potere sugli Appennini fino alle terre del Montefeltro, dominio dei suoi alleati più fedeli.
Ecco, la trattativa non era certo per viltà come dicevano le malelingue, ma parte d’un disegno ambizioso che avrebbe coronato degnamente la sua lunga vita.
Era convinto che anche dopo il fallimento della trattativa non si sarebbe giunti alla guerra, se ai primi di maggio non fosse passato per Firenze il maledetto Zoppo degli Angiò, a rinfocolare i propositi dei più bellicosi tra i Fiorentini e a riattizzare le speranze dei fuoriusciti aretini.
Stavolta non si limiteranno ad una cavalcata, né basterà un assedio o qualche villaggio dato alle fiamme.
Fissò la sagoma del suo Duomo, e si chiese dove avesse sbagliato. I lavori della nuova Cattedrale erano fermi da Natale, in attesa di iniziare la demolizione di quella vecchia, né si era potuto costruire una torre campanaria. I bronzi che dovevano spandere il sacro suono sopra la città, forgiati dal Campanella giù alla Ruga Mastra, giacevano in un angolo del pavimento, e a Guglielmino sembrava insopportabilmente stonato ogni rintocco che proveniva dal vecchio duomo di San Pietro.
“Ci sarà battaglia in campo aperto” pensò, “e sarà la resa dei conti: o noi o loro. Non è ciò che volevi, ma sei il Vescovo e il signore di Arezzo, e guiderai la tua città in battaglia, perché da qui passa il futuro della tua gente e la difesa di quanto hai costruito in questi quarant’anni”.
Si guardò le mani scotendo la testa: si dolse che fossero tanto rugose, le nocche sporgenti in modo deforme, il palmo rinsecchito, la pelle giallastra e incartapecorita. Riusciva ancora a stringere l’elsa, e non gli mancava la forza per brandire un’arma, ma non era più capace di stendere completamente le dita, neppure per benedire.

Dopo aver scaraventato il contenuto dell’orinale dalla finestra della sua camera direttamente sull’orto dietro casa, la Berta appoggiò i gomiti sul davanzale, le mani protese fuori a sorreggere ancora il vecchio vaso di coccio. Non aveva mai capito l’usanza dei cittadini di liberarsi dei bisogni notturni gettandoli sulla pubblica via, gridando viva! appena un attimo prima: più volte le era capitato di dover saltare di lato per non essere investita, e soprattutto d’estate il puzzo stagnava per le strade.
Alzò gli occhi al chiarore dell’alba verso levante, sopra i tetti delle case ed oltre le mura della Cittadella, e si stupì dei propri pensieri: “Sta cominciando il giorno più bello della mia vita e guarda di cosa mi vado a preoccupare!” Quasi lanciò il pitale sotto al letto e poi tornò alla finestra, a godersi l’aria fresca, osservando il lento spegnersi delle stelle all’avanzar della luce.
I capelli corvini le ricadevano sciolti sulle spalle coperte dalla camicia di canapa grezza che s’era buttata addosso levandosi e le causava un fastidioso prurito. Nelle calde notti estive dormiva nuda e scoperta, mal sopportando anche il leggero lenzuolo di lino. In realtà le piaceva anche ammirarsi: sapeva d’essere ben fatta e glielo ripetevano le occhiate degli uomini e l’immagine riflessa nel piccolo specchio d’argento che era stato di sua madre, regalatole dal padre il giorno che era diventata donna.
Non perdeva occasione, Bencio, di descriverle le virtù i pregi la bellezza la dedizione il sorriso il lavoro instancabile della madre. Mai le aveva fatto cenno al dramma della sua nascita, ma qualche anno prima, divenuta grande, era riuscita a farsi dire dall’anziana levatrice come fossero andate le cose: per salvar la madre, in quel parto difficile, si sarebbe dovuto soffocar la creatura. Bencio aveva implorato vita per la sua sposa, ma lei, il corpo squassato dalle contrazioni, i capelli disfatti, lo sguardo cerchiato da borse livide su un volto già bianco, le mani afferrate alle coltri, aveva raccolto le ultime forze, e digrignando i denti in un impeto rabbioso le aveva ordinato: «Falla nascere!» S’era poi abbandonata esanime proprio nel momento in cui appariva la testolina della neonata, in un groviglio sanguinolento di tessuto e placenta, trattenuti dalle spire del cordone in cui il corpicino era avviluppato, fin quasi a soffocarne. Neanche aveva sentito, la povera mamma, il suo primo vagito.
“E adesso, come potrò far la madre io, ché tu non mi hai insegnato?” La Berta ricacciò in gola le lacrime, tirò su col naso e si staccò dalla finestra.
Mentre ravviava i lunghi capelli col pettine d’osso, s’impose di pensare alla vita matrimoniale a fianco del suo bel Mauro, nobile cavaliere! “Più nobile d’animo che di lignaggio” mormorò tra sé con un sorriso.
Ammirò l’abito azzurro dai riflessi di seta: se l’era cucito da sola usando una pezza che Bencio aveva fatto arrivare apposta da Venezia.
Bencio. Ecco l’altra sua preoccupazione: non era da ingrati lasciarlo solo? S’era preso cura di lei facendole da padre e da madre, ed ora che era quasi vecchio lo abbandonava, e per di più mentre traslocava la bottega nel Borgo Maestro. S’era detto felice del partito scelto dalla sua Berta, ma una punta di delusione gli aveva incrinato la voce: avrebbe preferito che continuasse l’attività, magari accanto ad un giovane esperto del mestiere. Ma non s’era opposto, anzi. «Mi prenderò una serva» l’aveva rassicurata, «ed anche un lavorante: qualche bravo ragazzo si trova sempre!» Ancora però non aveva trovato né l’una né l’altro.
D’improvviso l’assalì la paura di far tardi e, scacciando ogni pensiero, riprese a lisciarsi i capelli con mosse frenetiche.

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