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"Dobbiamo
risolvere la questione una volta per tutte!» la voce di Tarlato dei Tarlati
risuonò nel salone del Consiglio Grande. I pugni piantati a mezzo del lungo
tavolo, fissò la teoria di stemmi appesi alle pareti. Guido
Novello si dichiarò d’accordo: «Non possiamo subire oltre le sue continue
altalene. I guelfi son banditi ormai da due anni, Arezzo è ghibellina e per San
Donato ghibellina resterà! Basta compromessi!"
A
sentire la determinazione delle sue parole non sembrava neanche lontano parente
di quel Guido Novello divenuto famoso per le ripetute fughe! Ma Giunta dei
Ricoveri, ultimo tra cotanti signori, conosceva l’animo del Podestà e anche la
tendenza di molti dei presenti a cambiar parere secondo il momento.
Chiese
la parola. «Attaccare il Vescovo non è cosa da poco. Forse è inevitabile ma
occorre quantomeno che siamo tutti d’accordo e che ognuno si esprima
chiaramente. Domando in particolare il parere di suo nipote Guglielmo dei
Pazzi, che è giusto di ritorno dalla spedizione sul San Donato».
Chiamato
in causa, Guglielmo sollevò la testa, buttando indietro la coda di capelli
bianchi, appoggiò la destra sulla cinta che tratteneva la spada, e soppesò le
parole.
«E’
inutile mentire: sapete la mia rabbia e lo scorno seguiti alla spedizione,
interrotta quasi prima che cominciasse. Si sarebbe potuto perfino attaccar
Firenze!» Notò gli sguardi dubbiosi degli uditori. «Comunque sarebbe stata la
volta buona per cacciare i Fiorentini dal Valdarno!» Fece una pausa.
«L’ira
ancora mi sveglia, di notte, e mi costringe a levarmi e darle sfogo camminando.
Sarei dunque ben lieto se invece di parlare voi aveste ucciso Guglielmino a mia
insaputa!»
Misurò
le reazioni dei presenti. Capiva bene che la disputa con Firenze era in realtà
il pretesto per mutare gli equilibri di potere in città, a tutto scapito della
propria consorteria.
«Tuttavia»
proseguì con fermezza, «ora che mi avete messo a conoscenza dei vostri piani,
non posso permettere e non permetterò che si sparga il sangue della mia
famiglia. E mio zio Guglielmino, per quanto tiranno, è l’uomo più importante
che i Pazzi e gli Ubertini abbiano espresso in questo dannato secolo!»
«Dunque
non parteciperete all’azione?» gli chiese il Tarlati.
«Anzi,
se verrete a Civitella mi troverete là, pronto a ricevervi!» Fissò il
Pietramala perché fosse chiaro che non era una vuota minaccia, poi si voltò e
abbandonò la riunione.
Giunta
in fondo se lo aspettava, ma aveva sperato diversamente, convinto che la
compattezza dei maggiorenti avrebbe indotto Guglielmino a desistere. Anch’egli
aveva i suoi conti da sistemare, soprattutto con i consorti Gamurrini. Cacciati
con gli altri guelfi e riparati con i Bostoli a Firenze, un’intesa glieli avrebbe
riportati intorno casa. Non ricordava più quando fossero cominciate le dispute
familiari, né perché, ma col tempo i rancori s’erano incancreniti. Egli stesso
era cresciuto in un clima di odio e minacce, con risse sempre più violente. Il
fatto di abitare vicini, sulla Ruga Mastra, impediva di ignorarsi e
moltiplicava le occasioni di diverbio. Solo Dio sa come s’era riusciti fin lì a
non spargere sangue fraterno.
«Questo
complica maledettamente la nostra spedizione». Le parole di Guido Novello
interruppero le riflessioni di Giunta e riaprirono la discussione. Il Podestà
aveva già perso la sua baldanza e si sentiva ora in una posizione scomoda. Il
Vescovo era padrone di Bibbiena e l’accordo coi Fiorentini avrebbe stretto in
una morsa il suo castello di Poppi. Per di più suo nipote Guido di Battifolle,
guelfo come già il padre Simone, non avrebbe perso l’occasione per attaccarlo: per
lui sarebbe stata la fine. D’altra parte la prospettiva di combattere contro
Ubertini e Pazzi lo rendeva inquieto. Gravato da questi tormenti si lasciò
cadere sulla sedia appoggiandosi allo schienale rivestito di cuoio.
Dubbi
invece non ne aveva Tarlato. La sua famiglia aveva fama d’esser dura come le
pietre simboleggiate nei sei quadrati del suo blasone, stirpe selvatica come i
rovi che circondavano il castello di Pietramala. Covavano un sogno antico, i
Tarlati: metter fine con la forza alle dispute cittadine e dominare Arezzo, farne
una città potente e formare un vero stato ghibellino nel cuore d’Italia.
Tarlato vedeva in quello scontro l’occasione per sbarazzarsi del Vescovo e
della sua schiatta.
«Bando
agli indugi e morte ai traditori! Lo voglio proprio vedere, il Vescovo,
impegnare battaglia contro la sua città. Non è nel suo stile, ma se lo farà,
tanto meglio: lo spazzeremo via! Le truppe son pronte fuori Porta Lodomeri, i
destrieri scalpitano e il nostro animo con loro. Andiamo, dunque, e chiudiamo
questa storia una volta per tutte!» Concluse con lo stesso incitamento con cui
aveva iniziato,
Un’occhiata
di fuoco verso Guido Novello, costrinse il Podestà a recuperare un
atteggiamento risoluto. Ormai nessuno poteva più tirarsi indietro: «Andiamo!»
Uscirono
sulla piazza, dove scudieri donzelli e cavalli bardati li attendevano. Era già
passata l’ora sesta di un’altra bella giornata di primavera, fresca e
ventilata.
Ragazzini
cenciosi si rincorrevano ridendo, una donna sistemò sulla testa la brocca
d’acqua appena riempita alla fontana, i cavalieri partirono al piccolo trotto.
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