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Fra
Giacomo, uscito come ogni mattina con scopa e badile a pulir lo spiazzo davanti
al convento, s’appoggiò al Murello pensieroso: c’era una calma innaturale, per
le vie d’Arezzo, deserte nonostante la bella stagione. Niente chiasso di bimbi,
né ciarlar di comari; fermo il via vai dei commerci, assenti le usuali ronde di
armati, nessun prete che salisse al Duomo o chierico che s’avviasse allo Studio;
silenziosi pure i cantieri che di solito assordavano la città col loro
fracasso. Sotto di lui, lungo la Ruga Mastra, era deserto anche il cantiere di
casa Mauri.
Fuori
della cinta, dalla parte di tramontano, una lunga processione di gente armata e
di colorati vessilli s’allontanava dalla città sulla via Maggiore. Il ritmo
cadenzato dei tamburi la spingeva verso Campaldino.
Poggiando
i gomiti sul muro, giunse le mani in preghiera.
Mauro
assecondava l’andatura del cavallo.
Passando
il ponte sul torrente Classe, distolse lo sguardo dalle sue terre, covando la
propria rabbia verso una sorte ingiusta che lo privava dei giorni più belli.
Ebbe
nostalgia degli occhi della Berta, più vivi delle stelle, e dei capelli, più
mossi della chioma del grande noce della corte. Le linee ondulate del
Pratomagno gli ricordarono i fianchi di lei, il profilo dei colli i suoi seni
rotondi, l’acqua dei torrenti le sue schiette risate. Tutto contribuiva ad
aumentar la sua pena. Si fece male pensando all’unica notte passata con lei,
lunga una vita e pur troppo corta, proprio come la vita.
Al
suo fianco, anch’essi coi loro pensieri, Boso degli Azzi e Ghigo di Talzano.
Ghigo
osservava le pendici boscose oltre il fiume con la mente alla morte di suo
padre e alle maledizioni che sputava negli ultimi giorni insieme al sangue.
Rivedeva gli occhi spenti e l’espressione rassegnata della madre, mentre guardandolo
partire gli diceva: “Torna, mi raccomando”.
Anche
la fronte di Boso era corrugata. Allo sguardo abitualmente triste s’aggiungeva
un’inquietudine ansiosa, le mani tormentavano le briglie e correggevano di
continuo la marcia del cavallo, che rispondeva con energiche scrollate del
capo, scarti e rotture del passo. Non lo vedeva, il paesaggio ai lati della
via, e neppure le piccole folle che facevano ala all’esercito. Fissava nel
vuoto davanti a sé l’immagine della sua Ippolita e del piccolo Azzolino. Era
partito in fretta, senza salutarli, impaziente di arrivare, quasi che la
battaglia potesse lenire la pena che portava dentro, purificarla nel sangue e
dargli pace invece che guerra.
I
tre cavalcavano nell’assolato mattino estivo, e chi li osservava sfilare sulla
via Maggiore dall’alto del castello di Sesto, dalle mura di Subbiano o dal
sagrato della Pieve di Falciano, non notava differenze con gli altri cento e
cento cavalieri che risalivano la valle, ognuno col suo carico di odio, di
speranze e di conti da regolare. Sembavano in marcia verso la gloria, e il
ritmo dei tamburi rassicurava non solo gli abitanti, ma la natura stessa: nessuno
tema, perché Dio è con noi e il nemico verrà ricacciato. La vittoria non potrà
mancare, un giorno di sangue varrà anni di pace e la vita tornerà a scorrere
tranquilla, scandita dalle stagioni e dalle antiche regole feudali.
Le
avanguardie dell’oste giunsero allo Spedaletto di Calbenzano verso l’ora sesta,
sotto un sole canicolare, che rendeva roventi i ferri delle armi e
insopportabile il peso dell’armatura; il sudore appiccicava le camicie al
corpo, i tafani cacciati dalle code dei cavalli s’attaccavano fastidiosi alla
pelle; lo scalpiccio degli zoccoli e lo strusciar dei calzari sospendevano a
mezz’aria una polvere fine che si ficcava nelle narici seccando la gola; il
frinir delle cicale ronzava insistente nelle orecchie, e un rapace descriveva
lenti cerchi nel cielo pulito.
Più
avanti, alla chiesa di Santa Mama, dove la strada costeggiava l’Arno, i reparti
scesero al fiume per rinfrescarsi e far bere i cavalli, pressati dai Capitani a
fare in fretta.
Poco
dopo nona, lasciata Rassina alle spalle, apparvero finalmente le mura di
Bibbiena, alte sul poggio: era il principale borgo del Casentino e l’oggetto
più controverso della fallita trattativa coi Fiorentini. Il castello era dunque
rimasto di proprietà del Vescovo, che vi ospitò quella sera i Capitani
dell’oste, mentre gli altri montavano le tende fuori Porta dei Fabbri.
Al
calar della sera, mentre il sole andava a cercar rifugio dietro il crinale del
Pratomagno e i rintocchi chiamavano a vespro, i nostri tre amici si ritrovarono
intorno al fuoco. Dopo la polvere e il sudore della marcia, ingannarono i
tristi pensieri con un maialino arrosto e una botticella di vino. Riuscì, quel
vino, anche a sciogliere un po’ le lingue.
Mauro
si rivolse a Ghigo: «Dimmi di tuo padre».
Il
ragazzo sospirò: «Non riesco ancora a dormire. Ogni notte vedo i suoi occhi
invasati e sento le imprecazioni e le bestemmie, come echi d’un tuono che
rimbomba tra le pareti d’un burrone, o come lampi accecanti che mi fanno
sobbalzare, madido di sudore. Sempre così, notte dopo notte»
«Son
solo incubi, e passan presto» intervenne Boso, come parlando tra sé.
«Sì,
certo, passano quando mi sveglio e ci ragiono, cento volte per notte. È una
maledizione che non mi lascia. È morto, lui, ma mi tiene ancora incatenato alla
sua pazzia».
Guardò
Mauro: «Tu hai visto com’era ridotto».
Appoggiò
i gomiti sulle ginocchia fissando i propri piedi, ma il fardello dei ricordi
era troppo gravoso e cercò di sviare il discorso invitando Mauro a parlar di
sé: «Tu, piuttosto, non dovevi esser qui. Il grande Guglielmino s’è dunque
rimangiato la parola: è bastato un sol giorno perché l’esonero concesso per le
nozze fosse dimenticato!»
«Così
pare». Nonostante il vino, gli argomenti di conversazione non erano allegri.
Mauro, comunque, non poté proseguire il discorso, perché un portaordini coi
colori dell’Ubertini lo interruppe: «Sua eccellenza monsignor Vescovo chiede
che il nobile Mauri lo raggiunga nel salone del castello»
«Io!?
Ha detto proprio che vuol parlare con me?»
«Questo
è il messaggio»
«Vorrà
farti le sue scuse» suppose Boso «forse ha di nuovo cambiato idea e ti rimanda
dalla tua Berta»
«Fatti
sentire» lo incalzò Ghigo, «ricordagli davanti a tutti quello che t’aveva
promesso»
«Sì,
sì» li assecondò mentre s’avviava, curioso di conoscere il vero motivo della
convocazione, perché non credeva il Vescovo capace di tornar sui suoi passi due
volte di seguito.
Sulla
salita per il castello, chiavaioli calderai e ferraioli avevano già sprangato
gli usci di bottega.
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