venerdì 8 maggio 2020

CAPITOLO 29: L'ARRIVO DI VITELLOZZO


Martedì 7 di giugno era una bella giornata. In quei giorni l’affluenza non era mai mancata, sulla piazza antistante il Palazzo dei Priori, ma quella mattina pareva d’esser tornati alle ore convulse del sabato. Un’animata eccitazione percorreva la folla, convocata una volta di più dalla Campana di Palazzo.

Le occhiaie marcate sul volto di Nerone davano conto di un’altra notte insonne. Dopo il trionfo del primo successo sul campo e dopo la presa del forte di San Clemente, i Priori e i protagonisti del trattato di San Casciano s’erano riuniti, la sera prima, per decidere il da farsi, raggiunti quasi subito dalla notizia dell’imminente arrivo di Vitellozzo.
«Bene!» disse uno dei Priori. «Ricaccerà i Fiorentini oltre l’Arno»
«Ottimo!» rincarò la dose un altro. «Li stanerà dalla Cittadella»
«Ci aiuterà a far pulizia dei traditori»
«Proteggerà i raccolti»
«Ci darà un governo»
«Certo» ammise il Roselli, che conosceva molto bene i termini del trattato, «lui ha la forza, e la protezione del Valentino e del Papa, ma non è il solo alleato che abbiamo, sono con noi altri grandi Capitani, come il Baglioni e gli Orsini. Quello che conterà di più, però, sarà il potere dei Medici. Soltanto loro possono abbattere la Repubblica e dunque è soltanto con loro che potremo vincere, alla fine. E’ a Piero che dovremo dare le chiavi della città».
A quel punto Nerone si alzò in piedi, aprì il manoscritto che custodiva dalla sera della rivolta e cominciò a leggere con solennità: In nomine Domini, Amen. Questo è lo Statuto del Comune di Arezzo…
Lesse il primo paragrafo e poi girò lo sguardo sul silenzio della sala: «Chi l’ha fatta, sabato, la rivoluzione? Chi s’è impadronito della città? Chi è riunito adesso in questo antico Palazzo? Chi subisce da generazioni la prepotenza fiorentina? A chi appartiene veramente la città di Arezzo e il diritto di governarla? La risposta è una sola e la sapete: siamo noi!»
Posò il manoscritto sul tavolo e sollevò le chiavi delle Porte: «Queste ora sono nostre, e nostre devono rimanere!»
Uno scroscio di applausi e di evviva! dette voce all’entusiasmo dei presenti.
«Stolti!»
Uno dei Camaiani, famiglia di fede guelfa, gelò tutti. «Con quali armi, con quali denari pensate di difendere una libertà ottenuta contro il mondo intero? Dov’è il vostro esercito? Dove i condottieri? Chi è il signore in grado di governare le vostre rivalità?»
«Stolto invece chi caccia un padrone per chiamarne un altro!» reagì il giovane Baccio, che si sentiva investito d’autorità per essere amico di Nerone e l’ultimo erede di un’antica famiglia ghibellina. S’era fatto rosso in faccia: «Che cambia, per noi, se a portar via i grani saranno i messi dei Medici invece del Gonfaloniere della Repubblica?»
«Che ne sai tu, ragazzo?» lo zittì un Ottaviani, guelfo.
«So che non voglio far la guerra per conto d’altri»
«Eh, già, i ghibellini fan per sé, è noto, e tutti gli altri a morte! Ma guarda dove ci ha portato, la boria dei tuoi antenati!»
«O piuttosto le trame di voi guelfi, servi di Firenze!» intervenne furibondo uno dei Montelucci, scatenando una vera rissa verbale, che andò avanti per ore.
Alla mezzanotte s’era già sfiorata la zuffa almeno tre volte. Come succede, alla fine ognuno parlava per sé, in un sovrapporsi crescente di discorsi offese ripicche recriminazioni, specchio del clima che già aveva perduto Arezzo  più d’un secolo prima.
Soli a tacere, in tanta buriana, Pierantonio Lambardi e il Visdomini. Il prete fissava il Gonfaloniere, aspettando di vedere come se la sarebbe cavata. Il Gonfaloniere guardava il prete, sperando in una sua parola per indirizzare l’assemblea verso uno sbocco, che poi lui avrebbe cavalcato e guidato.
Quando dalle finestre aperte entrò il suono della piccola campana di San Marco al Murello che chiamava i frati a mattutino, e il sonno e la stanchezza fecero finalmente scemare i toni dell’inutile contesa, il Roselli tentò una mediazione.
«Io son guelfo, come sapete, eppure sono stato tra i primi del trattato, perché qui non si combatte per esser potenti, e neanche per esser liberi, ma per vivere, e per mangiare. Ad Arezzo non c’è più cibo, né per i poveri né per gli abbienti. Chiunque venga domani non potrà far peggio. Per questo dico morte alla Repubblica e viva i Medici!».
Nel dir questo si girò al Gonfaloniere, che a quel punto aveva addosso gli occhi di tutti e non poteva più rimanere zitto.
«Col Roselli eravamo insieme ai Bagni di San Casciano. Quel che dice è vero. Vi siete chiesti come mai il popolo d’Arezzo ha risposto con tanto entusiasmo al suono della Campana? Noi abbiamo sollevato il coperchio d’una pentola che bolliva da un pezzo. È il popolo, in verità, che ha fatto la rivoluzione. Ma guardiamoci in faccia: alzi la mano chi pensa veramente che possiamo farcela sa soli. E ancora una domanda: saremmo a questo punto se i nostri alleati non ci avessero sollecitato?»
Da bravo oratore lasciò all’uditorio un momento per riflettere, e poi riprese: «E però tutto questo ha un senso solo se i veri protagonisti del nostro futuro saremo noi. Ora io vi chiedo, messer Roselli, perché darci ai Medici? Lasciamo che il popolo si muova convinto che la sommossa sia per loro: questo tirerà dalla nostra parte anche chi sotto Firenze si trova bene e non vorrebbe mai il ritorno del libero Comune. E passeranno più facilmente con noi anche parecchie Terre del nostro vecchio contado, comprese alcune cui non era parso vero che la Dominante avesse sciolto i lacci che le legavano ad Arezzo. Voi sapete che molti nella stessa Firenze non ne possono più del governo popolare. Quindi benvenuti i Medici. Ma perché consegnare le chiavi al nostro alleato più potente? Abbiamo una grande fortuna: oggi arriva in città, per primo, il più irruente ed arrabbiato di loro, ma anche il più debole, a dispetto delle apparenze. Ecco quello che dico: diamoci a Vitellozzo, che di noi ha bisogno in questo momento e ne avrà ancor più domani, e saremo padroni del nostro destino».
L’uditorio sembrava ora convinto delle buone argomentazioni del Lambardi. Il Visdomini l’aveva ascoltato ammirandone l’abilità, e tuttavia quel pensierino che tornava spesso a stuzzicargli la coscienza, quella riflessione sul valore o per meglio dire sull’illusione della libertà, gli suggeriva che lasciar morire così il sogno di Nerone non sarebbe stato giusto.
Si alzò.
«Quello che dite è saggio, messer Lambardi, ma bisogna considerare nella giusta luce, io credo, anche il parere del nobile da Pantaneto, che ha mosso questa disputa, e l’entusiasmo del giovane dei Bacci. Diamo pure le chiavi a chi dite voi, ma vogliamo consegnarci come chi si è tuffato in Arno e non sa nuotare e chiede disperatamente aiuto e si aggrappa al primo che glielo offra, o non piuttosto come una città risorta, parte viva e indispensabile del trattato?»
Tra i presenti si rianimò il brusio. La sortita del prete rischiava di riaprir le liti e quindi il Gonfaloniere gli chiese, preoccupato: «Cosa proponete, dunque?»
Presentino era venuto al convegno con le idee chiare: «Si riprenda l’antico Statuto, come suggerisce Nerone, e lo si aggiorni secondo il bisogno. Diamo noi un governo alla città, qui, ora. Poi convochiamo il popolo per l’approvazione, prima che arrivi Vitellozzo. Abbiamo già un Gonfaloniere e un Collegio di Priori: confermiamoli. Ma non dimentichiamo di essere in guerra. Nominiamo dunque un Capitano Generale che assoldi e organizzi le nostre bande: Nerone ha dato ieri ottima prova di sé, alla Querciola, e mi sembra l’uomo adatto. E infine facciamo dieci cittadini che abbiano ampia facoltà di governo, guelfi e ghibellini ugualmente rappresentati: saranno i Dieci Uomini della Guerra, e non sarà difficile scegliere tra i presenti».
I quali presenti, chiamati in causa, ci misero un po’ a valutare la proposta, semplice in apparenza, ma che li obbligava ad assumersi le proprie responsabilità, e poneva fine al gioco del buttar le colpe sull’avversario di turno.
Infine partì un applauso, timido all’inizio, perché ognuno si guardava intorno per valutare le reazioni degli altri, e nessuno voleva essere il primo, poi più convinto, fino a diventar corale. La tensione si sciolse. Baccio sorrise a Nerone. Il Gonfaloniere e il prete si scambiarono un’occhiata d’intesa. All’alba Arezzo aveva il suo Governo e la Campana di Palazzo chiamò gli Aretini a raccolta.
Mentre il sole mattutino accarezzava i mattoni più alti della torre del Palazzo, il Lambardi dalla finestra grande annunciò al popolo l’intesa della notte.
Nerone, fiero del ruolo ufficialmente assunto nella rivoluzione, uscì a cavallo sulla piazza. Ovviamente non vestiva l’armatura, ma scendendo s’era infilato la preziosa sopravveste col cavallo nero e il motto latino: A cane non magno... Presentino la notò, e gli parve perfetta per la situazione.
Nella ressa di popolo entusiasta, Nerone s’accorse d’avere al fianco uno strano palafreniere: la Maria, facendosi largo, gli era arrivata vicina e s’era aggrappata con le due mani al morso del cavallo. È strano come ci si possa isolare anche stando in mezzo alla gente: la guardò e per un momento fu come se non avessero più nessuno intorno. Poi l’ovazione della folla, che esplose quando lo Sfregiato finì il suo discorso, li riportò alla realtà.
E una voce dal fondo della piazza annunciò: «Vitellozzo è alle Porte!»
Le cose vengono bene quando prendono anche i tempi giusti. «Aprite!» ordinò soddisfatto il Gonfaloniere dalla finestra. «Che entri!»
Lo stupore degli Aretini, accalcati alla Porta di Santo Spirito per veder sfilare l’esercito di Vitellozzo che entrava in città, si concentrò sulla teoria infinita dei cavalieri che varcavano a coppie la Porta, mille in tutto, con la testa di toro dei Vitelli sulla livrea ed armati, incredibile a dirsi, con l’archibugio, arma che si credeva impossibile da maneggiare stando in sella.
«Come fanno?» chiedeva qualcuno.
«Smontano» rispondeva chi aveva visto sparare Nerone alla Querciola.
«Tutti insieme? E allora perché sono a cavallo?»
«Perché li usano cavalcando» sostenevano i soliti bene informati»
«Davvero?»
«Vedrete».
Evidentemente nulla era impossibile per quel demonio di Vitellozzo.
«Ecco, o Vitellozzo, le chiavi della Città di Arezzo tolte dalle mani della Repubblica Fiorentina col tuo ajuto e consiglio, acciocché col medesimo Tu la difenda, e verso di quella tratti in quel modo che ti parrà: volentieri Arezzo entra sotto la protezione tua, siccome dalle voci d’ognuno intenderai» (Visdomini).
Dopo averlo accolto nel salone del Palazzo, il Gonfaloniere e il Condottiero si affacciarono insieme. La formula solenne pronunciata dal Lambardi scatenò di nuovo l’entusiasmo della folla.
Vitellozzo! Vitellozzo! Libertà! Libertà! Palle! Palle!
Vitellozzo indossava una lucente armatura d’acciaio.
«Ricevo le chiavi molto gratamente, per ubbidire agli Aretini; ma le restituisco ai Cittadini e alla libertà di Arezzo, e prometto di tenere per la vostra Città quella medesima protezione che ho per Città di Castello mia patria!»  (Visdomini)
Per i battimani e gli evviva! sembrava che da un momento all’altro i palazzi intorno alla piazza dovessero venir giù.

Quando infine la finestra grande si richiuse, Nerone smontò da cavallo e si piantò davanti alla sconosciuta. S’era ricordato dei suoi occhi, sovrapposti a quelli della Regina di Saba nella basilica di San Francesco, un giorno che adesso gli pareva lontanissimo.
«Stasera verrete a casa mia».
Poi s’infilò nel Palazzo e volò su per lo scalone. C’era da definir le azioni di guerra.
Eran tutti in piedi attorno al grande tavolo, e Burchio stava illustrando al Vitelli la situazione sul campo: i Fiorentini e i loro simpatizzanti asserragliati nella Cittadella, le forze del Giacomino attestate a Quarata in attesa di rinforzi, l’esito favorevole dello scontro alla Querciola e la presa del forte di San Clemente.
Vitellozzo ascoltava compiaciuto, e Nerone si godette il suo momento di gloria.
Invece Baccio, come sempre al suo fianco dall’inizio della rivolta, non provò nemmeno a star dietro ai discorsi dei Capitani. S’era fissato fin dal principio ad osservare uno del seguito di Vitellozzo, l’unico disarmato e ben vestito, senza niente del soldato o del condottiero. Un vecchio, a giudicare dai lunghi capelli canuti e dalla folta barba quasi completamente bianca, con un che però di giovanile nel volto, animato da occhi vivaci e indagatori. Corporatura rispettabile e un portamento quasi solenne, in contrasto con l’animalesca bruttezza del Vitelli. Baccio ne fu affascinato.
Chi era mai e che ci faceva lì con gli altri a discuter di strategie e di battaglie?
La sua curiosità venne soddisfatta da Vitellozzo: «Questo è Maestro Leonardo, messeri. Ne avrete sentito parlare, immagino. Leonardo da Vinci è molto più d’un valente pittore. Ci accompagna in qualità di architetto e ingegnere di Cesare Borgia, il quale vi chiede di agevolarne in ogni modo il lavoro».
Di che lavoro si trattasse, lo svelò lo stesso interessato, con una voce calda e profonda: «Carte, signori. Questo è il mio compito. Far disegni e vedute, prender notazioni su queste terre, sui borghi, le vie, i fiumi e i ponti, le colline e le piane. Tutto quanto, insomma, possa servire a chi deve decider le mosse d’un esercito. Ho già visto la vasta palude delle Chiane e ho bisogno del vostro aiuto per studiare la valle dell’Arno, dalla sorgente fino a Firenze».
Carte, a che serviranno mai in una campagna militare?, si stava chiedendo Nerone, quando il Lambardi lo tirò inaspettatamente in ballo: «Non chiediamo di meglio che d’esservi d’aiuto. Messer Antonio da Pantaneto, Capitano delle bande aretine, vi darà tutta la collaborazione di cui avete bisogno. Potrete chiedere a lui e ovviamente a qualsiasi altro di noi».
«Avremo da combattere!» provò ad obiettare Nerone, convinto che gli stessero mettendo di mezzo un impiccio.
Maestro Leonardo abbozzò un sorriso: «Non vi sarò d’intralcio, vedrete. Credo anzi di potervi dimostrare l’utilità delle mie carte nella guerra moderna».
Le occhiate degli altri convinsero Nerone a non insistere, e come suo solito andò per le spicce «D’accordo. Se va fatto, allora cominciamo subito: da stasera, Maestro, sarete mio ospite», e mise su quel maestro un’involontaria nota di scetticismo.
«Ottimo» tagliò corto il Vitelli, spostando il discorso sulle mosse successive.
Baccio tirò la manica di Nerone per dirgli qualcosa, ma i suoi occhi parlarono prima di lui.
«Anche tu vuoi trasferirti a casa mia? Va bene. Vieni a cena, poi vedremo».
 Era dal giorno prima, che Nerone si metteva in casa gente: quella sera alla sua mensa si sarebbero seduti un prigioniero fiorentino di riguardo, una donna bella e sconosciuta, un ingegnere, o pittore, o le due cose insieme, non aveva capito bene, e un ragazzo con la voglia di far la guerra, l’unico che considerasse veramente come amico.
Per intanto avrebbe però saltato il pasto di mezzodì, e per uno di campagna avvezzo ai ritmi regolari della fatica giornaliera non era rinuncia da poco, anche se negli ultimi giorni per lo stesso Nerone s’era ridotto ad un tozzo di pane e cacio masticato in fretta. Ma adesso non c’era tempo neppure per quello: bisognava organizzar le bande, e senza indugi. Definiti tutti gli accordi, tornò sulla piazza, dove trovò il Roselli, Stivalino e lo stesso Baccio, scesi prima di lui e già intenti ad istruir la gente: ognuno prendesse su le armi distribuite fin da sabato e quante ve ne fossero nascoste ancora nelle case, ogni nobile organizzasse la propria famiglia, ogni mercante i propri lavoranti, ogni prete i propri fedeli.
Intanto, più in là, un capannello s’era riunito intorno al beccaio, che aveva un chiodo fisso: completare il saccheggio, finir di spogliare le case dei traditori ed assicurar così delle belle provviste alla propria dispensa.
Nerone fissò il ritrovo per tutti gli uomini validi al Prato della Giustizia, un vasto campo interno alle mura dove in tempo di pace s’impiccavano i condannati e dove da quella mattina erano accampate le milizie di Vitellozzo. Poi s’avviò solo, briglie alla mano, giù per la contrada di San Piero, deciso ad arrivar per primo al ritrovo. Passando però davanti alla chiesa dei Francescani, non resistette alla tentazione d’entrare: un momento di riflessione gli avrebbe fatto bene, si disse, e un minuto dopo s’immerse nella battaglia di Eraclio. Quant’è che non tornava a sedersi lì davanti? Un mese, forse, ma sembrava un secolo, per quante cose eran successe da allora. Il soldato barbuto infilzava ancora la gola del ragazzo persiano, e più in là la mazza brandita da una mano ignuda s’abbatteva sopra un elmo dai ricchi fregi. Ancora più indietro una lama a doppio taglio affondava nella testa d’un giovane sconvolto da inutile stupore. In basso un altro, inginocchiato e col braccio teso nella vana richiesta di pietà, aspettava la punta dello stocco di chi lo teneva per i capelli. Lame teste corpi sangue cavalli mani occhi armature paura… la morte e la vita nel terribile groviglio della guerra.
Poi alzò lo sguardo alla Regina di Saba e gli tornò in mente l’incontro con la sconosciuta.
Ma era destino che in quella chiesa Nerone non restasse solo per molto coi suoi pensieri.
La presenza discreta del giovane Baccio si materializzò accanto a lui, sulla panca.
«Il beccaio ha radunato gente» gli disse a testa bassa, quasi a scusarsi per averlo disturbato. «La folla inferocita fa ressa davanti alle case degli Albergotti».
Nerone lo guardò.
«Urlano al sacco, al fuoco, a morte!»
«Lo Sfregiato che dice?»
«Il suo odio per gli Albergotti è sulla bocca di tutti».
Nerone tornò a fissar la battaglia, pensando invece all’ultimo scontro avuto per strada con quel prepotente di Francesco Albergotti.
«Vieni, andiamo al Prato della Giustizia»
«Che si fa? Si lascia fare?»
Nerone annuì, e poi, con calma, si alzò. Prima di uscire si voltò ancora al vecchio Eraclio.
«E’ così, che funziona la guerra» mormorò stringendo i pugni. «Ci sarà tempo dopo, per la pietà».
Baccio lo seguì, ma aveva lo sguardo spaventato del giovane persiano in ginocchio.

Partitosi di Consiglio [Vitellozzo] mandò subito, con buon numero di Aretini, alcune compagnie di soldati al Castello di Giovi, il quale subito si rese a patti, e dipoi si rese Subbiano e altri Castelli e Terre da quella parte.
In questo medesimo giorno venne in Arezzo Messer Antonio da Venafro, mandato da Pandolfo Petrucci a rallegrarsi con quella Città, e a dirle che presto sarebbe lì Giampaolo Baglioni con grossa gente in loro ajuto, e che nel Perugino e nel Sanese si assoldavano genti per mandarle in loro soccorso.
Frattanto Vitellozzo, non intermettendo sollecitudine, fece venire da Città di Castello per battere la Cittadella le Artiglierie per la via del Monte di Poti con istupore di ognuno, attesa la via aspra d’onde erano venute tirate dai Buoi con tanta prestezza e facilità.
Arrivata l’Artiglieria, e di più cento cavalli ed una compagnia di 300 fanti mandati da Giovanni Cardinale e Pietro de’ Medici, della gente del Sig. Fabio Orsino Nipote di Vitellozzo, questi fece subito intendere per un Trombetto a quegli Aretini che erano nella Fortezza, che se non fossero usciti e tornati in Città, sarebbero stati ribelli e gli sarebbero confiscati i loro beni; e che i Fiorentini e gli altri Soldati ivi provvisionati, se nel medesimo termine non avessero resa la Fortezza, sarebbero senza compassione tutti morti.
Fece poi uscire tutte le genti della Città, e fecele accampare fuori della Porta di S. Clemente, che risponde verso Quarata, e mise le sentinelle molto lontane. (Visdomini)

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