Ma l’esercito
aretino non sarebbe arrivato, almeno per quella notte: messo a fuoco il
castello di Quarata e a sacco il borgo, i giovani di Arezzo e le Compagnie
degli alleati si dettero alla baldoria, a spese dei Quaratini, che alla fine
pagavano il fio della loro antica fedeltà a Firenze.
Nella chiesa del
borgo, unico luogo con un po’ di pace, Piero de’ Medici, spinto da Fabio
Orsini, chiese a Vitellozzo di riunire i Capitani per decidere la condotta da
tenere.
Era arrivata la
nuova della fuga del Giacomino, e dunque bisognava muoversi. Come dicevano i
fabbri del Casentino, il ferro va battuto quando è caldo.
Gli Orsini erano
una grande consorteria che da secoli contendeva il potere su Roma ai Colonna, e
negli ultimi tempi, ovviamente, ai Borgia. Molti di loro eran condottieri e
s’infilavano in ogni battaglia o spedizione tornasse utile agli interessi della
casata. Il giovane Fabio, figlio di Paolo marchese di Mentana e cognato dello
stesso Vitellozzo, era persona decisa, istintiva, poco incline alle strategie
complicate: «Inseguiamoli ora, prima che si riprendano. Se son fuggiti senza
che li avessimo attaccati, che succederà se ci sentiranno arrivare? Sfruttiamo
la loro paura, adesso, prima che Re Luigi si decida ad appoggiarli».
Piero il Fatuo
era al colmo dell’eccitazione: «Non son pochi, dentro Firenze, i nostri
partigiani. Riprenderanno coraggio e si solleveranno. Questa guerra sarà vinta
facilmente!».
Il Baglioni però
era d’un altro parere. Scambiò un’occhiata d’intesa con Vitellozzo e poi invitò
Maestro Leonardo a stender le sue carte sull’altare.
«Non è ragione
di guerra spingersi oltre senza esserci assicurati delle terre che ci lasciamo
addietro» disse, e con un gesto circolare sulla pergamena indicò l’area delle
quattro vallate che formavano l’antico contado aretino, con precisione
riprodotte dal Maestro, il quale aveva messo a frutto le osservazioni dal vivo
di quei giorni.
«Guardate.
Quarata è qui e davanti a noi sta la valle dell’Arno, che ci condurrà a
Firenze, ma ai nostri fianchi rimangono in mano ai Fiorentini la valle
dell’Ambra e il Casentino, e dietro di noi la Val di Chiana intera e l’alta
valle del Tevere, con la sola eccezione di Città di Castello. Troppi paesi ci
son nemici. Dobbiamo farli nostri, per non esser poi presi in mezzo».
Vitellozzo si
disse d’accordo, e annunciò: «Cominceremo dalla Val di Chiana».
Lo sguardo del
Baglioni si caricò di gratitudine: per lui era vitale mantenere i collegamenti
con la propria città e con Siena. Ma c’era un altro motivo dietro la decisione
di Vitellozzo, ancor più strategico: la stagione non aveva ancora permesso di
mietere e il grano biondeggiava rigoglioso sui campi della valle e lungo i
dolci pendii delle colline ai lati della grande palude. Quale città, quale
villaggio poteva opporre resistenza ad un esercito che prima di attaccarne le
mura avrebbe bruciato le messi mature e condannato gli abitanti ad un anno di
fame? Di più. Le Compagnie avevan bisogno di vettovaglie: le guerre si vincono
prima di tutto sfamando i propri soldati e prender la Val di Chiana assicurava
abbondanza di cibo per l’intera campagna.
Maestro Leonardo
indicò con la mancina un punto preciso d’una delle sue carte, mentre con la
destra si lisciava la barba: «E’ qui, al villaggio chiamato il Bastardo, che
sposterei il campo, se posso permettermi un consiglio. Arezzo ormai è vostra e
i Fiorentini son fuggiti o prigionieri. Basteranno pochi uomini ad assicurarne
il controllo. Il Bastardo è giusto all’imbocco della Val di Chiana, vedete?,
nel punto dove le colline si avvicinano da levante e da ponente, a formare una
strozzatura che si riapre poi nella piana di Arezzo».
Nerone si sporse
sul disegno, chiarissimo, del Maestro. Era come se Leonardo avesse visto la
valle dall’alto, volando come un falco. Anche un bambino era in grado di capire
quei segni: le gobbe più scure erano i rilievi montuosi elevati sulla piana, le
casette rappresentavano villaggi, e le città eran disegnate come agglomerati
più grandi con tanto di chiesa e nome vergato in elegante scrittura, per una
volta nel verso giusto. Le sinuose linee mostravano le vie, e il grande lago
era in verità la vasta pianura paludosa. La pignoleria del maestro non aveva
trascurato di segnare ponti, corsi d’acqua e boschi. Lui la conosceva bene,
quella zona a poche miglia dalla città, ed era proprio come Leonardo la
descriveva. E pensare che l’altra sera a casa sua l’aveva ascoltato, scettico,
sostenere che una carta ben disegnata permette ad un Capitano che la sappia
leggere di conoscere qualsiasi luogo meglio di chi vi è nato e cresciuto.
Leonardo
proseguì: «Da qui potrete scorrazzare a piacere nella valle e insieme
controllare, anche con pochi uomini, l’accesso alla città da mezzogiorno».
Nerone continuava ad annuire ed allora Leonardo lo tirò in ballo: «Ma non
basta. Come il signore di Pantaneto sa bene, il Bastardo è un’importante
stazione di posta, ma soprattutto uno snodo della via del grano verso Firenze.
Accampatevi lì e vi impadronirete delle decine e decine di fosse granarie
scavate nel terreno intorno al villaggio, bloccando i rifornimenti al vostro
nemico».
Un brusio di
approvazione accolse le ultime parole del Maestro, che però disse di non aver
ancora finito: «Un’ultima nota, non secondaria, a mio parere: dal Bastardo
controllerete da vicino il Battifolle, piccola fortificazione fiorentina, vera
spina nel fianco a pochi passi dalla città. Se poi vorrete impadronirvene,
avrete via libera anche verso la valle dell’Ambra. Osservate» si infervorò
mentre faceva scorrere sul disegno le due mani descrivendo una manovra a
tenaglia, «scendendo lungo l’Ambra si può attaccare Montevarchi da mezzogiorno, mentre dal Casentino si
può calare in Val d’Arno da tramontana e per Vallelunga avanzare frontalmente
da levante, lasciando al Giacomino come unica scelta la ritirata».
Raddrizzò le
spalle, congiungendo le mani dietro la schiena, e girò un’occhiata intorno, per
verificare l’effetto del suo discorso.
Vitellozzo
giudicò arrivato il momento di riprendersi la scena. Le argomentazioni di
Leonardo avevano convinto anche i dubbiosi sulla strategia da seguire, ma alla
fine toccava a lui decidere: «Ringrazio il Maestro da Vinci per la precisione
dei suoi studi e delle sue carte, che supportano felicemente le nostre
decisioni. Gli sterratori partiranno subito per il Bastardo, e domattina vi
sposteremo il campo. E dopo attaccheremo il Monte San Savino, Castiglione e
Cortona. Buona serata, signori».
Ma Piero de’
Medici e Fabio Orsini non rimasero affatto soddisfatti, e mentre gli altri
lasciavano la chiesa confabulando sul da farsi, mossero le proprie obiezioni.
«Firenze è
l’obiettivo della nostra campagna, Vitellozzo, e non le terre della Chiana!»
sbottò Piero il Fatuo. «Non erano questi i patti!»
L’Orsini
rincarò: «Il Giacomino è in fuga e non vedo in giro altri condottieri
fiorentini: chi volete che ci attacchi? Non servono tante manovre: basta
inseguirlo e sconfiggerlo. Ma se si accorge che ce ne andiamo in giro invece di
stargli alle costole, farà presto a riorganizzarsi e riprenderà le postazioni
appena lasciate»
«E noi lo
ricacceremo» ribatté secco Vitellozzo.
«Avanziamo verso
Rondine, domani, e poi prendiamo Laterina e caliamo nella valle dell’Arno»
«Una cosa per
volta, signori! La guerra richiede calma».
Il Fatuo non
mollò: «E se nel frattempo i Francesi…»
«Volete forse
far guerra al Re di Francia?»
«Non dite così,
Vitellozzo» cercò di ragionare l’Orsini. «Sapete bene che siamo solo pedine
nelle mani dei potenti, ma se vi siete mosso ci sarà un motivo. Non vorrete
rinunciare proprio ora! Anticipiamo i tempi e mettiamo tutti di fronte al fatto
compiuto, o avete dimenticato la promessa fatta al vostro povero fratello?»
«Basta così,
caro cognato!» Un lampo guizzò nello sguardo del Vitelli al ricordo della fine
di Paolo. «Un fatto compiuto c’è già, ed è che Arezzo è nostra. Un altro fatto
ci sarà nei prossimi giorni: che ci impadroniremo di tutto l’antico contado
aretino. Un vasto territorio sarà nelle mani di chi ha stretto i patti ai Bagni
di San Casciano: Città di Castello, Perugia, Siena, Arezzo e le loro terre
saranno un formidabile baluardo fra le truppe del Valentino e la Repubblica Fiorentina.
Non vi sembra abbastanza? Non pensate che questa sarà una buona base per
riportare i Medici a Firenze? Non credete che i potenti, come li chiamate voi,
saranno costretti a fare i conti con questa nuova realtà? Adesso torniamocene
al campo, ché la giornata è stata fin troppo pesante».
E senza dar
tempo ai due di replicare, s’avviò a gran passi giù per la piccola navata,
verso l’uscio.
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