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"Il
vescovo è tornato!"
«Pietro,
che dite? Guglielmino è in città?»
«Precisamente!
Da ieri mattina è di nuovo nel suo palazzo. Caro Bencio, avreste dovuto
vedere!»
Pietro
smontò da cavallo e si avvicinò al Moro, seduto sul suo masso a godersi il
tiepido sole pomeridiano dell’ultimo lunedì di marzo. La Berta e Mauro, usciti
a passeggio tra le viti, rientrarono di corsa.
«Figuratevi:
non era ancora sceso di sella e già dava ordine di liberare i prigionieri di
San Salvatore. Naturalmente il Podestà e il Capitano del Popolo avevano deciso
per conto loro di dar libertà a tutti. Del resto erano solo ostaggi per
ricattar Guglielmino».
Il
Moro, ancor più affascinato dal Vescovo dopo la sua visita a Muciafora dello
scorso inverno, considerava ogni avversario del presule come suo nemico
personale, e sbottò: «Vigliacchi! Usare gente innocente invece di affrontarlo
schiettamente!»
«Oh,
per quello lo avrebbero fatto, e senza indugi, ma ancora una volta li ha messi
tutti nel sacco! Alla Ruga Mastra, ieri mattina, ho visto Giunta dei Ricoveri,
e mi ha riferito che i Capitani dell’oste comunale han discusso animatamente
tutta la notte, ma ieri mattina son tornati in città».
«Si
sarà pure evitato uno scontro fratricida» fece Mauro crollando il capo, «ma mi
par che abbiano fatto i conti senza Firenze. I guelfi aretini speravano con la
trattativa di rientrare in città, ed ora staranno fissi in San Giovanni a
insistere sui Priori perché ci attacchino!»
Un
lungo silenzio sottolineò l’incertezza per l’immediato futuro, mentre in cielo
il vento addensava pesanti nubi. Pietro tentò di stemperare la tensione e si
rivolse a Bencio: «Almeno ora potete tornare a casa». Poi, verso i due giovani:
«E possiamo discuter delle vostre nozze!»
E
quella stessa sera, davanti al focolare, Bencio e Pietro, presente anche Mauro,
discussero i termini delle nozze: la dote, i rapporti economici tra le due
famiglie, il contributo alle spese nuziali e altri particolari, compresa la
data. Avrebbero presentato gli sposi al giudice nel primo sabato di giugno, e
organizzato la festa a Muciafora per il giorno dopo, con tanto di messa solenne
nella Pieve di Santo Stefano e un banchetto, assicurò Pietro, come da quelle
parti non se n’erano mai visti.
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All’alba
un sole combattivo cercava di farsi largo tra le nuvole che opprimevano il
cielo sopra Muciafora.
La
pioggia era caduta incessante per tutta la notte e anche adesso cumuli scuri
avvolgevano il profilo del Pratomagno, minacciando l’arrivo di nuovi scrosci.
Padre
e figlio partirono di buon mattino, per accompagnare in città mastro Bencio e la
Berta, che potevano far ritorno a casa ben prima di quanto avessero sperato.
Non c’era stato tempo di attuare i buoni propositi della fanciulla per la
visita alle Pievi. Meglio così: ci sarebbe stata occasione, per adempiere ai
voti.
Entrarono
in Arezzo dalla Porta di San Clemente ormai riaperta. Nella contrada del
Fondaccio Oddo notò un gran via vai di armati, a coppie o in piccoli drappelli:
ronde del Comune ma anche squadre coi colori di varie casate. Al suo occhio non
sfuggì l’atteggiamento guardingo di ogni gruppo verso gli altri che incrociavano
o stazionavano ai canti delle vie. Fece un cenno ai suoi armati perché stessero
all’erta, mentre né Pietro né il suo ospite, ragionando ancora delle nozze,
s’erano accorti di nulla, e ancor meno i due giovani, che cavalcavano appaiati
davanti a tutti e non avevano occhi che l’uno per l’altra.
«Si
potrebbe far dire messa anche in San Marco, qui al Murello, dai vostri monaci
di Campoleone» argomentò il vasaro mentre abbozzava un rapido segno di croce
all’indirizzo d’una chiesetta. «Al sabato, dico, dopo che siamo stati dal
giudice e s’è firmato le carte. Oh, all’offerta per il convento ci penserei io,
naturalmente!»
Quattro
armati stazionavano intorno ad un pozzo, nel canto della contrada delle
Paniere. Li comandava un cavaliere con l’arme dei Tarlati che, affidato al donzello
il suo baio, si appoggiava al muro d’un orto, col piede destro sull’ovale d’un
paracarro posto proprio nel cantone. Pareva ragionare coi suoi, ma gli occhi
perlustravano il Fondaccio, soprattutto in direzione di San Domenico.
Bisogna
dire, per chi non sia pratico di Arezzo, che poco più avanti, nel canto col
borgo di San Vito, sorgeva il palazzo di città degli Ubertini. Era un
palazzotto arcigno, costruito con pietre ben sbozzate che il tempo aveva annerito
quanto basta per renderlo severo ed ostile, tanto che la Berta, ogni volta che
vi passava davanti, attraversava istintivamente la via tenendosene lontana.
Lungo il Fondaccio si ergeva il fianco di tramontano, un muro sul quale s’apriva
soltanto la porta della stalla e più in alto quattro finestrelle, poco più che
fessure verticali. La lunghezza del muro lasciava intendere un edificio più
vasto della torre d’angolo che lo sovrastava.
«Dove
andate? Tornate qui!» Mauro ebbe un attimo di stupore perché la Berta, come
sempre, aveva tirato il suo cavallo via dal centro della strada, verso le case
sul lato di mancina. Fece per rispondergli, quando l’uscio della stalla si
spalancò e ne uscirono di corsa e con gran fracasso uomini armati di picche lunghe.
Subito dietro di loro irruppero due tre cinque cavalieri, i morsi delle bestie
a stento trattenuti dai palafrenieri.
L’improvviso
sconquasso colse tutti di sorpresa. Mauro, trovandosi il più vicino alla porta
e distratto a richiamare la sua bella, venne quasi travolto dall’incursione. Il
suo cavallo scartò di lato e si inalberò, mulinando gli zoccoli sulla testa di
un pedone, che lo respinse agitando la picca, col risultato di imbizzarrire ancor
più la bestia. Gli altri, dietro, tentarono a loro volta di trattenere le
proprie cavalcature e Bencio, facendo girare il suo bigio su se stesso, non riuscì
ad impedirgli di toccare col posteriore la groppa del cavallo di Mauro, che
scattò in avanti disarcionando il giovane e gettandolo nella fanghiglia frutto
della pioggia notturna; galoppò poi scomposto verso San Domenico, via da quella
confusione!
«Mauro!»
risuonò tra i muri il grido della Berta, che aveva un bel daffare d'altronde a
tener buona la sua puledra, così come suo padre e Pietro. Il solo Oddo si
riprese subito dalla sorpresa e si frappose tra il malcapitato padrone e gli
sgherri degli Ubertini.
Anche
fra quelli non mancò lo scompiglio: usciti come al solito in modo irruente
senza curarsi se la via fosse sgombra, si ritrovarono tre fanti lunghi distesi
nel fango e gli altri in forte affanno per contenere la furia dei destrieri. Il
primo a riprendere in mano la situazione fu il vecchio Guglielmino.
«Ancora
il giovane Mauri! È destino che non vi teniate in piedi ogni volta che ci
incontriamo» motteggiò. L’ironia ferì Mauro più d’uno schiaffo. Mentre Oddo
metteva il suo cavallo di traverso tra i due, il giovane inzaccherato scattò in
piedi. Avvertì però una fitta al gomito sinistro, rimasto sotto il fianco nella
caduta, e toccandosi si ritrovò la destra lorda d’un escremento di cavallo reso
viscido dalla pioggia. La risata di Guglielmino lo mandò in bestia e la sua
mano corse all’elsa della spada.
Pietro
lo chiuse tra il suo cavallo e quello di Oddo. Mauro fece per protestare ma suo
padre non lo guardava più, puntando invece gli occhi oltre le spalle
dell’Ubertini e poi dietro di sé: il gruppetto dei Tarlati s’era schierato,
armi in pugno, al centro della via dal lato della porta di San Clemente, mentre
un altro drappello, con le sopravvesti dello stesso colore azzurro e con i medesimi
sei quadri d’oro, sbarrava il passaggio verso San Domenico. Crebbe l’ansia tra
gli uomini d’arme perché nessuno capiva le intenzioni della gente al soldo dei
Pietramala.
«Ehi,
voi!» gridò Guglielmino all’indirizzo del cavaliere che li comandava, «lasciate
il passo!» Ma il giovanotto lo ignorò e si rivolse invece a Pietro: «Tutto a
posto, messer Mauri?»
«Liberate
il passo!» insisté il Vescovo con durezza, ma il Tarlati non si mosse.
«Tutto
bene, è stato solo un incidente» lo rassicurò infine Pietro: «Non datevi pena e
non create disordine».
Allora
il giovane voltò il cavallo e tornò al pozzo con i suoi, mentre il drappello
dal lato di San Domenico sparì così com’era apparso.
Smontata
ed affidata la puledra ad un servo, la Berta s’affrettò a soccorrere il suo
Mauro, il quale però la scansò bruscamente, riprendendo rabbioso a scollarsi di
dosso fango e sterco. Anche Guglielmino era furente per quell’ingerenza
offensiva, ma si dominò e decise che fosse più giusto occuparsi della sua
vittima involontaria.
«Ho
provocato io la vostra caduta» gli si rivolse, assumendo ora un’aria paterna,
«ed è mio dovere rimediarvi: entrate nella mia casa, le donne vi aiuteranno a
ripulirvi».
Ma
l’invito non servì a placare l’ira di Mauro, che si diresse brontolando verso
il pozzo presidiato dai Tarlati. Ne scansò uno in malo modo mentre gli altri
gli facevano largo nauseati dalla puzza. Afferrata la corda, tirò su la secchia
piena d’acqua e se la rovesciò in capo. Poi si mise a nettare con cura le
macchie rimaste, anche per sbollire la rabbia.
Intanto
era tornata la calma, nella contrada del Fondaccio. Oddo recuperò il cavallo di
Mauro, che rimontò in sella.
«Dunque
volete prender moglie». Mentre si avviavano, Guglielmino cercò di riannodare il
colloquio con Mauro.
«Col
consenso di mio padre e di messer Bencio, Berta ed io ci siamo promessi la
fedeltà e l’amore necessari a metter su famiglia». L’anziano presule lanciò un’occhiata
alla futura sposa e dovette ammettere in cuor suo che i modi da popolana della
ragazza non sminuivano una bellezza schietta e fin delicata.
Lo
assalì un’onda di ricordi: il pensiero di una remota gioventù, quando non era
stato insensibile al fascino femminile e la carriera ecclesiastica, l’impegno
politico, la fede sincera non gli avevano precluso passioni più terrene. Gli
anni avevano lavato da quegli errori giovanili ogni ombra di rimorso, se mai ne
avesse provato, consegnandoli alla sua memoria coperti soltanto di nostalgia.
Allora, rifletté, avrebbe certamente saputo apprezzare le grazie della Berta e
questo giovanotto gli sarebbe parso come un rivale con cui misurarsi baldanzoso.
Con
un gesto nervoso della mano scacciò i ricordi e disse brusco: «Queste nozze non
si faranno!»
La
Berta sbiancò. Mauro arrestò il cavallo e portò di nuovo la mano all’elsa, in
un ribollir di sentimenti. Gli altri ammutolirono, fermi sullo spiazzo davanti
alla fabbrica di San Domenico, di cui cominciavano a vedersi, tra i palchi di
legno del cantiere, le linee della facciata, semplice ma solenne, elegante
eppur severa.
«A
meno che» Guglielmino sembrava giocare col nervosismo di Mauro, mentre la bocca
gli si piegò in un sorriso cui il giovane non riuscì a dar fiducia. «A meno che
non sia io a mettervi il sigillo con una messa solenne nella nuova Cattedrale».
Il
sangue tornò a scorrere nelle vene della promessa sposa e a tingerle le gote,
mentre Bencio dava fiato ad un’improvvisa euforia: «Ma certo, ma certo! E come
potremmo dir di no. E’ per noi un onore, un grande onore. Dicevamo appunto dianzi
con messer Mauri, qui, che dopo esser stati dal giudice e aver firmato le
carte…» Guglielmino lo zittì alzando la mano protetta dalla cotta di maglia,
senza togliere gli occhi di dosso a Mauro.
«Dunque,
cosa decidete?»
Pietro
guardò il figlio, che guardò la Berta e poi rispose: «Resta inteso».
Prima
che partisse l’onda dei convenevoli e dei ringraziamenti, l’Ubertini s’impose
l’elmo sulla testa e spronò il cavallo sulla contrada d’Isacchino, diretto al
suo palazzo di Vescovo e seguito dalla sua nobile scorta.
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