C’è un modo
migliore per cacciare i propri dubbi che dare l’assalto ad un borgo fortificato?
Se c’è, Vitellozzo non lo conosceva.
Anghiari era il
vero baluardo di Firenze sull’alta valle del Tevere, e Anghiari, saputo del
passaggio di Vitellozzo col suo esercito, gli chiuse le porte in faccia.
Una sfida.
Tarlatino vide
gli occhi del suo signore accendersi, lo zigomo intorno al neo farsi paonazzo,
e tesi i tendini del collo.
Quante volte
s’era fermato ad ammirare mura pregustando la gioia d’un assedio! Ma quel
giorno era diverso: aveva fretta di riunirsi al Baglioni, lasciato solo e
scontento di fronte al Giacomino, ma soprattutto Anghiari non era una città
qualsiasi. Prenderla voleva dire mettere in sicurezza la sua Città di Castello,
almeno dal lato di Firenze.
Ancora:
prenderla aveva il sapore d’una vendetta lontana, significava riabilitare il
mito di Baldaccio, Capitano di Firenze ucciso a tradimento settant’anni prima
per i maneggi e i volta faccia dei signori del Giglio. Vitellozzo sentiva di
condividerne il destino, quasi temesse di fare la stessa fine. Prendere
Anghiari era per lui come uno scongiuro, un amuleto contro la sorte, l’uscita
da un incubo ricorrente, la vittoria definitiva sul fato avverso.
Spettri e motivi
pratici gli fecero schierare, quel giorno stesso, i suoi pezzi d’artiglieria.
Individuò rapidamente il punto più debole della cortina, vi concentrò i tiri, e
nel primo pome-riggio entrò trionfante nella temeraria città.
Ma non vi si fermò.
Prima dell’ora
nona marciava sulla piana verso il Borgo San Sepolcro, dove i suoi partigiani
lo aspettavano e gli aprirono le porte: i sostenitori di Firenze, vista la mala
parata, erano scesi a patti ancor prima del suo arrivo.
A sera cenava
nella fresca e spartana sala della Rocca antica, la stessa dove il Commissario
Guglielmo de’ Pazzi era stato informato della congiura.
Quando entrò Tarlatino
il volto del Vitelli, dopo giorni di tensione, appariva disteso e le sue
mascelle voracemente impegnate a spolpare lo stinco d’un maiale arrostito.
Con la bocca
piena gli fece cenno di avvicinarsi e di servirsi da bere, ma Tarlatino rimase
in piedi, rigido e insieme incerto: doveva rovinar la cena e la giornata al suo
signore e non aveva ancora deciso in che modo farlo.
«Che c’è?»
Vitellozzo rinunciò ad affondare di nuovo i denti sulla carne saporita e restò
con l’osso quasi scarnito in mano.
«Guidobaldo…»
«Che ha fatto?»
«E’ scappato. A
Mantova, dicono»
Gelo.
«Maledetti
Borgia!» Scaraventò l’osso ai cani, che se lo contesero con furia pari alla
sua. Calò il silenzio sulla sala e su quegli spezzoni di colloquio.
Guidobaldo da
Montefeltro era il giovane Duca di Urbino, vent’anni appena compiuti, già da
dieci investito del Ducato. Non era che un bambino, allora, cresciuto poi
nell’illusione del potere, coccolato da tutti e soprattutto dai Borgia. Unico
vero amico, per convenienza, per opportuni rapporti di vicinato, ma anche per
una simpatia che aveva molto di paterno, Vitellozzo. L’apice della sua fortuna
due anni prima, quando aveva contratto matrimonio con una Gonzaga,
imparentandosi così con i potenti signori di Mantova.
Avvolto nella
sua gloria, il giovane Duca non si rendeva conto di quanto Urbino fosse
appetibile per le mire espan-sionistiche del Papa e di suo figlio.
All’inizio di
quel mese di giugno, però, s’era preoccupato: Cesare Borgia aveva messo
l’assedio a Camerino, troppo vicino ai suoi confini per lasciarlo tranquillo.
Vitellozzo, però, prima di andarsene in soccorso degli Aretini, lo aveva
sollevato dai suoi pensieri: il Valentino lo incoraggiava a compiere l’impresa
d’Arezzo e poi, dopo aver preso Camerino, si sarebbe unito a lui per marciare
su Firenze. Niente da temere, dunque.
Cos’era successo
allora, in quei venti giorni, per mandare di traverso la cena di Vitellozzo? Il
fatto è che i Da Varano, signori di Camerino, resistevano ancora, asserragliati
dentro solide mura, e il Borgia aveva mandato un messo ad Urbino con la
seguente richiesta: dato che le Compagnie dei miei Capitani sono impegnate in
Toscana e col mio solo esercito non riesco a prender Camerino, vorrebbe il
giovane Guidobaldo, in nome della nostra solida amicizia e della protezione che
il Papa gli accorda da sempre, fornirmi un migliaio dei suoi uomini e i pezzi
d’artiglieria di cui dispone?
Guidobaldo era
sbiancato. Un migliaio erano tutti i suoi uomini! Si sentì con le spalle al
muro: rifiutare voleva dire porsi contro il Papa e dare a Cesare la scusa per
attaccare Urbino; acconsentire significava d’altro canto sguarnire le difese
della città e del Ducato, senza poter contare, in caso di bisogno, sulla
protezione di Vitellozzo.
Temporeggiò, per
alcuni giorni rinviò la risposta ma alla fine, messo alle strette, spedì la
moglie a Mantova e le truppe a Camerino.
Due giorni prima
della nostra cena interrotta, mentre Vitellozzo si faceva beffe sotto Cortona
dell’Araldo reale, l’esercito del Borgia varcò il confine del Ducato d’Urbino e
si presentò sotto i torrini del palazzo ducale.
Al povero
Guidobaldo non restava che darsi ad ingloriosa fuga travestito da servo.
Nella Rocca
antica di Sansepolcro una rabbia sorda s’impadronì di Vitellozzo. Si sentì
tradito lui stesso, in balia di quel fato che poche ore prima pensava di aver
sconfitto entrando in Anghiari, alla mercé dell’opportunismo senza scrupoli del
Valentino. Era come se la sua forza, la sua astuzia, la sua abilità militare
fossero di colpo divenute vane, inutili, assolutamente impotenti. Un piccolo
cane che abbaia furiosamente e digrigna i denti senza far danno: un botolo
ringhioso.
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