venerdì 29 maggio 2020

EPISODIO 36 - CENA A BIBBIENA



Capitani dell’oste aretina sedevano a tavola e si poteva pensare ad un banchetto tra nobili, un’occasione di festa o la firma d’un qualche patto.
In realtà la cena era l’occasione per fare il punto delle forze adunate e concertare il loro schieramento in battaglia e la tattica da seguire. La discussione s’intrecciava animata quando Mauro fece il suo ingresso nel salone.
Stava parlando il Capitano di guerra Buonconte da Montefeltro, che poco prima aveva ascoltato il resoconto degli esploratori..
«Sono accampati a Monte al Pruno, poco sotto la Consuma, e da ieri stanno facendo razzie sulle terre dei Guidi».
«Proprio così» confermò preoccupato Guido Novello. «Mi consola il fatto che non hanno risparmiato neppure i beni di mio nipote Guido di Battifolle»
«Come sarebbe, vi consola?» si meravigliò il vessillifero imperiale, Guiderello di Alessandro da Orvieto.
«E’ di parte guelfa, mio nipote, ma a quanto pare non gli è bastato a salvar le sue campagne dal saccheggio». Poi si rivolse al Vescovo per dare assicurazione sul resto della famiglia: «Guido di Romena, però, e Tegrimo di Porciano hanno già riunito i loro uomini ai miei e ci aspettano a Poppi»
«Certo che se i Guidi fossero stati uniti e forti come ai tempi del primo Guido Guerra e della contessa Matilde, i guelfi neanche avrebbero pensato di passare in Casentino» commentò Neri Piccolino degli Uberti, giovane fiorentino, nipote di quel Farinata che aveva impedito la distruzione della sua città dopo la battaglia di Montaperti. Ghibellino e per questo esule da Firenze, Neri era alla sua prima vera battaglia e aspettava impaziente lo scontro per rientrare in città e riprendersi i beni di famiglia. La sua osservazione provocò un accesso d’ira nel sessantenne Podestà.
Storia complicata, quella dei Guidi, fatta di violenze e di lotte fratricide. Dopo il Mille possedevano vasti territori sui due versanti dell’Appennino: una fortuna messa insieme con matrimoni ben combinati e amicizie importanti, dalla contessa Matilde di Canossa all'imperatore Federico Barbarossa. Poi un altro Guido, il settimo della discendenza e il terzo o il quarto chiamato Guerra, detto il Vecchio, figlio del feroce conte Bevisangue, frazionò quell’impero, dividendo i beni tra i suoi cinque figli maschi, e cominciarono i contrasti e la decadenza. Oltretutto Simone di Battifolle, fratello del nostro Podestà, era passato nel '73 al campo guelfo, e Guido Selvatico, suo nipote di secondo grado e parente da parte di moglie del capitano Buonconte, era schierato nelle fila fiorentine, nemico dei suoi stessi parenti. Per questo le parole di Neri bruciarono come uno schiaffo.
Guido Novello scattò in piedi per ribattere a quello sciocco giovane che se in Firenze i nobili si fossero fatti valere come in Arezzo o in Pisa, se quel giorno del ’60, ad Empoli, Farinata avesse accettato di far piazza pulita, forse non ci sarebbe stato bisogno di una nuova Montaperti. Venne prevenuto però dal Vicario Imperiale, Percivalle dei Fieschi, che chiese ai Capitani di guerra se si avesse idea della consistenza del nemico.
«Sono numerosi» rispose stavolta Guglielmo dei Pazzi, seduto alla destra dello zio Vescovo: «Molto numerosi: i loro cavalieri sono il doppio dei nostri e contano su almeno diecimila fanti».
Guido Novello si rimise a sedere. Lapo degli Uberti, parente più anziano di Neri, gli lanciò un’occhiataccia.
Prese invece la parola un altro bandito fiorentino, Dante degli Abati: «Non abbiate timori. Li conosco bene: se si eccettua il cavaliere provenzale e pochi altri, i loro milites sono meno esperti di noi, molti hanno lasciato le botteghe per venire alla guerra, e non vedono l’ora di tornarvi. Per tanti di loro è stata già un’impresa valicare la Consuma».
Il cavaliere provenzale altri non era che Guillaume Bertrand de Durfort, conte di Artois, già maresciallo d’Albania e governatore del ducato di Durazzo, lasciato a Firenze da re Carlo come balio di Aimeric di Narbona.
«Ricordatevi di Montaperti» proseguì il fuoriuscito. La battaglia vinta dai ghibellini alle porte di Siena nel ’60, era ancora nei pensieri di ognuno dopo quasi trent’anni: fu il trionfo della cavalleria e dei valori feudali. I più anziani dei presenti erano vissuti nel ricordo di quella giornata e i più giovani ne erano stati nutriti allevati cresciuti.
«Anche a Montaperti i Fiorentini soperchiavano i Senesi per numero. Anche sull’Arbia i loro cavalieri erano quasi il doppio, e più di una volta e mezzo i pedoni, e tuttavia l’impeto dei ghibellini li sorprese, li sbandò, e li vinse»
«Il nobile Abati ha ragione, per san Donato!» sbottò Tarlato, che aveva ascoltato con malumore il rapporto preoccupato dei Capitani. «Come potremo riportar vittoria, se il nemico ci ha intimorito con la sua sola presenza?»
Guglielmo Pazzo si alzò con tutta la sua mole, rovesciando la sedia. Puntò il dito contro chi aveva osato mettere in dubbio il suo coraggio, ma il Vescovo gli posò una mano sul braccio: «Moderate il vostro dire, Pietramala. Misurare le forze del nemico prima dello scontro non è codardia ma saggezza: useremo la foga delle passioni per infiammare gli animi dei nostri, quando verrà il momento. Proseguite, Guglielmo».
Il Tarlati tornò a sedersi e il Pazzo si rivolse al fiorentino: «Avete ragione sul conto dei vostri conterranei, che son più avvezzi a farsi belli che vigorosi, ma le spie riferiscono che sono ben armati e molto convinti di dar battaglia. Hanno le balestre grosse e molti archi».
Un mormorio di disprezzo corse per la tavola: le antiche regole cavalleresche consideravano immorale l’uso di armi in grado di uccidere da lontano, senza che chi colpisce sia a sua volta esposto al pericolo di essere colpito, dove non contano abilità e forza, ma solo la precisione del tiro, quasi che il nemico sia un animale da cacciare e non un avversario col quale misurarsi.
«Porteremo noi il primo assalto» propose Guido Novello. «Dovremo predisporre una folta schiera di feditori per sfondare il loro fronte e metterli in fuga»
«Potremo scegliere da che lato disporre le nostre schiere?» chiese un altro fiorentino, Ciante dei Fifanti.
«Il campo è già scelto» gli rispose Guglielmo Pazzo «l’oste guelfa scenderà dal Borgo alla Collina e si schiererà al margine della piana dalla sua parte. Noi invece ci porremo dal lato di Certomondo, a noi più prossimo: oltretutto saremo in favore di sole e il castello di Poppi ci coprirà le spalle. Non dimenticate un particolare: il convento francescano di Certomondo fu fatto costruire proprio dal nostro Podestà dopo la vittoria di Montaperti»
«Mi sembra di buon augurio. Per quando sarà?»
«Sabato, signori» annunciò il Vescovo «il sabato di san Barnaba, sulla piana di Campaldino».
Un mugugno sfuggì a Guido Novello attirando su di lui l’attenzione degli altri, ma il conte non parve intenzionato a dar conto del proprio brontolio, ed allora fu lo stesso fiorentino a rinfrescar la memoria dei presenti.
«Già» ricordò Ciante «sabato fanno giusto vent’anni dalla battaglia di Colle».
Era un lunedì, l’undici di giugno del ’69, giorno di san Barnaba, e i Fiorentini, decisi a vendicare la sconfitta di Montaperti, attaccarono l’accampamento ghibellino a Spugnole, nei pressi di Colle nella Valle dell’Elsa. Provenzano dei Salvani comandava gli armati di Siena. A capo degli alleati c’era Guido Novello, che si dette alla fuga causando la disfatta dei ghibellini. Provenzano rimase ucciso e la sua testa mozza fu infilzata sulla punta d’una lancia e portata per tutto il campo di battaglia.
Per la qual cosa, poco tempo appresso, i fiorentini rimisono in Siena i guelfi usciti, e cacciarne i ghibellini, e pacificarsi l’uno comune coll’altro, rimanendo poi sempre amici e compagni. (G. Villani – Croniche, VII, 31)
Il Vescovo, come sempre di poche parole e di modi spicci, troncò netto: «Meglio. Ci rifaremo anche di questo. Buonanotte».
La cena era finita e la riunione sciolta. I commensali s’avviarono ai propri alloggi scambiandosi pareri. Guglielmo dei Pazzi lanciò un’occhiata ostile all’indirizzo del Pietramala.

Giovane Mauri, venite avanti».
Il nostro Mauro s’era fermato in piedi a lato della porta e da lì aveva seguito la conversazione, e non gli era sfuggito il nervosismo tra i presenti. Si aspettava più baldanza in quegli spiriti coraggiosi, e pur convenendo che fosse saggio mostrarsi prudenti di fronte al nemico, si sarebbe sentito più tranquillo se avesse letto nei loro occhi una maggior fiducia nella vittoria.
S’avvicinò al tavolo dove Guglielmino era rimasto seduto.
«Vi ho fatto chiamare perché mi han detto che eravate dei nostri e volevo capire il motivo della vostra presenza. Non vi avevo forse dato dispensa?»
Mauro avvampò: «Se non lo sapete voi, che quella dispensa avete tolta appena un giorno dopo averla concessa!»
«Giovanotto, non siate insolente! Il vostro Vescovo non si è mai rimangiato la parola data»
«Ma come! E il messo?»
«Quale messo? Io non vi ho mandato a dire niente»
«Quello di Campoleone, che si è presentato la mattina dopo le nozze»
«Non so cosa vi abbia detto e non m’importa. Che ho da spartire io, con l’Abate di Campoleone?»
Mauro restò confuso: «In verità non ha parlato. Credevo di aver capito il motivo della sua presenza e non gli ho neanche permesso di riferire il suo messaggio»
«Bene. Mi pare che il malinteso sia chiarito. Ignoro le intenzioni dell'Abate nei vostri riguardi, ma siamo ancora in tempo e per me ve ne potete tornare alla vostra sposa».
Frastornato, Mauro abbozzò un inchino avviandosi verso la porta. Si fermò però prima di raggiungerla.
«Forse è stata la mia coscienza» borbottò.
«Che dite?» chiese il Vescovo che per la distanza non aveva compreso le parole del giovane.
Le mani di Mauro cominciarono a sudare. «Se permettete, vorrei rimanere». Il pensiero della Berta gli chiuse lo stomaco, ma ormai non poteva tornare a casa a testa alta.
«Avvicinatevi. Siete convinto di questa decisione?»
«Lo sono».
I piccoli occhi del presule frugarono nell’animo di Mauro, e lo trovarono sincero: «Bene. Domattina presentatevi da me insieme al vostro scudiero: resterete al mio fianco fin dopo la battaglia. Sarete della mia scorta e mi farete da portaordini»
«Io? Ma non ho esperienza!»
«Ecco una buona occasione per farvene. Ora andate».
Mauro lasciò la sala accompagnato dallo sguardo compiaciuto di Guglielmino.

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