venerdì 8 maggio 2020

EPISODIO 29: ANCORA UN INCIDENTE



"Il vescovo è tornato!"
«Pietro, che dite? Guglielmino è in città?»
«Precisamente! Da ieri mattina è di nuovo nel suo palazzo. Caro Bencio, avreste dovuto vedere!»
Pietro smontò da cavallo e si avvicinò al Moro, seduto sul suo masso a godersi il tiepido sole pomeridiano dell’ultimo lunedì di marzo. La Berta e Mauro, usciti a passeggio tra le viti, rientrarono di corsa.

«Figuratevi: non era ancora sceso di sella e già dava ordine di liberare i prigionieri di San Salvatore. Naturalmente il Podestà e il Capitano del Popolo avevano deciso per conto loro di dar libertà a tutti. Del resto erano solo ostaggi per ricattar Guglielmino».
Il Moro, ancor più affascinato dal Vescovo dopo la sua visita a Muciafora dello scorso inverno, considerava ogni avversario del presule come suo nemico personale, e sbottò: «Vigliacchi! Usare gente innocente invece di affrontarlo schiettamente!»
«Oh, per quello lo avrebbero fatto, e senza indugi, ma ancora una volta li ha messi tutti nel sacco! Alla Ruga Mastra, ieri mattina, ho visto Giunta dei Ricoveri, e mi ha riferito che i Capitani dell’oste comunale han discusso animatamente tutta la notte, ma ieri mattina son tornati in città».
«Si sarà pure evitato uno scontro fratricida» fece Mauro crollando il capo, «ma mi par che abbiano fatto i conti senza Firenze. I guelfi aretini speravano con la trattativa di rientrare in città, ed ora staranno fissi in San Giovanni a insistere sui Priori perché ci attacchino!»
Un lungo silenzio sottolineò l’incertezza per l’immediato futuro, mentre in cielo il vento addensava pesanti nubi. Pietro tentò di stemperare la tensione e si rivolse a Bencio: «Almeno ora potete tornare a casa». Poi, verso i due giovani: «E possiamo discuter delle vostre nozze!»
E quella stessa sera, davanti al focolare, Bencio e Pietro, presente anche Mauro, discussero i termini delle nozze: la dote, i rapporti economici tra le due famiglie, il contributo alle spese nuziali e altri particolari, compresa la data. Avrebbero presentato gli sposi al giudice nel primo sabato di giugno, e organizzato la festa a Muciafora per il giorno dopo, con tanto di messa solenne nella Pieve di Santo Stefano e un banchetto, assicurò Pietro, come da quelle parti non se n’erano mai visti.


All’alba un sole combattivo cercava di farsi largo tra le nuvole che opprimevano il cielo sopra Muciafora.
La pioggia era caduta incessante per tutta la notte e anche adesso cumuli scuri avvolgevano il profilo del Pratomagno, minacciando l’arrivo di nuovi scrosci.
Padre e figlio partirono di buon mattino, per accompagnare in città mastro Bencio e la Berta, che potevano far ritorno a casa ben prima di quanto avessero sperato. Non c’era stato tempo di attuare i buoni propositi della fanciulla per la visita alle Pievi. Meglio così: ci sarebbe stata occasione, per adempiere ai voti.
Entrarono in Arezzo dalla Porta di San Clemente ormai riaperta. Nella contrada del Fondaccio Oddo notò un gran via vai di armati, a coppie o in piccoli drappelli: ronde del Comune ma anche squadre coi colori di varie casate. Al suo occhio non sfuggì l’atteggiamento guardingo di ogni gruppo verso gli altri che incrociavano o stazionavano ai canti delle vie. Fece un cenno ai suoi armati perché stessero all’erta, mentre né Pietro né il suo ospite, ragionando ancora delle nozze, s’erano accorti di nulla, e ancor meno i due giovani, che cavalcavano appaiati davanti a tutti e non avevano occhi che l’uno per l’altra.
«Si potrebbe far dire messa anche in San Marco, qui al Murello, dai vostri monaci di Campoleone» argomentò il vasaro mentre abbozzava un rapido segno di croce all’indirizzo d’una chiesetta. «Al sabato, dico, dopo che siamo stati dal giudice e s’è firmato le carte. Oh, all’offerta per il convento ci penserei io, naturalmente!»
Quattro armati stazionavano intorno ad un pozzo, nel canto della contrada delle Paniere. Li comandava un cavaliere con l’arme dei Tarlati che, affidato al donzello il suo baio, si appoggiava al muro d’un orto, col piede destro sull’ovale d’un paracarro posto proprio nel cantone. Pareva ragionare coi suoi, ma gli occhi perlustravano il Fondaccio, soprattutto in direzione di San Domenico.
Bisogna dire, per chi non sia pratico di Arezzo, che poco più avanti, nel canto col borgo di San Vito, sorgeva il palazzo di città degli Ubertini. Era un palazzotto arcigno, costruito con pietre  ben sbozzate che il tempo aveva annerito quanto basta per renderlo severo ed ostile, tanto che la Berta, ogni volta che vi passava davanti, attraversava istintivamente la via tenendosene lontana. Lungo il Fondaccio si ergeva il fianco di tramontano, un muro sul quale s’apriva soltanto la porta della stalla e più in alto quattro finestrelle, poco più che fessure verticali. La lunghezza del muro lasciava intendere un edificio più vasto della torre d’angolo che lo sovrastava.
«Dove andate? Tornate qui!» Mauro ebbe un attimo di stupore perché la Berta, come sempre, aveva tirato il suo cavallo via dal centro della strada, verso le case sul lato di mancina. Fece per rispondergli, quando l’uscio della stalla si spalancò e ne uscirono di corsa e con gran fracasso uomini armati di picche lunghe. Subito dietro di loro irruppero due tre cinque cavalieri, i morsi delle bestie a stento trattenuti dai palafrenieri.
L’improvviso sconquasso colse tutti di sorpresa. Mauro, trovandosi il più vicino alla porta e distratto a richiamare la sua bella, venne quasi travolto dall’incursione. Il suo cavallo scartò di lato e si inalberò, mulinando gli zoccoli sulla testa di un pedone, che lo respinse agitando la picca, col risultato di imbizzarrire ancor più la bestia. Gli altri, dietro, tentarono a loro volta di trattenere le proprie cavalcature e Bencio, facendo girare il suo bigio su se stesso, non riuscì ad impedirgli di toccare col posteriore la groppa del cavallo di Mauro, che scattò in avanti disarcionando il giovane e gettandolo nella fanghiglia frutto della pioggia notturna; galoppò poi scomposto verso San Domenico, via da quella confusione!
«Mauro!» risuonò tra i muri il grido della Berta, che aveva un bel daffare d'altronde a tener buona la sua puledra, così come suo padre e Pietro. Il solo Oddo si riprese subito dalla sorpresa e si frappose tra il malcapitato padrone e gli sgherri degli Ubertini.
Anche fra quelli non mancò lo scompiglio: usciti come al solito in modo irruente senza curarsi se la via fosse sgombra, si ritrovarono tre fanti lunghi distesi nel fango e gli altri in forte affanno per contenere la furia dei destrieri. Il primo a riprendere in mano la situazione fu il vecchio Guglielmino.
«Ancora il giovane Mauri! È destino che non vi teniate in piedi ogni volta che ci incontriamo» motteggiò. L’ironia ferì Mauro più d’uno schiaffo. Mentre Oddo metteva il suo cavallo di traverso tra i due, il giovane inzaccherato scattò in piedi. Avvertì però una fitta al gomito sinistro, rimasto sotto il fianco nella caduta, e toccandosi si ritrovò la destra lorda d’un escremento di cavallo reso viscido dalla pioggia. La risata di Guglielmino lo mandò in bestia e la sua mano corse all’elsa della spada.
Pietro lo chiuse tra il suo cavallo e quello di Oddo. Mauro fece per protestare ma suo padre non lo guardava più, puntando invece gli occhi oltre le spalle dell’Ubertini e poi dietro di sé: il gruppetto dei Tarlati s’era schierato, armi in pugno, al centro della via dal lato della porta di San Clemente, mentre un altro drappello, con le sopravvesti dello stesso colore azzurro e con i medesimi sei quadri d’oro, sbarrava il passaggio verso San Domenico. Crebbe l’ansia tra gli uomini d’arme perché nessuno capiva le intenzioni della gente al soldo dei Pietramala.
«Ehi, voi!» gridò Guglielmino all’indirizzo del cavaliere che li comandava, «lasciate il passo!» Ma il giovanotto lo ignorò e si rivolse invece a Pietro: «Tutto a posto, messer Mauri?»
«Liberate il passo!» insisté il Vescovo con durezza, ma il Tarlati non si mosse.
«Tutto bene, è stato solo un incidente» lo rassicurò infine Pietro: «Non datevi pena e non create disordine».
Allora il giovane voltò il cavallo e tornò al pozzo con i suoi, mentre il drappello dal lato di San Domenico sparì così com’era apparso.
Smontata ed affidata la puledra ad un servo, la Berta s’affrettò a soccorrere il suo Mauro, il quale però la scansò bruscamente, riprendendo rabbioso a scollarsi di dosso fango e sterco. Anche Guglielmino era furente per quell’ingerenza offensiva, ma si dominò e decise che fosse più giusto occuparsi della sua vittima involontaria.
«Ho provocato io la vostra caduta» gli si rivolse, assumendo ora un’aria paterna, «ed è mio dovere rimediarvi: entrate nella mia casa, le donne vi aiuteranno a ripulirvi».
Ma l’invito non servì a placare l’ira di Mauro, che si diresse brontolando verso il pozzo presidiato dai Tarlati. Ne scansò uno in malo modo mentre gli altri gli facevano largo nauseati dalla puzza. Afferrata la corda, tirò su la secchia piena d’acqua e se la rovesciò in capo. Poi si mise a nettare con cura le macchie rimaste, anche per sbollire la rabbia.
Intanto era tornata la calma, nella contrada del Fondaccio. Oddo recuperò il cavallo di Mauro, che rimontò in sella.
«Dunque volete prender moglie». Mentre si avviavano, Guglielmino cercò di riannodare il colloquio con Mauro.
«Col consenso di mio padre e di messer Bencio, Berta ed io ci siamo promessi la fedeltà e l’amore necessari a metter su famiglia». L’anziano presule lanciò un’occhiata alla futura sposa e dovette ammettere in cuor suo che i modi da popolana della ragazza non sminuivano una bellezza schietta e fin delicata.
Lo assalì un’onda di ricordi: il pensiero di una remota gioventù, quando non era stato insensibile al fascino femminile e la carriera ecclesiastica, l’impegno politico, la fede sincera non gli avevano precluso passioni più terrene. Gli anni avevano lavato da quegli errori giovanili ogni ombra di rimorso, se mai ne avesse provato, consegnandoli alla sua memoria coperti soltanto di nostalgia. Allora, rifletté, avrebbe certamente saputo apprezzare le grazie della Berta e questo giovanotto gli sarebbe parso come un rivale con cui misurarsi baldanzoso.
Con un gesto nervoso della mano scacciò i ricordi e disse brusco: «Queste nozze non si faranno!»
La Berta sbiancò. Mauro arrestò il cavallo e portò di nuovo la mano all’elsa, in un ribollir di sentimenti. Gli altri ammutolirono, fermi sullo spiazzo davanti alla fabbrica di San Domenico, di cui cominciavano a vedersi, tra i palchi di legno del cantiere, le linee della facciata, semplice ma solenne, elegante eppur severa.
«A meno che» Guglielmino sembrava giocare col nervosismo di Mauro, mentre la bocca gli si piegò in un sorriso cui il giovane non riuscì a dar fiducia. «A meno che non sia io a mettervi il sigillo con una messa solenne nella nuova Cattedrale».
Il sangue tornò a scorrere nelle vene della promessa sposa e a tingerle le gote, mentre Bencio dava fiato ad un’improvvisa euforia: «Ma certo, ma certo! E come potremmo dir di no. E’ per noi un onore, un grande onore. Dicevamo appunto dianzi con messer Mauri, qui, che dopo esser stati dal giudice e aver firmato le carte…» Guglielmino lo zittì alzando la mano protetta dalla cotta di maglia, senza togliere gli occhi di dosso a Mauro.
«Dunque, cosa decidete?»
Pietro guardò il figlio, che guardò la Berta e poi rispose: «Resta inteso».
Prima che partisse l’onda dei convenevoli e dei ringraziamenti, l’Ubertini s’impose l’elmo sulla testa e spronò il cavallo sulla contrada d’Isacchino, diretto al suo palazzo di Vescovo e seguito dalla sua nobile scorta.

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