sabato 16 maggio 2020

CAPITOLO 32 - LA PRESA DELLA FORTEZZA


Il sabato 18 di giugno Nerone non stava nella pelle. Quindici giorni c’erano voluti, due intere settimane di scaramucce manovre e discussioni, per arrivare finalmente a dar l’assalto alla Fortezza. A che serve aver preso la città se i Fiorentini tengono la Cittadella? Lo aveva ripetuto infinite volte a Vitellozzo, negli ultimi giorni. Lo aveva detto a Giampaolo Baglioni al suo arrivo in città, il  martedì precedente.
Lo aveva sottolineato il mercoledì, quando s’era saputo che il Giacomino, vista l’impossibilità di avvicinarsi alla città e ritenendo Quarata un sito troppo esposto, si era ritirato al Castelluccio, di là dall’Arno, mostrando così di non essere ancora pronto allo scontro. Lo aveva ricordato allo stesso Piero de’ Medici, arrivato da appena due giorni. Alla fine gli avevan dato retta, e il giorno prima l’artiglieria del Vitelli aveva cominciato a far piovere sulla Cittadella le sue palle micidiali. Artiglieria leggera, d’accordo: tre colubrine e tre sagri, niente di più, ma sufficienti a far macerie dove colpivano, precise nel tirar giù i merli e crear brecce sulle mura.
Il boato d’ogni scoppio, il sibilo breve delle palle in aria e il fragore degli schianti sulle pietre sui tetti sui selciati o sulle finestre della Cittadella suonavano alle orecchie di Nerone la canzone della riscossa.
Gli assediati non possedevano artiglierie per rispondere ai colpi e se ne stavano rintanati. Il martellamento durò tutto il giorno, con cadenza ora più serrata ora più rada. Ogni colpo andava a segno, provocando gran guasto alle case alle chiese e pure al Cassero, ma neanche una volta fu udito grido o strazio da quelli di dentro, che desse motivo di pensare d’aver fatto morti o feriti. Solo, prima di sera, si levarono dalla torre rossa del Palazzo Comunale segnali di fumo diretti verso il campo del Giacomino, e dicevano d’aver gran bisogno di soccorso urgente, subito, adesso, ché non avrebbero resistito a lungo. Dal Castelluccio non arrivò risposta. Gli Aretini invece, eccitati dal terrore che si leggeva in quel fumo, si fecero sotto urlando la rabbiosa fretta di metter le mani sui Fiorentini.
Vitellozzo li accontentò. All’imbrunire i tiri si fecero più fitti, concentrati sulla torre di San Matteo, dal lato di mezzogiorno che guardava a Colcitrone. Artiglieria leggera, s’è detto, ma bastante ad aver ragione delle mura vecchie di secoli, fatte per resistere ai lanci dei mangani o dei trabucchi ed ora fragili schermi alla potenza delle armi da fuoco.
Quasi alla mezzanotte un tratto di muro vicino alla torre venne giù di quel tanto che bastava ad aprire una breccia. Se n’accorsero Vitellozzo e il Baglioni, che dirigevano la batteria, in un tempo con gli uomini che s’affollavano da quel lato e cominciarono ad arrampicarsi sulle rovine prima ancora che il bombardamento si fermasse.
Grida spinte concitazione affanno gioia rabbia furia ordini invettive bestemmie agitarono il polverone sollevato dal crollo. Nerone dapprima tentò di arginare l’assalto, ma subito, al diavolo!, se ne mise a capo, più impaziente di tutti: «Dentro! Dentro!»
Pioveva qualche sasso dagli spalti, inutile tentativo di difesa, ma Nerone neppure se ne accorse.
«Dentro! Dentro!» urlarono al suo fianco Vitellozzo e il Baglioni, indicando il varco. Poi vi si buttarono per primi, con Nerone, e in un istante furono in Cittadella.
Tanta gente a spintoni e gomitate guadagnò il passaggio: «Prima io! Prima io!» In breve la piazzetta di S. Matteo e i vicoli intorno si riempirono. Senza incontrare anima viva l’onda sciamò fino al Palazzo del Comune e poi a quello del Popolo, alla piazza di S. Salvatore e fin sotto le mura del Cassero. Le torce agitate da cento braccia disegnavano sui muri delle viuzze mille ombre sfuggenti, in una danza cui il vociare concitato faceva da musica di fondo. Poi la ressa si concentrò davanti all’unico accesso alla fortificazione interna, dove si eran rifugiati i Fiorentini e i loro partigiani.
Spuntarono asce martelli e cunei e nella confusione s’iniziò a batter la Porta, ma come avviene in questi casi il fracasso era maggiore del danno: i battenti bellamente resistevano.
«Fascine! Portate fascine! Mettiamo fuoco!» C’è sempre chi dà il consiglio giusto. E c’è chi s’affretta a metterlo in pratica.
Allo scadere della prima ora dopo mezzanotte arrivarono le fascine, passando di mano in mano sulle teste della folla. Si ammassarono davanti al portone cercando di creare uno spazio sufficiente al rogo. Qualcuno alzò gli occhi.
«Fermi! Lassù, guardate!»
Tra i merli delle due torrette di protezione alla Porta erano apparsi alcuni armati ed un grande lenzuolo bianco.
Spinti indietro a fatica i più arrabbiati, Vitellozzo gridò a quelli di sopra: «Dunque accettate la resa?».
«Fatte salve le persone e le robe, come avete promesso», fu la risposta.
«Mai! Niente! Ora è tardi! All’assalto! Impicchiamoli tutti!» La folla tornò a spingere urlare agitarsi premere, e di nuovo fu il beccaio a distinguersi, per la mole e per la rabbia.
«Vada per i Fiorentini». La voce di Nerone sovrastò il trambusto. «Che se ne tornino pure a casa loro. Ma i traditori aretini devono essere consegnati agli Otto delle Cause Criminali, che li giudicheranno»
«Non perdiamo tempo!» sbraitò il macellaio dal mezzo della massa. «Impicchiamoli senza tante cerimonie!»
«Sì, sì, alla forca! alla forca!»
Avete mai provato a controllare una folla arrabbiata? Lo spirito di mille vendette aleggiava sulle teste, nello spiazzo davanti al Cassero, troppo angusto per contenerle tutte. Le stesse mura tremavano sotto la spinta delle grida degli insulti delle maledizioni scagliate senza ritegno contro gli oppressori finalmente alle corde.
Nerone credette di vedere un ghigno nell’espressione del Lambardi. Poco prima, quando ancora tuonavano le artiglierie e ci si preparava all’assalto, lo aveva visto parlottare con alcuni popolani, e tra di loro c’era il beccaio: gente di bassa lega, aveva pensato annotando l’insolito comportamento dello Sfregiato. Ed ora quella insana soddisfazione, quasi fosse lui stesso il sobillatore di tanta violenza.
Si girò preoccupato verso Vitellozzo, ed ebbe la riprova che in quelle situazioni il tifernate ci sguazzava come una trota fra i salti d’un torrente. Accanto a lui spuntò il suo cavallo, condotto alla mano da Tarlatino e passato per chissà dove. Allora montò in groppa e apparve alla gente in tutta la sua imponenza, serrato nell’armatura che rimandava i bagliori delle torce, brutto in viso e per questo ancora più temibile. Bastò un cenno del braccio armato per smorzare il fracasso.
«Quanti di voi si faranno ammazzare per bruciare la Porta? Quanti moriranno entrando tra i primi nel Cassero? E per cosa, poi? Lo scopo di questa notte è raggiunto, non avete udito? Consentite ai patti, e prima di giorno saranno tutti prigionieri, ostaggi da scambiare con i nostri tenuti in Firenze. Consentite, e cacceremo i traditori dalla città, dal contado e da tutte le terre su cui abbiamo autorità io stesso, il Duca Valentino e suo Padre il Papa, banditi da Siena e da Perugia. E da Firenze, se Dio vorrà per mezzo nostro restituirla ai Medici!»
La furia della folla, facile a scatenarsi, si spegne rapidamente se gli si danno promesse convincenti di cui nutrirsi. Il clamore diventò brusio discussione confronto riflessione. Nerone, piazzato accanto al muso del cavallo, gli mandò un cenno d’incoraggiamento, dopo uno scambio d’occhiate col Visdomini. Il Lambardi, invece, reagì con stizza, ma non disse niente.
Vitellozzo lasciò che il popolo digerisse il discorsetto, e poi tornò a rivolgersi agli assediati: «Aprite! Entreremo in pochi e stileremo i termini dell’accordo».
La campana della chiesa di San Donato in Cremona, dentro il Cassero, scandì un’altra ora d’una delle notti più corte dell’anno, che però sembrava non finir mai.
All’interno dell’unica navata, seduto su una panca davanti alla statua lignea d’una Madonna con Bambino, Simone Giontarini piangeva e tremava e pregava.
Scappato tra i primi in Cittadella, il maledetto sabato della rivolta, aspettava da allora con terrore che arrivasse questo momento. Non mancavano certo motivi, alla sua paura. Lo sapeva bene, Simone: se ci fossero state impiccagioni, lui sarebbe stato il primo. E le impiccagioni sarebbero arrivate, sicure come quella notte tremenda. Potevano prometter salve le vite e le robe, si dice sempre così, ma poi…
Rammentava, Simone, i fatti del ’98? Certo, che li rammentava! Non eran trascorsi che quattro anni. I Veneziani eran calati in Casentino, con l’idea di prendere Arezzo e poi attaccar Firenze. La Repubblica Fiorentina tremava, per la loro avanzata, e con lei gli Aretini suoi partigiani vissero giorni di terrore. I Giontarini anche più degli altri, guelfi da sempre e da sempre malvisti, in città. Li chiamavano parziali, avversi e, quel ch’è peggio, rapportatori, spie. Loro, lui e suo fratello Giovanni, vivevano sotto l’ala della Dominante, facevano affari, ingrassavano anche, ridendo dei loro nemici e delatori. Ma quella volta ebbero paura.
Si rammentava, Simone, di suo cugino Cosimo? Non era forse lui il suo primo nemico, la serpe in casa sua?
Cosimo ci sperava davvero, nei Veneziani, perché Arezzo tornasse libera, ma soprattutto per prendersi tutte le sostanze di Simone e di suo fratello, quelle ricchezze accumulate in anni di lucroso servizio reso ai Fiorentini. E Cosimo si accordò in segreto coi Veneziani per aprir loro una Porta della città. E lo scoprirono, e fu impiccato, e i cugini presero le sue, di ricchezze, per poche che fossero.
Ma davvero le cose andarono così? Davvero Cosimo si accordò coi Veneziani? O fu qualcun altro? Forse una tale congiura non ci fu mai, e i due fratelli si inventarono tutto, quando i Fiorentini tornarono padroni del campo e della città, e lo denunciarono, così da togliere di mezzo un parente pericoloso.
Lo stava dicendo, Simone, a quella Madonna, e al suo Bambino che pareva benedirlo. Confessava alla fine come andarono davvero le cose. Adesso era l’ora di chieder perdono, perché gli Aretini stavano arrivando, perché i Fiorentini s’erano già arresi, perché i vincitori non avevano dimenticato e non lo avrebbero mai perdonato. Ci sarebbero state, certo, delle impiccagioni, e lui era il primo della lista.
La porta della chiesa si spalancò di colpo ed entrarono insieme, il Vescovo seguito da un gruppo dei suoi, e Vitellozzo accompagnato dal Baglioni, dal Lambardi e dal Visdomini: avevano scelto il luogo sacro per siglare i capitoli della resa.
Un suono roco sfuggì alla gola di Simone. Alzandosi di scatto fece cadere indietro l’intera panca, vi inciampò, cadde, si rialzò, rimase un attimo incerto e poi s’infilò in sacrestia, di corsa, il diavolo alle calcagna, rosso in viso proprio come il demonio. Vide una porticina aperta ed uscì in un cortile interno, piccolo, quadrato, con un pozzo al centro. C’era solo un’altra porta, sbarrata, sul muro di fronte, troppo alto e senza appigli: era in trappola.
Dietro di lui, Vitellozzo e lo Sfregiato videro il suo terrore, ne seguirono la follia dei movimenti, osservarono il tremito che lo scuoteva e gli lessero la disperazione negli occhi. Sogghignarono.
D’improvviso Simone saltò sulla vera del pozzo, lanciò verso di loro uno sguardo carico d’odio, e si lasciò andare nel buco profondo. Un urlo prolungato ne accompagnò la caduta interminabile, scandita dai colpi del suo corpo che sbatteva sulle pareti. Alla fine il tonfo nell’acqua precedette il silenzio. Si sporsero dal bordo del pozzo, a guardare in giù.
È morto. Doveva averne, di cose sulla coscienza. No, guardate, si muove, annaspa. Tiriamolo su. Chissà cos’ha combinato, di tanto grave. Di sicuro niente di buono. Tiriamolo su, poi magari lo impicchiamo.
Il Lambardi lo aveva riconosciuto, e ricordava i fatti del ’98: «Se l’è voluta. Lasciatelo lì. Impiccheremo suo fratello»
«Giusto!» approvò Vitellozzo.
La definizione della resa richiese un paio d’ore. L’inchiostro dell’ultima firma finì d’asciugarsi quando dalla bifora dell’abside filtrava il primo chiarore dell’alba di sabato 18 di giugno del 1502. La luce del nuovo giorno trovò Nerone in vetta alla torre del Cassero. Dai vicoli e dalle piazzette della Cittadella, dove gli Aretini bivaccavano aspettando l’annuncio della liberazione, la gente accolse con un boato il giglio della Repubblica Fiorentina che calava lungo il pennone, e un’ovazione accompagnò subito dopo la  salita del cavallo nero della Repubblica Aretina.
La sera stessa, per ordine del Consiglio dei Dieci, squadre d’operai con mazze picconi e badili cominciarono a smantellare la cortina della Cittadella, partendo dalla torre di San Matteo. La decisione era stata unanime. La fortezza, concepita per difesa della città dagli assalitori esterni, dopo il 1384 s’era trasformata in fortilizio dei dominatori, strumento d’oppressione e minaccia costante per i cittadini. Meglio, molto meglio, tirar giù quelle odiate mura, compreso il Cassero. Basterà la cinta della città, a difenderci, e se non dovesse bastare almeno i nuovi padroni non avranno dove ripararsi, dovranno abitar tra di noi, esposti agli agguati e mai sicuri d’averci in pugno.
Sul far del buio, quando già si pensava ad interrompere i lavori, nel ripulire una chiavica ingombra di melma sterco e calcinacci, ne venne tirato fuori un uomo, magro allampanato, lordo e puzzolente da levare il fiato, vestito di quello che un tempo era un saio, strappato polveroso e zozzo di merda. Merda pure sul viso, e tra i capelli stoppacciosi e incolti, e sulle mani. Da non potersi guardare né toccare. Solo gli occhi, sgranati, raccontavano tutta la paura che l’aveva cacciato là sotto.
Lo spinsero coi badili fino ad una fonte vicina e lo buttarono dentro la vasca. Lo incitavano a lavarsi, punzecchiandolo, picchiandolo, sputandolo, insultandolo.
Tra gli operai s’era fatto largo il solito macellaio.
Dopo un buon quarto d’ora di invettive e percosse, tra le urla di alcuni e le risa dei più, fu proprio lui a decidere che bastava.
Lo estrasse dall’acqua tirandolo per i capelli, se lo caricò grondante sulle spalle e lo portò, alla luce ormai delle torce, fino al Palazzo dei Priori, scaraventandolo sulla soglia dell’ingresso.
Scese il Visdomini.
«Ancora tu» sbottò davanti al beccaio. «Proprio non trovi pace!»
Prima però dell’interpellato, fu il gruppo degli operai intorno a raccontar della scoperta, in modo confuso ed ancora eccitato, parlandosi addosso l’un l’altro.
«Non capisco un accidente! Volete parlare uno alla volta?» protestò il prete.
«Lo conosco» intervenne un armato, e gli operai tacquero. Intorno si andava radunando gente.
«E chi è?» lo pressò il macellaio.
«Non so come si chiama. È uno di Quarata. Dicono sia un romito, laico però»
«Di Quarata? Allora sta coi Fiorentini! Eh già, perché sennò si sarebbe rintanato in una chiavica?»
«Quello era il suo posto: nella merda!» gridò uno dal mucchio, suscitando una risata generale.
«Ci è passato sotto il naso due o tre giorni dopo la rivolta» proseguì l’armato, «entrando in Cittadella. Chi si curava del suo saio strappato e del suo bordone? Ma appena dentro s’affacciò alle mura sventolando delle carte. Bestie!, ci urlava, pazzi siete, come cavalli! Vi ho fregato! Vedete queste? Son lettere del Giacomino. Dice che arriva, che riprenderà Arezzo e vi impiccherà tutti. E io trascinerò i vostri corpi per le vie! Bestie! Bestie!, ripeteva ridendo con quella bocca sdentata. Ecco perché lo conosco. Romito, sì, ma di qualche setta del demonio».
Il beccaio abbrancò di nuovo i capelli del poveruomo, che nel frattempo s’era rannicchiato con la testa fra le mani e il viso tra le ginocchia ossute. Lo strattonò e lo irrideva mostrandolo alla folla: «Guardatelo, era nella merda! Ma non sa che adesso c’è più di prima! Alla corda!»
«Alla corda! Alla corda!» gridarono tutti.
«Un momento» provò ad opporsi Presentino.
Ma stavolta il beccaio era spalleggiato da troppa gente per cedere al prete. Lo scansò in malo modo e tornò a caricarsi sulle spalle il romito come fosse un sacco vuoto: «Lo porto io su dai Dieci. E voglio proprio vedere se non lo condannano!»
«Alla corda! Alla corda!»
Qualche minuto dopo il corpo nudo del romito, senza più neanche il saio strappato indosso, penzolava dalla solita trave, fuori della finestra grande dei Priori.
Appena il tempo di stirar le gambe, e da quella finestra si protese lo stesso beccaio, un coltello in mano, a tagliar di netto la corda: «Voleva trascinare i nostri corpi per le vie d’Arezzo? Trascinate lui, invece, finché il bianco delle ossa non esca dalla sua pellaccia a brandelli!»
Grida e risate accolsero l’idea. Il capo reciso della fune venne legato alla coda d’un asino portato da chissà chi, e iniziò una folle corsa. Chi percoteva l’animale perché non si fermasse, chi incitava, chi sghignazzava, chi chiamava in strada la gente affacciata alle finestre. Dietro lo scheletrico corpo, frotte di ragazzini si contendevano il privilegio di prendere a bastonate il traditore morto, spargendo sul selciato il poco sangue che gli era rimasto nelle anemiche vene.
«Violenza inutile» borbottò schifato Presentino mentre la coda dell’insensata processione spariva dietro l’angolo d’una casa.
Dall’alto della finestra, il beccaio rise.

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