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Andavano
al piccolo trotto, i cavalli dei Mauri, lungo la via Maggiore, diretti alla
città. Andavano al piccolo trotto per non sollevare troppa polvere e rovinare
le vesti da cerimonia dei signori o le corazze tirate a lucido degli armati.
Sventolava festosa la mezzaluna d’argento e la pantera rampante sui vessilli.
Il fedele Oddo conduceva, di fianco al suo, il cavallo bianco destinato a
portare la sposa a Muciafora, bardato con finimenti dorati e gravato della
sella da donna usata a suo tempo dalla Ilde.
Dietro, distanti qualche passo,
allungavano il corteo le insegne delle nobili famiglie della zona, primo fra
tutti Ghigo di Talzano, che per nulla sarebbe mancato alle nozze dell’amico:
suo padre era morto un mese prima e i lineamenti del ragazzo s’eran fatti più
spigolosi. Lo seguivano le armi dei Catani di Classe, la testa di moro con la
rosa in bocca dei Guadagni di Giovi, il vessillo dei Walcherii di Petrognano,
l’aquila a volo aperto dei Lombardi di Sassello e di quelli di Carpineto, di là
d’Arno. Ognuna aveva mandato un giovane cavaliere col vessillifero, come si
usava fare, intendendo così ribadire l’antica amicizia tra le casate della
Terra Barbaritana. Erano famiglie di piccola nobiltà, tranne forse i Lombardi,
consorteria potente in Arezzo e nel contado, il cui nome stesso richiamava origini
longobarde. Per la verità i rapporti tra di loro non erano stati sempre
pacifici: invidie e gelosie, questioni di confine e di interesse avevano
portato in passato a frequenti scaramucce e a qualche più grave scontro, ma
negli ultimi decenni sembrava regnare un equilibrio che si poteva definir quasi
pace, favorito dall’appartenere tutti alla medesima parte ghibellina e dal
timore di perdere i propri possedimenti sotto l’incalzare del potere comunale:
l’assalto all’Abbazia di Campoleone li aveva spinti a far fronte comune. A
proposito, neppure l’Abate era voluto mancare alle nozze di Mauro e il suo
messo, il medesimo che aveva annunciato l’adunata per la spedizione di
Civitella e poi l’arresto della Berta e di suo padre, cavalcava dietro ai Mauri
inalberando il labaro dell’Abbazia. I due leoni affrontati guardavano severi
chi li guardava e danzavano mossi dal vento, sostenendo un Cristo consunto dal
tempo.
Mauro
incedeva davanti a tutti, a testa alta. Conduceva pure un mulo, caricato dei
regali di fidanzamento: in una sacca da soma portava alla sposa una cinta con
fibbia d’oro, e una camicia di seta impreziosita da passamaneria orientale a
motivi floreali e fermata al collo e alle maniche da bottoni d’argento, tocco d’eleganza
del tutto nuovo da quelle parti, al posto dei consueti laccetti di tessuto; una
teca in legno d’ebano custodiva una collana e due orecchini, che incastonavano
ognuno un ovale di giada dalle trasparenze calde color del miele.
Saltata
la festa del giorno dell’Annunziata, s’era convenuto di concentrare tutte le
usanze nel dì dell’anello e perciò quella mattina, prima di presentarsi al
notaio di via dell’Orto, dovevano passare dalla casa della promessa per il
toccamano tra lo sposo e il futuro suocero. Pietro cavalcava dietro al figlio e
ne osservava il portamento, ispirato da una fierezza senza boria. Era proprio
un bel ragazzo, il suo Mauro, posato e con la testa sulle spalle. Avrebbe
voluto tanti figli, Pietro, ma in fondo quello solo che la Provvidenza gli
aveva concesso era cresciuto proprio bene!
Quasi
avesse sentito, Mauro si voltò a incrociarne lo sguardo. Poi i suoi occhi
incontrarono quelli del messo ed un pensiero, fulmineo irrazionale terribile,
lo gelò: che ci faceva lì, nel suo corteo, alle sue nozze, quel messaggero di
sventure?
Tornò
a guardare davanti a sé verso le mura di Arezzo, ormai ben visibili sotto la
cortina di monti che dall’Alpe di Poti a Lignano facevano corona al profilo
della città. D’istinto aumentò l’andatura del suo cavallo.
Arrivano,
resta in camera e bada di non farti vedere, eh!» Era quasi l’ora terza e
Bencio, impettito nella guarnacca di panno fino sulla camicia di lino, braghe
nere e gambali di cuoio tirati a lucido, era appostato da parecchio sulla porta
di casa. Sentì lo scalpiccio dei cavalli che entravano nella contrada di
Bongianni, dalla parte della Chiassaia. Affacciati agli usci e protesi alle
finestre, bambini donne e vecchi ammiravano il corteo.
«Padre!»
«Resta
su! E’ di cattivo augurio, se lo sposo vede la sposa prima della consegna
dell’anello»
«Ho
bisogno di sapere come mi cala l’abito, dietro!»
«Vengo
su io, dopo. Ed ora chetati, ché son qui!»
S’inchinò
ai prossimi parenti e li invitò ad entrare nella bottega, che fungeva per
l’occasione da sala di ricevimento. Al centro dello stanzone, su una tavola
coperta da una bianca tovaglia di Fiandra, era apparecchiata una colazione
dolce, con gran fantasia di biscotti alle mandorle, alle noci col miele, all’uva
passa, e ancora ai fichi secchi, e varia altra frutta, fresca e candita.
Un
tavolo più corto, piazzato di sbieco in un angolo, accoglieva i boccali e
alcune botticelle di vino speziato. Una brocca tappata conteneva un liquorino
dolce d’erbe, che i monaci camaldolesi producevano nella loro farmacia e
mandavano ogni tanto a vendere anche al mercato di città. Tutto intorno, vasi
traboccanti di rami fioriti di maggio profumavano l’aria colorando la stanza di
macchie verdi e gialle.
Prima
d’entrare, Mauro, secondo l’uso, il ginocchio nella polvere della via, si
rivolse al futuro suocero: «Mastro Bencio, io, Mauro di Pietro dei Mauri di
Muciafora, se vi aggradano le intese che avete discusse con mio padre, avrei
desiderio di prendere in moglie la vostra figliola Berta. Cioè, perdonate,
volevo dire Gualberta» gli astanti sorrisero, «e perciò ve ne chiedo rispettosamente
la mano».
Il
tono della risposta di Bencio fu altrettanto solenne: «Alzatevi ed entrate,
messer Mauro: tutti conoscono il mio gradimento per queste nozze e per la nuova
parentela che unisce da oggi le nostre due famiglie».
Quello
che chiamavano il toccamano, in realtà una vigorosa stretta, suggellò
pubblicamente il patto, tra i battimani dei cavalieri al seguito e di tutti i
popolani alle finestre. Prima dello sposo entrò la sacca coi regali, portata
sulle braccia da Oddo, e Bencio rispettosamente la fece deporre su una panca,
lasciando che fosse la sposa, più tardi, ad aprirla.
Con
gran complimenti e sorrisi e motti scherzosi si consumò la colazione dolce, con
appetito e soddisfazione, soprattutto dei giovani convenuti. La Berta, di
sopra, era sempre più smaniosa, sentendo la festa senza poter scendere.
Il
rinfresco però non durò molto: all’ora sesta era fissato l’appuntamento dal
notaio e i Mauri dovevano arrivarvi in anticipo per controllare che tutto fosse
pronto.
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