venerdì 29 maggio 2020

CAPITOLO 39 - ANGHIARI E SANSEPOLCRO


C’è un modo migliore per cacciare i propri dubbi che dare l’assalto ad un borgo fortificato? Se c’è, Vitellozzo non lo conosceva.
Anghiari era il vero baluardo di Firenze sull’alta valle del Tevere, e Anghiari, saputo del passaggio di Vitellozzo col suo esercito, gli chiuse le porte in faccia.
Una sfida.
Tarlatino vide gli occhi del suo signore accendersi, lo zigomo intorno al neo farsi paonazzo, e tesi i tendini del collo.
Quante volte s’era fermato ad ammirare mura pregustando la gioia d’un assedio! Ma quel giorno era diverso: aveva fretta di riunirsi al Baglioni, lasciato solo e scontento di fronte al Giacomino, ma soprattutto Anghiari non era una città qualsiasi. Prenderla voleva dire mettere in sicurezza la sua Città di Castello, almeno dal lato di Firenze.
Ancora: prenderla aveva il sapore d’una vendetta lontana, significava riabilitare il mito di Baldaccio, Capitano di Firenze ucciso a tradimento settant’anni prima per i maneggi e i volta faccia dei signori del Giglio. Vitellozzo sentiva di condividerne il destino, quasi temesse di fare la stessa fine. Prendere Anghiari era per lui come uno scongiuro, un amuleto contro la sorte, l’uscita da un incubo ricorrente, la vittoria definitiva sul fato avverso.
Spettri e motivi pratici gli fecero schierare, quel giorno stesso, i suoi pezzi d’artiglieria. Individuò rapidamente il punto più debole della cortina, vi concentrò i tiri, e nel primo pome-riggio entrò trionfante nella temeraria città.
Ma non vi si fermò.
Prima dell’ora nona marciava sulla piana verso il Borgo San Sepolcro, dove i suoi partigiani lo aspettavano e gli aprirono le porte: i sostenitori di Firenze, vista la mala parata, erano scesi a patti ancor prima del suo arrivo.
A sera cenava nella fresca e spartana sala della Rocca antica, la stessa dove il Commissario Guglielmo de’ Pazzi era stato informato della congiura.
Quando entrò Tarlatino il volto del Vitelli, dopo giorni di tensione, appariva disteso e le sue mascelle voracemente impegnate a spolpare lo stinco d’un maiale arrostito.
Con la bocca piena gli fece cenno di avvicinarsi e di servirsi da bere, ma Tarlatino rimase in piedi, rigido e insieme incerto: doveva rovinar la cena e la giornata al suo signore e non aveva ancora deciso in che modo farlo.
«Che c’è?» Vitellozzo rinunciò ad affondare di nuovo i denti sulla carne saporita e restò con l’osso quasi scarnito in mano.
«Guidobaldo…»
«Che ha fatto?»
«E’ scappato. A Mantova, dicono»
Gelo.
«Maledetti Borgia!» Scaraventò l’osso ai cani, che se lo contesero con furia pari alla sua. Calò il silenzio sulla sala e su quegli spezzoni di colloquio.
Guidobaldo da Montefeltro era il giovane Duca di Urbino, vent’anni appena compiuti, già da dieci investito del Ducato. Non era che un bambino, allora, cresciuto poi nell’illusione del potere, coccolato da tutti e soprattutto dai Borgia. Unico vero amico, per convenienza, per opportuni rapporti di vicinato, ma anche per una simpatia che aveva molto di paterno, Vitellozzo. L’apice della sua fortuna due anni prima, quando aveva contratto matrimonio con una Gonzaga, imparentandosi così con i potenti signori di Mantova.
Avvolto nella sua gloria, il giovane Duca non si rendeva conto di quanto Urbino fosse appetibile per le mire espan-sionistiche del Papa e di suo figlio.
All’inizio di quel mese di giugno, però, s’era preoccupato: Cesare Borgia aveva messo l’assedio a Camerino, troppo vicino ai suoi confini per lasciarlo tranquillo. Vitellozzo, però, prima di andarsene in soccorso degli Aretini, lo aveva sollevato dai suoi pensieri: il Valentino lo incoraggiava a compiere l’impresa d’Arezzo e poi, dopo aver preso Camerino, si sarebbe unito a lui per marciare su Firenze. Niente da temere, dunque.
Cos’era successo allora, in quei venti giorni, per mandare di traverso la cena di Vitellozzo? Il fatto è che i Da Varano, signori di Camerino, resistevano ancora, asserragliati dentro solide mura, e il Borgia aveva mandato un messo ad Urbino con la seguente richiesta: dato che le Compagnie dei miei Capitani sono impegnate in Toscana e col mio solo esercito non riesco a prender Camerino, vorrebbe il giovane Guidobaldo, in nome della nostra solida amicizia e della protezione che il Papa gli accorda da sempre, fornirmi un migliaio dei suoi uomini e i pezzi d’artiglieria di cui dispone?
Guidobaldo era sbiancato. Un migliaio erano tutti i suoi uomini! Si sentì con le spalle al muro: rifiutare voleva dire porsi contro il Papa e dare a Cesare la scusa per attaccare Urbino; acconsentire significava d’altro canto sguarnire le difese della città e del Ducato, senza poter contare, in caso di bisogno, sulla protezione di Vitellozzo.
Temporeggiò, per alcuni giorni rinviò la risposta ma alla fine, messo alle strette, spedì la moglie a Mantova e le truppe a Camerino.
Due giorni prima della nostra cena interrotta, mentre Vitellozzo si faceva beffe sotto Cortona dell’Araldo reale, l’esercito del Borgia varcò il confine del Ducato d’Urbino e si presentò sotto i torrini del palazzo ducale.
Al povero Guidobaldo non restava che darsi ad ingloriosa fuga travestito da servo.
Nella Rocca antica di Sansepolcro una rabbia sorda s’impadronì di Vitellozzo. Si sentì tradito lui stesso, in balia di quel fato che poche ore prima pensava di aver sconfitto entrando in Anghiari, alla mercé dell’opportunismo senza scrupoli del Valentino. Era come se la sua forza, la sua astuzia, la sua abilità militare fossero di colpo divenute vane, inutili, assolutamente impotenti. Un piccolo cane che abbaia furiosamente e digrigna i denti senza far danno: un botolo ringhioso.

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