Nella
Roma dei Cesari, al tempo dell’imperatore Tiberio, qualcuno aveva scoperto da
poco un nuovo metodo per lavorare il vetro: soffiando con una canna nel
composto incandescente appena tolto dalla fornace, si poteva dar forma ad
oggetti utili e bellissimi. Questo nuovo metodo aveva abbassato di molto i
costi di produzione, il vetro era diventato un prodotto popolare e così
nell’Urbe erano fiorite decine di botteghe di vetrai. Plinio il Vecchio
racconta la storia di uno di loro, senza tuttavia dirci il suo nome.
Il
nostro Mastro Vetraio, così lo chiameremo, era uomo d’ingegno e non si
contentava di fare come gli altri. Va bene rendere il vetro trasparente
aggiungendo antimonio all’impasto, va bene renderlo rosso con della polvere di
manganese o blu con il cobalto, bello incidere le coppe con figure mitologiche,
ma questo lo facevan tutti, era lavoro per il giorno e per i suoi lavoranti.
La
notte Mastro Vetraio si chiudeva in bottega, da solo, e sperimentava, con in
mente un’idea precisa: togliere al vetro il solo difetto che avesse, la sua
fragilità, la quale gli deriva, ne era convinto, dalla durezza. L’impasto caldo
è morbido e malleabile, si può dargli forma a piacere senza romperlo. Come si
raffredda, indurisce e diventa fragilissimo.
Ed
eccolo lì, a provare in gran segreto nuove polveri, varie combinazioni, diverse
temperature, in una ricerca affannosa ma vana: ogni vetro che usciva dai suoi
esperimenti raffreddando diventava fragile.
Ma
il nostro Mastro Vetraio era testardo ed insisteva, finché una notte d’inverno
aggiunse all’impasto l’ennesima polverina fine e bianca, comprata non ricordava
più da chi. Sul vaso c’era scritto BORUM. Il vetro non indurì!
Ogni
notte distruggeva il frutto dei suoi fallimenti, ma quella volta l’oggetto di
vetro si piegò sotto i colpi del martello, senza rompersi. Risultava morbido al
tatto, eppure era liscio e trasparente, e conservava la sua forma, quale che
fosse. Era vetro, insomma, autentico vetro. E insieme era flessibile, e perciò
stesso infrangibile.
Mastro
Vetraio pianse di gioia.
Poi
s’impose di star calmo e decise di ripetere l’esperimento le notti successive,
fino ad esser certo d’aver inventato davvero il vetro flessibile. Rimise tutto
a posto e nascose con cura l’oggetto della sua scoperta. Il giorno dopo ostentò
indifferenza, anche se tutti gli chiedevano da dove venisse l’entusiasmo che
gli illuminava occhi e sorriso.
“Niente,
niente” mentiva, “è solo che gli affari vanno bene”.
Sempre
di notte affinò la tecnica, fino a produrre una bellissima coppa per bere. Non
pensava affatto a dormire, ma alla fine la stanchezza lo vinse: s’appisolava di
giorno, magari seduto su uno sgabello o mentre parlava con qualcuno. I suoi
lavoranti erano preoccupati ed una mattina glielo dissero. Ma lui non rispose,
uscì dalla bottega e si diresse al palazzo di Tiberio.
Era
giunto alla conclusione che non poteva produrre e vendere da solo un’invenzione
così importante. L’avrebbe presentata all’imperatore, ricavandone certamente onori,
fama e ricompense.
L’udienza
gli fu fissata per dieci giorni dopo, poiché molti erano i questuanti e poco il
tempo che Tiberio dedicava loro. Insisté per esser ricevuto subito, non potendo
resistere tutto quel tempo facendo finta di niente, ma non ci fu verso.
Tornando
a casa, decise che all’udienza doveva presentarsi in forma. Meravigliando tutti
diede licenza ai lavoranti, chiuse bottega e s’infilò a letto per recuperare il
sonno perduto. Tra i garzoni e nella cerchia dei suoi colleghi vetrai si sparse
la voce d’una qualche malattia, e ci fu chi sostenne ch’era impazzito. Il
giorno prima dell’udienza studiò il suo piano: sapeva che l’imperatore gli
avrebbe concesso poco tempo e decise di non perdersi in lunghe spiegazioni.
Quando
fu davanti a Tiberio, estrasse dalla sacca la coppa e la mostrò ai presenti,
senza dir parola. Poi, all’improvviso, la scagliò per terra provocando un
sobbalzo nello stesso Augusto. La coppa non si ruppe, subendo soltanto
un’ammaccatura, con gran stupore dell’intera corte.
Sorridendo
al proprio trionfo, Mastro Vetraio tirò fuori un piccolo martello e con qualche
colpetto riportò la coppa alla sua forma originaria. Poi mise un ginocchio a
terra e la offrì a Tiberio, che se la fece porgere dal capo dei pretoriani e
prese a studiarla rigirandosela tra le mani.
La
sala delle udienze attese in silenzio la sua decisione.
Finalmente
l’imperatore parlò: “Per oggi le udienze sono sospese. Uscite tutti e mandate
via gli altri questuanti. Restino solo i pretoriani e questo valente artigiano”.
Così
fu fatto e quando furono soli Tiberio chiese a Mastro Vetraio: “Immagino che tu
abbia già prodotto molte di queste coppe e le abbia vendute. Quanto ne chiedi?”
“No,
divino Cesare” rispose il nostro. “Quella che hai in mano è l’unica coppa che
ho creato finora, l’unico oggetto di vetro flessibile esistente nell’impero, e
te ne faccio dono perché tu ne disponga come desideri”
“Ma
avrai condiviso la tua scoperta con altri artigiani”
“No,
divino Cesare. Io, e solo io, ho inventato il vetro flessibile”
“Avrai
dunque fatto festa con i tuoi lavoranti”
“No,
divino Cesare. Vi ho lavorato da solo, di notte, e nessuno sospetta
l’eccezionale risultato del mio lavoro. Tu sei il primo a sapere. Tu solo puoi
giudicare e apprezzare l’importanza della mia scoperta”.
Stavolta
Tiberio restò in silenzio, pensoso.
Dopo
un tempo infinito, il padrone della vita dei suoi sudditi ordinò: “Arrestatelo!
Che sia messo a morte e venga bruciata la sua bottega, affinché nessuno possa
scoprire il suo pericolosissimo segreto. Il vetro flessibile è un’alchimia
maligna: non c’era fino ad oggi e non deve esistere per il futuro”.
Così
fu fatto. Per lo stupore Mastro Vetraio si lasciò condurre alla propria sorte
senza opporre resistenza.
Quando
il capo dei pretoriani tornò a riferire che l’ordine era stato eseguito,
Tiberio lesse lo sconcerto nei suoi occhi e si degnò di spiegare: “Questo
prodotto di chissà quali esperimenti segreti avrebbe di colpo azzerato il
valore dell’oro di cui è pieno il Tesoro di Roma, sconvolgendo l’intero
commercio e gli scambi che sull’oro si reggono. Il vetro flessibile avrebbe
portato alla rovina noi e l’intera Roma”.
Si
alzò e gettò la coppa nel braciere, alimentandolo finché il calore non l’ebbe
fusa.
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