Martedì 7 di
giugno era una bella giornata. In quei giorni l’affluenza non era mai mancata,
sulla piazza antistante il Palazzo dei Priori, ma quella mattina pareva d’esser
tornati alle ore convulse del sabato. Un’animata eccitazione percorreva la
folla, convocata una volta di più dalla Campana di Palazzo.
Le occhiaie
marcate sul volto di Nerone davano conto di un’altra notte insonne. Dopo il
trionfo del primo successo sul campo e dopo la presa del forte di San Clemente,
i Priori e i protagonisti del trattato di San Casciano s’erano riuniti, la sera
prima, per decidere il da farsi, raggiunti quasi subito dalla notizia
dell’imminente arrivo di Vitellozzo.
«Bene!» disse
uno dei Priori. «Ricaccerà i Fiorentini oltre l’Arno»
«Ottimo!»
rincarò la dose un altro. «Li stanerà dalla Cittadella»
«Ci aiuterà a
far pulizia dei traditori»
«Proteggerà i
raccolti»
«Ci darà un
governo»
«Certo» ammise
il Roselli, che conosceva molto bene i termini del trattato, «lui ha la forza,
e la protezione del Valentino e del Papa, ma non è il solo alleato che abbiamo,
sono con noi altri grandi Capitani, come il Baglioni e gli Orsini. Quello che
conterà di più, però, sarà il potere dei Medici. Soltanto loro possono
abbattere la Repubblica e dunque è soltanto con loro che potremo vincere, alla
fine. E’ a Piero che dovremo dare le chiavi della città».
A quel punto
Nerone si alzò in piedi, aprì il manoscritto che custodiva dalla sera della
rivolta e cominciò a leggere con solennità: In
nomine Domini, Amen. Questo è lo Statuto del Comune di Arezzo…
Lesse il primo
paragrafo e poi girò lo sguardo sul silenzio della sala: «Chi l’ha fatta,
sabato, la rivoluzione? Chi s’è impadronito della città? Chi è riunito adesso
in questo antico Palazzo? Chi subisce da generazioni la prepotenza fiorentina?
A chi appartiene veramente la città di Arezzo e il diritto di governarla? La
risposta è una sola e la sapete: siamo noi!»
Posò il
manoscritto sul tavolo e sollevò le chiavi delle Porte: «Queste ora sono
nostre, e nostre devono rimanere!»
Uno scroscio di
applausi e di evviva! dette voce
all’entusiasmo dei presenti.
«Stolti!»
Uno dei
Camaiani, famiglia di fede guelfa, gelò tutti. «Con quali armi, con quali
denari pensate di difendere una libertà ottenuta contro il mondo intero? Dov’è
il vostro esercito? Dove i condottieri? Chi è il signore in grado di governare
le vostre rivalità?»
«Stolto invece
chi caccia un padrone per chiamarne un altro!» reagì il giovane Baccio, che si
sentiva investito d’autorità per essere amico di Nerone e l’ultimo erede di
un’antica famiglia ghibellina. S’era fatto rosso in faccia: «Che cambia, per
noi, se a portar via i grani saranno i messi dei Medici invece del Gonfaloniere
della Repubblica?»
«Che ne sai tu,
ragazzo?» lo zittì un Ottaviani, guelfo.
«So che non
voglio far la guerra per conto d’altri»
«Eh, già, i
ghibellini fan per sé, è noto, e tutti gli altri a morte! Ma guarda dove ci ha
portato, la boria dei tuoi antenati!»
«O piuttosto le
trame di voi guelfi, servi di Firenze!» intervenne furibondo uno dei
Montelucci, scatenando una vera rissa verbale, che andò avanti per ore.
Alla mezzanotte s’era già sfiorata la zuffa
almeno tre volte. Come succede, alla fine ognuno parlava per sé, in un
sovrapporsi crescente di discorsi offese ripicche recriminazioni, specchio del
clima che già aveva perduto Arezzo più
d’un secolo prima.
Soli a tacere,
in tanta buriana, Pierantonio Lambardi e il Visdomini. Il prete fissava il
Gonfaloniere, aspettando di vedere come se la sarebbe cavata. Il Gonfaloniere
guardava il prete, sperando in una sua parola per indirizzare l’assemblea verso
uno sbocco, che poi lui avrebbe cavalcato e guidato.
Quando dalle
finestre aperte entrò il suono della piccola campana di San Marco al Murello
che chiamava i frati a mattutino, e il sonno e la stanchezza fecero finalmente
scemare i toni dell’inutile contesa, il Roselli tentò una mediazione.
«Io son guelfo,
come sapete, eppure sono stato tra i primi del trattato, perché qui non si
combatte per esser potenti, e neanche per esser liberi, ma per vivere, e per
mangiare. Ad Arezzo non c’è più cibo, né per i poveri né per gli abbienti.
Chiunque venga domani non potrà far peggio. Per questo dico morte alla
Repubblica e viva i Medici!».
Nel dir questo
si girò al Gonfaloniere, che a quel punto aveva addosso gli occhi di tutti e
non poteva più rimanere zitto.
«Col Roselli
eravamo insieme ai Bagni di San Casciano. Quel che dice è vero. Vi siete
chiesti come mai il popolo d’Arezzo ha risposto con tanto entusiasmo al suono
della Campana? Noi abbiamo sollevato il coperchio d’una pentola che bolliva da
un pezzo. È il popolo, in verità, che ha fatto la rivoluzione. Ma guardiamoci
in faccia: alzi la mano chi pensa veramente che possiamo farcela sa soli. E
ancora una domanda: saremmo a questo punto se i nostri alleati non ci avessero
sollecitato?»
Da bravo oratore
lasciò all’uditorio un momento per riflettere, e poi riprese: «E però tutto
questo ha un senso solo se i veri protagonisti del nostro futuro saremo noi.
Ora io vi chiedo, messer Roselli, perché darci ai Medici? Lasciamo che il
popolo si muova convinto che la sommossa sia per loro: questo tirerà dalla
nostra parte anche chi sotto Firenze si trova bene e non vorrebbe mai il
ritorno del libero Comune. E passeranno più facilmente con noi anche parecchie
Terre del nostro vecchio contado, comprese alcune cui non era parso vero che la
Dominante avesse sciolto i lacci che le legavano ad Arezzo. Voi sapete che
molti nella stessa Firenze non ne possono più del governo popolare. Quindi
benvenuti i Medici. Ma perché consegnare le chiavi al nostro alleato più
potente? Abbiamo una grande fortuna: oggi arriva in città, per primo, il più
irruente ed arrabbiato di loro, ma anche il più debole, a dispetto delle
apparenze. Ecco quello che dico: diamoci a Vitellozzo, che di noi ha bisogno in
questo momento e ne avrà ancor più domani, e saremo padroni del nostro
destino».
L’uditorio
sembrava ora convinto delle buone argomentazioni del Lambardi. Il Visdomini
l’aveva ascoltato ammirandone l’abilità, e tuttavia quel pensierino che tornava
spesso a stuzzicargli la coscienza, quella riflessione sul valore o per meglio
dire sull’illusione della libertà, gli suggeriva che lasciar morire così il
sogno di Nerone non sarebbe stato giusto.
Si alzò.
«Quello che dite
è saggio, messer Lambardi, ma bisogna considerare nella giusta luce, io credo,
anche il parere del nobile da Pantaneto, che ha mosso questa disputa, e
l’entusiasmo del giovane dei Bacci. Diamo pure le chiavi a chi dite voi, ma
vogliamo consegnarci come chi si è tuffato in Arno e non sa nuotare e chiede
disperatamente aiuto e si aggrappa al primo che glielo offra, o non piuttosto
come una città risorta, parte viva e indispensabile del trattato?»
Tra i presenti
si rianimò il brusio. La sortita del prete rischiava di riaprir le liti e
quindi il Gonfaloniere gli chiese, preoccupato: «Cosa proponete, dunque?»
Presentino era
venuto al convegno con le idee chiare: «Si riprenda l’antico Statuto, come
suggerisce Nerone, e lo si aggiorni secondo il bisogno. Diamo noi un governo
alla città, qui, ora. Poi convochiamo il popolo per l’approvazione, prima che
arrivi Vitellozzo. Abbiamo già un Gonfaloniere e un Collegio di Priori:
confermiamoli. Ma non dimentichiamo di essere in guerra. Nominiamo dunque un
Capitano Generale che assoldi e organizzi le nostre bande: Nerone ha dato ieri
ottima prova di sé, alla Querciola, e mi sembra l’uomo adatto. E infine
facciamo dieci cittadini che abbiano ampia facoltà di governo, guelfi e
ghibellini ugualmente rappresentati: saranno i Dieci Uomini della Guerra, e non
sarà difficile scegliere tra i presenti».
I quali
presenti, chiamati in causa, ci misero un po’ a valutare la proposta, semplice
in apparenza, ma che li obbligava ad assumersi le proprie responsabilità, e
poneva fine al gioco del buttar le colpe sull’avversario di turno.
Infine partì un
applauso, timido all’inizio, perché ognuno si guardava intorno per valutare le
reazioni degli altri, e nessuno voleva essere il primo, poi più convinto, fino
a diventar corale. La tensione si sciolse. Baccio sorrise a Nerone. Il
Gonfaloniere e il prete si scambiarono un’occhiata d’intesa. All’alba Arezzo
aveva il suo Governo e la Campana di Palazzo chiamò gli Aretini a raccolta.
Mentre il sole
mattutino accarezzava i mattoni più alti della torre del Palazzo, il Lambardi
dalla finestra grande annunciò al popolo l’intesa della notte.
Nerone, fiero
del ruolo ufficialmente assunto nella rivoluzione, uscì a cavallo sulla piazza.
Ovviamente non vestiva l’armatura, ma scendendo s’era infilato la preziosa sopravveste
col cavallo nero e il motto latino: A cane non magno... Presentino la notò, e gli parve perfetta per la situazione.
Nella ressa di
popolo entusiasta, Nerone s’accorse d’avere al fianco uno strano palafreniere:
la Maria, facendosi largo, gli era arrivata vicina e s’era aggrappata con le
due mani al morso del cavallo. È strano come ci si possa isolare anche stando
in mezzo alla gente: la guardò e per un momento fu come se non avessero più
nessuno intorno. Poi l’ovazione della folla, che esplose quando lo Sfregiato
finì il suo discorso, li riportò alla realtà.
E una voce dal
fondo della piazza annunciò: «Vitellozzo è alle Porte!»
Le cose vengono
bene quando prendono anche i tempi giusti. «Aprite!» ordinò soddisfatto il
Gonfaloniere dalla finestra. «Che entri!»
Lo stupore degli
Aretini, accalcati alla Porta di Santo Spirito per veder sfilare l’esercito di
Vitellozzo che entrava in città, si concentrò sulla teoria infinita dei
cavalieri che varcavano a coppie la Porta, mille in tutto, con la testa di toro
dei Vitelli sulla livrea ed armati, incredibile a dirsi, con l’archibugio, arma
che si credeva impossibile da maneggiare stando in sella.
«Come fanno?»
chiedeva qualcuno.
«Smontano»
rispondeva chi aveva visto sparare Nerone alla Querciola.
«Tutti insieme?
E allora perché sono a cavallo?»
«Perché li usano
cavalcando» sostenevano i soliti bene informati»
«Davvero?»
«Vedrete».
Evidentemente
nulla era impossibile per quel demonio di Vitellozzo.
«Ecco, o Vitellozzo, le chiavi della Città di Arezzo
tolte dalle mani della Repubblica Fiorentina col tuo ajuto e consiglio,
acciocché col medesimo Tu la difenda, e verso di quella tratti in quel modo che
ti parrà: volentieri Arezzo entra sotto la protezione tua, siccome dalle voci
d’ognuno intenderai» (Visdomini).
Dopo averlo
accolto nel salone del Palazzo, il Gonfaloniere e il Condottiero si
affacciarono insieme. La formula solenne pronunciata dal Lambardi scatenò di
nuovo l’entusiasmo della folla.
Vitellozzo! Vitellozzo! Libertà! Libertà! Palle!
Palle!
Vitellozzo indossava
una lucente armatura d’acciaio.
«Ricevo le chiavi molto gratamente, per ubbidire agli
Aretini; ma le restituisco ai Cittadini e alla libertà di Arezzo, e prometto di
tenere per la vostra Città quella medesima protezione che ho per Città di
Castello mia patria!» (Visdomini)
Per i battimani
e gli evviva! sembrava che da un
momento all’altro i palazzi intorno alla piazza dovessero venir giù.
Quando infine la
finestra grande si richiuse, Nerone smontò da cavallo e si piantò davanti alla
sconosciuta. S’era ricordato dei suoi occhi, sovrapposti a quelli della Regina
di Saba nella basilica di San Francesco, un giorno che adesso gli pareva
lontanissimo.
«Stasera verrete
a casa mia».
Poi s’infilò nel
Palazzo e volò su per lo scalone. C’era da definir le azioni di guerra.
Eran tutti in
piedi attorno al grande tavolo, e Burchio stava illustrando al Vitelli la
situazione sul campo: i Fiorentini e i loro simpatizzanti asserragliati nella
Cittadella, le forze del Giacomino attestate a Quarata in attesa di rinforzi,
l’esito favorevole dello scontro alla Querciola e la presa del forte di San
Clemente.
Vitellozzo
ascoltava compiaciuto, e Nerone si godette il suo momento di gloria.
Invece Baccio,
come sempre al suo fianco dall’inizio della rivolta, non provò nemmeno a star
dietro ai discorsi dei Capitani. S’era fissato fin dal principio ad osservare
uno del seguito di Vitellozzo, l’unico disarmato e ben vestito, senza niente
del soldato o del condottiero. Un vecchio, a giudicare dai lunghi capelli
canuti e dalla folta barba quasi completamente bianca, con un che però di
giovanile nel volto, animato da occhi vivaci e indagatori. Corporatura
rispettabile e un portamento quasi solenne, in contrasto con l’animalesca
bruttezza del Vitelli. Baccio ne fu affascinato.
Chi era mai e
che ci faceva lì con gli altri a discuter di strategie e di battaglie?
La sua curiosità
venne soddisfatta da Vitellozzo: «Questo è Maestro Leonardo, messeri. Ne avrete
sentito parlare, immagino. Leonardo da Vinci è molto più d’un valente pittore.
Ci accompagna in qualità di architetto e ingegnere di Cesare Borgia, il quale
vi chiede di agevolarne in ogni modo il lavoro».
Di che lavoro si
trattasse, lo svelò lo stesso interessato, con una voce calda e profonda:
«Carte, signori. Questo è il mio compito. Far disegni e vedute, prender
notazioni su queste terre, sui borghi, le vie, i fiumi e i ponti, le colline e
le piane. Tutto quanto, insomma, possa servire a chi deve decider le mosse d’un
esercito. Ho già visto la vasta palude delle Chiane e ho bisogno del vostro
aiuto per studiare la valle dell’Arno, dalla sorgente fino a Firenze».
Carte, a che
serviranno mai in una campagna militare?, si stava chiedendo Nerone, quando il
Lambardi lo tirò inaspettatamente in ballo: «Non chiediamo di meglio che
d’esservi d’aiuto. Messer Antonio da Pantaneto, Capitano delle bande aretine,
vi darà tutta la collaborazione di cui avete bisogno. Potrete chiedere a lui e
ovviamente a qualsiasi altro di noi».
«Avremo da
combattere!» provò ad obiettare Nerone, convinto che gli stessero mettendo di
mezzo un impiccio.
Maestro Leonardo
abbozzò un sorriso: «Non vi sarò d’intralcio, vedrete. Credo anzi di potervi
dimostrare l’utilità delle mie carte nella guerra moderna».
Le occhiate
degli altri convinsero Nerone a non insistere, e come suo solito andò per le
spicce «D’accordo. Se va fatto, allora cominciamo subito: da stasera, Maestro,
sarete mio ospite», e mise su quel maestro
un’involontaria nota di scetticismo.
«Ottimo» tagliò
corto il Vitelli, spostando il discorso sulle mosse successive.
Baccio tirò la
manica di Nerone per dirgli qualcosa, ma i suoi occhi parlarono prima di lui.
«Anche tu vuoi
trasferirti a casa mia? Va bene. Vieni a cena, poi vedremo».
Era dal giorno prima, che Nerone si metteva in
casa gente: quella sera alla sua mensa si sarebbero seduti un prigioniero
fiorentino di riguardo, una donna bella e sconosciuta, un ingegnere, o pittore,
o le due cose insieme, non aveva capito bene, e un ragazzo con la voglia di far
la guerra, l’unico che considerasse veramente come amico.
Per intanto
avrebbe però saltato il pasto di mezzodì, e per uno di campagna avvezzo ai
ritmi regolari della fatica giornaliera non era rinuncia da poco, anche se
negli ultimi giorni per lo stesso Nerone s’era ridotto ad un tozzo di pane e
cacio masticato in fretta. Ma adesso non c’era tempo neppure per quello:
bisognava organizzar le bande, e senza indugi. Definiti tutti gli accordi,
tornò sulla piazza, dove trovò il Roselli, Stivalino e lo stesso Baccio, scesi
prima di lui e già intenti ad istruir la gente: ognuno prendesse su le armi
distribuite fin da sabato e quante ve ne fossero nascoste ancora nelle case,
ogni nobile organizzasse la propria famiglia, ogni mercante i propri lavoranti,
ogni prete i propri fedeli.
Intanto, più in
là, un capannello s’era riunito intorno al beccaio, che aveva un chiodo fisso:
completare il saccheggio, finir di spogliare le case dei traditori ed assicurar
così delle belle provviste alla propria dispensa.
Nerone fissò il
ritrovo per tutti gli uomini validi al Prato della Giustizia, un vasto campo
interno alle mura dove in tempo di pace s’impiccavano i condannati e dove da
quella mattina erano accampate le milizie di Vitellozzo. Poi s’avviò solo,
briglie alla mano, giù per la contrada di San Piero, deciso ad arrivar per primo
al ritrovo. Passando però davanti alla chiesa dei Francescani, non resistette
alla tentazione d’entrare: un momento di riflessione gli avrebbe fatto bene, si
disse, e un minuto dopo s’immerse nella battaglia di Eraclio. Quant’è che non
tornava a sedersi lì davanti? Un mese, forse, ma sembrava un secolo, per quante
cose eran successe da allora. Il soldato barbuto infilzava ancora la gola del
ragazzo persiano, e più in là la mazza brandita da una mano ignuda s’abbatteva
sopra un elmo dai ricchi fregi. Ancora più indietro una lama a doppio taglio
affondava nella testa d’un giovane sconvolto da inutile stupore. In basso un
altro, inginocchiato e col braccio teso nella vana richiesta di pietà,
aspettava la punta dello stocco di chi lo teneva per i capelli. Lame teste
corpi sangue cavalli mani occhi armature paura… la morte e la vita nel
terribile groviglio della guerra.
Poi alzò lo
sguardo alla Regina di Saba e gli tornò in mente l’incontro con la sconosciuta.
Ma era destino
che in quella chiesa Nerone non restasse solo per molto coi suoi pensieri.
La presenza
discreta del giovane Baccio si materializzò accanto a lui, sulla panca.
«Il beccaio ha
radunato gente» gli disse a testa bassa, quasi a scusarsi per averlo
disturbato. «La folla inferocita fa ressa davanti alle case degli Albergotti».
Nerone lo
guardò.
«Urlano al
sacco, al fuoco, a morte!»
«Lo Sfregiato
che dice?»
«Il suo odio per
gli Albergotti è sulla bocca di tutti».
Nerone tornò a
fissar la battaglia, pensando invece all’ultimo scontro avuto per strada con
quel prepotente di Francesco Albergotti.
«Vieni, andiamo
al Prato della Giustizia»
«Che si fa? Si
lascia fare?»
Nerone annuì, e
poi, con calma, si alzò. Prima di uscire si voltò ancora al vecchio Eraclio.
«E’ così, che
funziona la guerra» mormorò stringendo i pugni. «Ci sarà tempo dopo, per la
pietà».
Baccio lo seguì,
ma aveva lo sguardo spaventato del giovane persiano in ginocchio.
Partitosi di Consiglio [Vitellozzo] mandò subito, con
buon numero di Aretini, alcune compagnie di soldati al Castello di Giovi, il
quale subito si rese a patti, e dipoi si rese Subbiano e altri Castelli e Terre
da quella parte.
In questo medesimo giorno venne in Arezzo Messer
Antonio da Venafro, mandato da Pandolfo Petrucci a rallegrarsi con quella
Città, e a dirle che presto sarebbe lì Giampaolo Baglioni con grossa gente in
loro ajuto, e che nel Perugino e nel Sanese si assoldavano genti per mandarle
in loro soccorso.
Frattanto Vitellozzo, non intermettendo sollecitudine,
fece venire da Città di Castello per battere la Cittadella le Artiglierie per
la via del Monte di Poti con istupore di ognuno, attesa la via aspra d’onde
erano venute tirate dai Buoi con tanta prestezza e facilità.
Arrivata l’Artiglieria, e di più cento cavalli ed una
compagnia di 300 fanti mandati da Giovanni Cardinale e Pietro de’ Medici, della
gente del Sig. Fabio Orsino Nipote di Vitellozzo, questi fece subito intendere
per un Trombetto a quegli Aretini che erano nella Fortezza, che se non fossero
usciti e tornati in Città, sarebbero stati ribelli e gli sarebbero confiscati i
loro beni; e che i Fiorentini e gli altri Soldati ivi provvisionati, se nel
medesimo termine non avessero resa la Fortezza, sarebbero senza compassione
tutti morti.
Fece poi uscire tutte le genti della Città, e fecele
accampare fuori della Porta di S. Clemente, che risponde verso Quarata, e mise
le sentinelle molto lontane. (Visdomini)
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