L’antico monastero delle Murate di San Benedetto, che
occupava un vasto palazzo tra la via Sacra e la contrada delle Fosse, a pochi
passi dalla Porta di San Clemente, da qualche giorno era in preda
all’agitazione. Il venerdì precedente, sotto lo stesso temporale che
aveva accompagnato il Commissario fiorentino di ritorno da San Sepolcro, al
convento era giunto il Priore Generale dell’Ordine Camaldolese, Pietro Dolfino,
quello che mi aveva condotta ad Arezzo. Avevo ancora nelle orecchie le sue
maledizioni alla città che non amava, preferendole la pace di Camaldoli o i
fasti della Curia romana, quasi che le intemperie stesse fossero colpa degli
Aretini.
Per sovrappiù, la mattina dopo, mentre dalla
Cattedrale stava rientrando al convento, s’era trovato nel bel mezzo della
rivoluzione, strapazzato dagli agitati che mettevano a sacco la città alta.
Conservava tutto il suo malumore anche alla cerimonia della domenica mattina,
guastando in parte la festa preparata per mesi dalle religiose.
Consacrò, quel giorno, cinque nuove monache, ed io
avrei dovuto esser la sesta.
Quando la Madre Badessa mi propose di prendere i voti,
confesso che ci pensai parecchio. Me ne sentivo lusingata, e in fondo sarebbe
stato il naturale coronamento d’un cammino di purificazione.
Ci pensai, ma avevo incontrato Nerone, ed anche se non
ne aspettavo niente, pure decisi che non potevo farmi monaca. Alla Badessa che
mi guardava incredula, chiedendomi come fosse possibile, risposi mentendo che
non lo sapevo nemmeno io.
Una parte di me, la più ragionevole, avrebbe passato
con le Murate il resto della vita, e mi rimproverava la scelta. La sera di quel lunedì, mentre carponi sulla
soglia della chiesetta finivo di ripulire il luogo sacro, mi passarono davanti
agli occhi gli scintillanti onori che il giorno prima avevano rivestito le
cinque neofite, ed ebbi un accenno di rimpianto.
Ma quando il profilo di Nerone sfilò raggiante nel
piccolo riquadro dello spioncino a cui avevo appoggiato l’occhio, i dubbi si
dissolsero e seppi d’aver fatto bene. Da dietro il portone del convento, lo vidi
venir su per il Fondaccio alla testa dei suoi, dopo aver preso il forte di San
Clemente.
Stava dritto sul suo cavallo, bello come un angelo
vendicatore o un sammichele che infilza il drago, con sulle spalle l’alone
rosso del tramonto.
Lo vidi e seppi ch’era forte e buono. Non gli avevo
ancora parlato, eppure mi pareva di conoscerlo da sempre. I suoi lineamenti
erano spigolosi, duri come molti di quelli che mi avevano presa fino a poco
tempo prima. Gli occhi, però, sinceri come quelli d’un eroe, dicevano che le
sue mani serrate sulle briglie non avrebbero mai fatto del male a nessuno.
Avrei voluto uscire dal convento e seguirlo.
La notte rimasi sveglia a guardar le travi del
soffitto, stupita che un uomo potesse farmi quell’effetto.
Non sono aretina e vivevo lì da poco, ma ora il mio
eroe che liberava i suoi concittadini mi faceva sentire una di loro. Anzi, ero
convinta che combattesse prima di tutto per me, maltrattata da una vita,
dimenticando che non mi conosceva nemmeno.
In piena notte tonfi sordi al battente interruppero le
mie fantasie. Un gruppo di facinorosi costrinse la Badessa ad aprire,
minacciando di buttar giù il portone. Li capeggiava il massiccio beccaio che
s’era distinto nei disordini del sabato, e cercavano il vicario del Priore,
certo Basilio, col dire che era un noto sostenitore dei Fiorentini. Le monache
s’erano chiuse in chiesa e pregavano tremando. Scese Pietro Dolfino, col
medesimo ghigno arrabbiato dei giorni precedenti, a dire che il vicario non era
lì. Non gli credettero, ma alla fine il suo atteggiamento fermo smontò la loro
determinazione, e per non ripartire a mani vuote requisirono dalle stalle
quattro mule ed il cavallo del Priore.
Tirammo un sospiro di sollievo quando se ne andarono,
ma dissero che avrebbero lasciato guardie al portone: il Dolfino doveva
considerarsi prigioniero della rivoluzione, in attesa che fosse stabilito il
prezzo del suo riscatto. Il Priore li salutò con un’imprecazione che mi parve
una bestemmia.
Mentre rientravo nella mia cameretta, già la mente era
tornata a Nerone. Se ci fosse stato lui, pensavo, avrebbe impedito l’irruzione
di quei marrani. Ecco, dovevo rivederlo per forza, incontrarlo, parlargli, ma
quando?
A dispetto delle mie ansie, non dovetti aspettare
molto: me lo trovai davanti appena la mattina dopo.
Era di martedì, e quando vidi che albeggiava scesi a
prender la cesta coi lini della Cattedrale. Stupita per l’ora presta, la
Badessa mi guardò andare al portone e uscire, ma non mi fermò. Andavo così
lesta che arrivata davanti a San Domenico, svoltando nella contrada
d’Isacchino, per poco non mi feci travolgere dal carretto d’un verduraio.
La Cattedrale non era il convento. Ormai mi
conoscevano in parecchi e non tutti mi trattavano con simpatia.
Ecco la Maddalena! motteggiò un canonico vedendomi salire
al sagrato. Fate passare la monachella! scherzò di rimando un altro che stava
in chiacchiere col primo. Vergini non si torna! crollò il capo un terzo,
provocando una risata generale. La scena si ripeteva spesso, ma quella mattina
ci feci poco caso.
Affrettai il passo, entrai in chiesa e andai dritta
alla sacrestia, lanciando un’occhiata distratta alla bella Maddalena dipinta
sul muro dal Maestro Piero dal Borgo. Sempre la stessa storia, eh? mi chiese il
sacrista vedendomi trafelata, e c’era della compassione nel tono della sua
voce. Controllò che non mancasse niente e rispose con un sorriso al mio inchino
di saluto. Tornai fuori, pronta a subire di nuovo i lazzi degli sfaccendati
canonici.
Ma prima ancora di scendere dal sagrato lo vidi, e non
sentii più nulla e nessuno intorno a me.
C’era parecchia animazione davanti al Palazzo dei
Priori, e lui era là, a cavallo come il giorno prima, bello e risoluto. I miei
passi si rifiutarono di riportarmi verso il convento e così m’intrufolai tra la
gente.
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