Nel pomeriggio
chiaro di lunedì 6 di giugno la mente di Nerone non conservava traccia delle
titubanze, delle incertezze e della vertigine seguita alla liberazione di
Arezzo. Avanzava sulla Cassia Antica verso Quarata, fiero in sella e
l’archibugio a tracolla. Dietro di lui i giovani aretini accorsi alla sua
chiamata, qualcuno a cavallo, spada nel fodero e lancia in pugno, i più a piedi
e dotati solo di picca o bastone, come s’usava un tempo, ma tutti chiassosi e
spavaldi, sospinti dall’entusiasmo per una riscossa finora inattesa ed ora
improvvisamente possibile. Al suo fianco, ancor più fiero di lui, il giovane
Baccio.
Come spesso
accade, i fatti avevano spazzato via i dubbi. Conquistata la libertà, ora si
trattava di difenderla con le armi. Nerone non avrebbe mai pensato ad una
reazione tanto rapida dei Fiorentini: appena due giorni dopo la presa del
Palazzo dei Priori le loro truppe erano già a Quarata, un borgo a neppure
quattro miglia dalla città, da sempre amico della Dominante. E Vitellozzo
ancora non si vedeva. Per fortuna il giorno prima erano arrivati almeno i suoi
Capitani, quel Burchio, un aretino famoso per essersi fatto un nome lontano
dalla sua terra, e suo figlio che ne seguiva le orme.
In città era
corsa voce che a capo delle genti fiorentine ci fosse nientemeno che il
Commissario Generale dell’esercito, Antonio Giacomini, per tutti il Giacomino.
Evidentemente la rivolta aveva messo loro paura.
I Capitani di
Vitellozzo non ci misero molto a decidere. Gli Aretini s’erano impadroniti
della città, ma restavano saldamente in mano nemica le due fortezze cittadine,
vale a dire la Cittadella e il forte di San Clemente, costruito sulla Porta che
guardava verso Quarata. Loro avevano per ora solo i centocinquanta cavalli
mandati da Vitellozzo, e restando in città sarebbero stati schiacciati prima
dell’arrivo di qualsiasi soccorso. D’altra parte i Fiorentini non potevano aver
messo insieme troppa gente, in così poco tempo, e per di più non conoscevano la
consistenza delle forze aretine: uscendogli incontro li avrebbero colti di
sorpresa.
In tarda
mattinata Burchio convocò Nerone: «Radunate quanti più fanti vi riesce, e
procurate trombetti, e scudi e pentole, e quello che volete, purché faccia
chiasso. Ho saputo che hanno intenzione di entrare in città domattina per la
Porta di San Clemente, ma noi li anticiperemo. Oggi stesso, all’ora nona,
usciremo per andare a stanarli. Per via vi spiegherò il piano».
«Ma così non mi
date che poche ore di tempo!»
«Preferite
trovarveli sotto le mura? Conosco il Giacomino, e c’è un solo modo per
batterlo: usare la testa»
Nerone voleva
replicare.
«Fidatevi! E
datevi da fare!»
Quando le
campane di città dettero il rintocco di nona, una folla di giovani usciva dalle
mura dietro ai cavalli di Burchio.
«Allora, questo
piano?» Sul corpetto imbottito e sulla cotta lunga di maglia, all’antica,
Nerone indossava la sopravveste col cavallo nero e il motto sul piccolo cane
che tiene a bada il cinghiale.
«Tra un po’ i
vostri ragazzi si fermeranno e andremo incontro al Giacomino solo con i cavalli
»
«Ma…»
«Niente ma.
Soltanto se ci vedranno in pochi lasceranno il castello di Quarata ed
accetteranno battaglia. Quando li avremo di fronte daremo il segno dell’assalto
e i vostri avanzeranno, facendo parecchio rumore. Dovranno allargarsi e
sollevare un polverone. I Fiorentini crederanno d’aver di fronte l’intero
esercito di Vitellozzo e si pisceranno sotto».
Burchio spronò
il cavallo. Davanti a loro un mezzo miglio, lungo la via diritta, c’erano tre
case, luogo detto la Querciola per la presenza d’un albero isolato, un ombroso
gigante che doveva esser modesto quando dettero nome al posto. In fondo alla
piana, il castello di Quarata era quasi coperto alla vista dalla polvere dei
Fiorentini che abboccavano all’esca.
Raggiunte le
case, Burchio arrestò il suo improbabile esercito e fece un cenno a Nerone:
«Siete l’unico con l’artiglieria. Avete intenzione di usarla?»
Nerone smontò.
Intorno gli si fece silenzio.
«Perché
smontate?»
«Non vorrete che
spari stando a cavallo!»
Burchio rise,
senza dargli spiegazioni: «Va bene, ma spicciatevi, sennò quelli arrivano prima
che siate pronto».
Nerone si sfilò
l’archibugio dalle spalle, ne aprì lo scodellino, vi svuotò la polvere fine
d’uno dei dosatori di legno che gli pendevano dalla tracolla. Con gesti sicuri
richiuse il coperchio, appoggiò a terra il calcio dell’arma, infilò dalla canna
la polvere grossa e poi una delle palle che teneva nel sacchetto legato alla cintola.
Una buona pressione con la bacchetta di legno spinse il proiettile in fondo
alla culatta e compresse a dovere la polvere. Poi riportò l’arma sotto il
braccio, in posizione orizzontale, trasse dal sacchetto l’acciarino e vi sfregò
sopra la pietra focaia. L’estremità della miccia che pendeva dalla serpentina,
impregnata di salnitro, s’accese subito. Un filo sottile di fumo si levò dalla
corda.
Nel frattempo i
cavalieri di Burchio s’erano schierati. I Fiorentini avanzavano, non più
lontani di cento, centoventi passi al massimo. Il dito di Nerone carezzava la
leva sul coperchio dello scodellino, la miccia bruciava bene, lentamente. Portò
il calcio alla spalla e la gamba sinistra avanti, per bilanciare il rinculo.
Molti appoggiavano la lunga canna su una forcella puntata a terra, per meglio
sostenere il peso dell’arma, ma a Nerone quell’aiuto non serviva.
Il nemico era ad
un’ottantina di passi. Su, venite avanti, ancora un po’, ecco, così… Era calmo.
Riaprì il fornello e tirò il grilletto. La serpentina s’abbassò e la fiammata
partì, improvvisa come un lampo. Poi, con la potenza del tuono, l’esplosione
della polvere grossa scagliò in avanti il proiettile con forza devastante. Per
il contraccolpo la spalla di Nerone ebbe uno scatto, ma lui restò ben saldo ad
osservare la traiettoria della palla verso lo schieramento nemico. Centro! Un
cavaliere, disarcionato, stramazzò.
«All’attacco!
Avanti! Avanti!»
Scaricando la
tensione accumulata durante i preparativi di quell’unico tiro d’archibugio, i
cavalli di Burchio si lanciarono contro i Fiorentini mentre, dietro, i ragazzi
d’Arezzo urlavano e si davano a corsa, sollevando il polverone d’un intero
esercito.
Lo scontro fu
questione di minuti. Usciti da Quarata pensando d’andare contro ad un manipolo
di temerari, i cavalieri di Firenze si disorientarono subito e si sbandarono,
rinculando dapprima per poi fuggire disordinatamente. Alla fine lasciarono sul
campo alcuni morti, diversi feriti e una ventina di prigionieri nelle mani
degli Aretini, i quali da parte loro contarono due sole perdite.
A giudicar
dall’ombra che proiettavano sul terreno davanti a loro, non erano passate
neanche due ore da quando erano usciti dalla città, e già vi tornavano da
trionfatori.
Burchio allungò
una pacca sulla spalla di Nerone che cavalcava al suo fianco: «Visto? Erano
molti più di noi, non meno di quattrocento certamente, ma son caduti nella
nostra trappola»
«Non mi pare
d’aver visto il Giacomino, tra loro»
«Che v’importa!?
Li abbiamo messi in fuga ed è quello che conta! E se non vi basta, provate ad
immaginare cosa succederà all’arrivo di Vitellozzo con tutte le Compagnie!»
«D’accordo, come
primo giorno non c’è male»
«A proposito:
complimenti per la mira!»
Ad esser
sincero, Nerone aveva puntato quello che pareva il Comandante, due cavalieri
più a mancina, ma non stette a sottilizzare e si guardò bene dal dirlo, tanto
più che Burchio sembrava già pensare ad altro.
«Il giorno non è
ancora finito. Lo sapete che si fa, ora? Si rientra in città per la Porta di
San Clemente, l’unica che ancora non è nostra. Oggi mi sento fortunato».
Era proprio
matto, accidenti, ma un matto che sapeva far la guerra. Per assalire il forte
che difendeva la Porta di San Clemente ci voleva l’artiglieria, quella vera,
cannoni o sagri che fossero, che però sarebbe arrivata, forse, con Vitellozzo.
Ma alla Querciola s’era vinto e se Burchio diceva di andare a prendere San
Clemente, San Clemente sarebbe stato nostro. Nerone si girò ai suoi e gridò: «A
San Clemente!»
«Viva!»
Il castellano di
San Clemente s’aspettava di veder arrivare le Compagnie del Giacomino con i
prigionieri aretini. Ritrovarsi ora assediato, a parti esattamente invertite,
lo gettava nello sconforto.
Non disponeva
che d’un pugno di uomini, e soprattutto non aveva assolutamente viveri per
pensare a resistere. Le due fortezze di Arezzo eran collegate da quello che
chiamavano Corridoio Fiorentino, un camminamento protetto ed esterno alle mura,
che permetteva di passare dall’una all’altra senza attraversare la città. Ma
quelli riparati in fretta su alla Cittadella non eran neppure in grado di
difendersi per sé, figuriamoci di portare aiuto a San Clemente, e da lì, per
imboccare il Corridoio e rifugiarsi in Cittadella con gli altri, bisognava
comunque uscir dalla Porta. Il castellano rimpianse di non averci pensato per
tempo. Adesso era in trappola.
Sotto le mura
Burchio aveva schierato gli uomini: «Coraggio, Nerone, andate a reclamare il
forte per conto degli Aretini».
Non se lo fece
ripetere: «Ehi, voi! Aprite la Porta ai vincitori!»
Silenzio.
«C’è il castellano?»
Ancora silenzio,
rotto però quasi subito dalle grida d’esultanza d’una torma di donne e ragazzi
che s’erano ammassati nello spiazzo interno alla Porta: qualcuno aveva portato
in città la notizia della vittoria alla Querciola. Un fitto lancio di sassi
prese di mira le feritoie del forte, mentre dalle milizie di Nerone,
all’esterno, partì qualche tiro di balestra verso la merlatura.
Alla fine
comparve sulla torre una bandiera col giglio di Firenze e la voce del
castellano si fece sentire, cercando di sembrar sicura.
«In nome della
Repubblica vi ordino…»
«Mostratevi, se
siete uomo!»
«… Vi ordino di
tornare a casa!»
«Arezzo è casa
nostra. Aprite la Porta e consegnate il forte. Subito!»
Urla e minacce
si alzarono dalla milizia.
Come si
smorzarono, dall’altra parte si levò forte il coro delle donne.
«Libertà,
libertà! Pane, pane! Palle, Palle!»
Il castellano
fece capolino di fianco alla bandiera: «Cercate di ragionare!»
«Vengo su e
ragioniamo!» La risposta di Nerone, gridata d’istinto, sorprese il castellano ma
anche gli assedianti. Gli si fecero intorno in diversi per dissuaderlo, ma lui
era già smontato, affidò l’archibugio a Baccio e s’avviò al massiccio portone.
«Veniamo su e
ragioniamo!» Nofrio Roselli si ricordò allora d’esser tra i capi della rivolta
e corse dappresso a Nerone.
Burchio, preso
alla sprovvista, cercò almeno di fermare il Roselli: «Se vi prendono prigioni
per noi si mette male».
«Non accadrà.
Sono paralizzati dalla paura e cercano un modo per uscirne. Lasciate fare a
noi»
«Allora!?»
Nerone era alla Porta. «Volete parlare o temete anche due uomini inermi?»
L’angusto
portoncino che permetteva il passaggio a piedi nelle ore di chiusura del
battente grosso s’aprì d’un palmo e il bianco faccione d’un soldato controllò
che i due fossero davvero soli e disarmati. Poi li lasciò entrare.
«Come vedete
sono sceso di persona» disse il castellano.
Nerone andò per
le spicce: «E avete fatto bene. Immagino che abbiate ben presente la
situazione. Arrendetevi e nessuno si farà male»
«Anche volessi,
non posso: ho ordini precisi»
«Suvvia,
castellano». Il Roselli cercò di esser più convincente. «I vostri ordini non
v’impediranno di ragionare. Chi volete che vi accusi per una resa onorevole? Vi
offriamo il massimo che si usa in casi come questo: salva la vita e le cose,
per voi e l’intera guarnigione, e ci mettiamo in aggiunta un tranquillo ritorno
a Firenze appena sarà possibile».
Il castellano
non pensò più di convincerli a desistere, se mai una tale illusione l’aveva mai
sfiorato. L’unica era ottenere adeguate garanzie.
«Nessuno di noi
può pagare riscatto»
«E nessuno lo
chiederà» promise Nerone. «Finita questa guerra ve ne tornerete a casa, e pace
per tutti».
Il Roselli
rincarò: «E se prima d’allora ci sarà modo di scambiar prigionieri, sarà quello
il vostro riscatto».
Il castellano
sembrò pensarci. Poi crollò il capo: «La fate facile, ma in ogni rivoluzione ce
n’è di teste calde, e in Arezzo non mancano di certo. Non mi fido. Chi
garantirebbe la nostra incolumità?»
«Noi. Anzi, io!»
assicurò Nerone. «Sarete ospite in casa mia, e voglio vedere chi verrà a
molestarvi». Lo fissò negli occhi: «Ospite, capite?»
Il castellano si
tormentava le mani, nervoso. Ormai lo avevano in pugno e Nerone non era tipo da
mollar la corda quando l’altro cede: «Andiamocene, Nofrio. Se al fiorentino,
qui, la nostra offerta non piace, non lo possiamo costringere. Vorrà dire che
resteremo all’assedio: il tempo non ci manca, e neppure i viveri. E appena
arriva il Vitelli con l’artiglieria…».
L’ultima carta
del castellano: «Potrei impedirvi di uscire».
Nerone avvampò:
«Provate a fermarci, se avete fegato!» Gli si avvicinò minaccioso: «Ogni
rivoluzione mette in conto qualche morto, e noi due non siamo insostituibili,
ma per l’arrivo di Vitellozzo è solo questione di giorni. Pochi giorni.
Andiamo», aggiunse poi rivolto a Nofrio, «con questo è tempo perso!»
«Aspettate… va
bene… ci sto. Garantite voi, però, come avete promesso»
«Questo si
chiama ragionare!». Il Roselli tirò un respiro: «Disarmate voi stesso la
guarnigione e badate che si chiudano nel corpo di guardia, per la loro salute.
Poi salite a tirar via il giglio dalle mura di Arezzo ed annunciate a tutti la
vostra decisione esponendo un drappo bianco. Rimanete di sopra finché non
saremo in grado di prelevarvi in tutta sicurezza».
«La Porta…»
Nerone allungò
la mano: «Qua le chiavi! Ci pensiamo noi».
Quando
all’esterno le grida d’esultanza annunciarono che la resa era pubblicata,
Nofrio fece girare il chiavistello e Nerone cominciò a sfilare la pesante
stanga, solitamente lavoro d’un paio d’uomini. Un rumor di ferraglia e un
cigolar di catene accompagnò la lenta salita della saracinesca: anche San
Clemente era adesso nelle mani degli insorti.
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