Il mercoledì,
giorno dopo l’arrivo di Vitellozzo, Nerone condusse le sue bande alla conquista
del Casentino, arrivando fino a prendere Rassina quasi senza colpo ferire.
Al suo fianco
Maestro Leonardo osservava la stretta valle, attento ad ogni anfratto, alle
svolte dell’Arno, ai fossi, alle radure, ai castelli, alle strade montane che
varcavano il Pratomagno, per scendere il versante del Valdarno, o le pendici
del Mugello, verso Firenze.
Alzava spesso
gli occhi a studiare il profilo delle vette ed il cammino del sole. Se vuoi
valutare l’altezza dei monti e la loro asperità, aveva spiegato alla cena in
casa di Nerone, ti devi porre in luogo piano, in basso; per osservare invece
l’andamento delle valli, il cammino dei fiumi e delle strade, la grandezza dei
borghi e la distanza tra di loro, devi salire quanto più possibile in alto.
Abbi cura del
tuo occhio, diceva, che è il prencipe
delle scienze: lui tutte le umane arti consiglia e corregge, lui move l’omo a
diverse parti del mondo.
Non tralasciava,
il Maestro, di prendere appunti e vergar disegni o schizzi, rapidi e sicuri, e
lo stupore di Nerone era che usasse indifferentemente la mancina come la
destra: scriveva per il giusto verso oppure al contrario con la stessa
disinvoltura, rendendo a sua volontà chiare od oscure le frasi scritte. E poi
scriveva dovunque, in piedi come a cavallo, lungo un sentiero o sopra un carro,
usando una strana penna che non aveva bisogno d’intinger nel vasetto perché
l’inchiostro ce l’aveva dentro. Ne chiese ragione e quello sorrise: «L’ho
costruita io, e l’ho chiamata ingegno
scrittorio».
Alla fine
Leonardo aveva conquistato la sua simpatia confessando, senza vergogna ed anzi
con una punta d’orgoglio, d’esser omo
sanza lettere. Accidenti, pensò Nerone, magari non sarà andato a scuola, ma
di studio deve averne fatto parecchio!
La sera dello
stesso giorno, mentre Nerone riportava ad Arezzo le sue bande vittoriose,
giungeva in città la notizia che il Commissario dell’esercito fiorentino,
Antonio Giacomini, era arrivato a Quarata con alcune compagnie di rinforzo. Si
meravigliarono non poco i capi della rivolta, che avevano creduto il Giacomino
presente fin dalla scaramuccia della Querciola. Vitellozzo li tranquillizzò,
dicendo che anche per loro ci sarebbero stati altri fanti, e cavalli, e che già
erano superiori sia per numero che per armi, ed avevano le artiglierie, e che
si pensasse alla Fortezza.
La notte dopo,
verso la prima ora dopo mezzanotte,
a conferma delle parole di Vitellozzo, arrivò infatti suo fratello Giulio, vescovo
di Città di Castello, portando una Compagnia di preti armati a cavallo.
S’incuriosirono gli Aretini, che avevano sì una certa dimestichezza coi prelati
combattenti, a cominciare dai loro leggendari vescovi Guglielmino degli
Ubertini e Guido Tarlati, ma mai avevano visto all’opera intere Compagnie di
uomini di Chiesa.
Il giovedì
mattina si cominciò a spianare, per sicurezza, i campi fuori delle mura, tra la
Porta di San Lorentino e quella di San Clemente. Squadre di uomini sradicarono
le viti, abbatterono gli ulivi le querce gli aceri ed ogni tipo di albero che
potesse nascondere assalitori e impedire la visuale e i tiri dagli spalti.
Il venerdì
arrivarono brutte notizie: il Giacomino cominciava a riorganizzare le fila
fiorentine. Passando per la via dei monti era calato su Rassina e l’aveva
ripresa, mentre il Conestabile nominato due giorni prima se ne fuggiva. Venuto
in Arezzo a riferire l’accaduto, Vitellozzo lo fece impiccare.
A seguito di
questi fatti Tarlatino, sempre al fianco del Vitelli quasi fosse la sua ombra,
lo convinse ad accelerare i preparativi per l’attacco alla Cittadella. Si
cominciò così a fare i gabbioni di protezione
per le artiglierie.
Il sabato
giunsero in città vari ambasciatori dagli Stati e Terre vicini, ad offrire
aiuto, rafforzando l’ottimismo del Gonfaloniere, dei Priori e dei Dieci della
Guerra. Si continuò a spianare i campi, stavolta nella parte a tramontana delle
mura, tra San Clemente e il borgo detto della Catona.
La domenica,
infine, portò nuove preoccupazioni. Il Giacomino s’era mosso di nuovo ed aveva
ripreso Giovi, giusto allo sbocco del Casentino nella piana di Arezzo, a non
più di quattro miglia dalla città. Per recuperare il controllo del contado
bisognava ora rifarsi da capo.
Quel lunedì 13
di giugno, dunque, già prima dell’alba i Dieci della Guerra, Nerone e
Vitellozzo coi suoi Capitani si riunirono nel salone del Palazzo. Occorreva
agire su due fronti, contro la Cittadella e contro il Giacomino, e occorreva
farlo subito, per non esser presi in mezzo.
Un improvviso
trambusto, giù dabbasso, interruppe la riunione, e un momento dopo il Roselli
fece irruzione nella sala seguito da alcuni uomini che trascinavano quattro
prigionieri, feriti legati e stravolti.
«Spie!» chiarì
il Roselli, allungando al Lambardi un rotolo col sigillo di Firenze. «Li
abbiamo presi lungo le mura mentre tentavano d’entrare in Cittadella».
Il Lambardi,
rotto il sigillo, lesse con aria preoccupata e poi riferì agli altri: «Una
lettera del Giacomino a quelli di dentro. Dice che gli arriveranno aiuti dal Re
di Francia».
Passò il foglio
a Vitellozzo. Questi, senza neanche leggerlo, fece un cenno agli uomini che
tenevano stesi a terra i prigionieri. Si spalancarono le finestre che davano
sulla piazza, comparvero delle corde e le si strinsero al collo dei
malcapitati. Un paio di loro tentarono di far resistenza, mentre gli altri due
sembravano rassegnati. Con movimenti esperti da boia, un omone fissò le
estremità delle corde all’asta che correva di traverso al muro esterno, usata
di solito per stender bandiere e arazzi ma che tornava buona pure per le impiccagioni.
Un’ultima lotta e i quattro vennero gettati nel vuoto, oltre l’asta, uno dopo
l’altro.
Due, tre calci
all’aria, un ultimo contorcimento per cercar di liberare le mani strette dietro
la schiena, poi si arresero, le gambe penzoloni: la strozza aveva chiuso per
sempre la via dei polmoni e la vita se ne andava dalle orbite sbarrate e già
vuote, lasciandoli appesi come sacchi inerti.
Davanti a loro
che non vedevano più, un tenue chiarore a levante delineava, nell’aria fresca
del mattino, il profilo scuro della Cattedrale, che il vescovo Guglielmino
volle elevata sulla città più di qualsiasi altra costruzione, per marcare il
suo potere religioso e civile insieme.
«Spie» mormorò
la piccola folla d’insonni che s’era adunata nella piazza, e che si disperse
quando il movimento degli impiccati si fermò del tutto.
Si richiusero le
finestre, gli armati lasciarono la sala e la riunione riprese.
La mano sinistra
di Maestro Leonardo faceva andare leggera la penna sulla pergamena distesa,
tracciando a memoria linee curve e incomprensibili parole scritte a rovescio.
Di tanto in tanto s’interrompeva a riflettere, lisciandosi la barba,
indifferente alle discussioni che si animavano intorno a lui.
Fuori le mura, sui
campi a settentrione, una pattuglia di ronda si muoveva indolente, aspettando
il cambio e ragionando sulle spie catturate poco prima, sulle mosse del
Giacomino e sulle incerte prospettive della rivolta. I bastioni della Fortezza
prendevano colore nell’alba. D’un tratto il più giovane del gruppo si fece
strozzare un grido in gola, strattonando il vicino e indicando un punto preciso
della cortina. S’acquattarono nell’erba umida, al riparo d’un acero. A pochi
passi dalla Porta di S. Angelo, dietro una delle torri della cinta antica,
qualcosa si muoveva scendendo lungo i conci: una massa scura e informe, appesa
ad una fune calata lentamente dagli spalti.
Come toccò terra
la sagoma si sciolse, si drizzò e si divise, lasciando la corda che venne
rapidamente ritirata. Due persone dalla differente statura tentavano la fuga,
profittando dell’ora che porta il sonno a chi ha vegliato tutta la notte e
della tensione che s’allenta con l’arrivo del giorno.
La ronda
aspettò. Le due ombre si staccarono dalle mura, prima guardinghe, e poi giù di
corsa tra gli alberi. Gli armati sogghignarono: i due stavano giusto venendo
nella loro direzione! Avanti, bastardi, siamo proprio qui! Un attimo dopo
saltarono fuori ad afferrare gli sfortunati fuggitivi, che urlarono.
Una donna!? E
l’altro? Un ragazzo, anzi un bambino!
Disperazione e
terrore nelle pupille dilatate. Ma dove volevate andare? Perché rischiare una
fuga così insensata? Lo sanno tutti che in caso d’assalto o di resa le donne e
i ragazzi vengono risparmiati. E allora?
Ancora una volta
il più giovane del gruppo fu il più lesto a capire: strappò il mantello alla
donna, che si portò istintivamente le mani al petto. Con uno strattone le
lacerò anche la veste e dai lacci sciolti della camicia venne fuori una
mammella e il bordo sgualcito d’una cartapecora. Uno schiaffo zittì il pianto
del bambino.
È incredibile
come il giorno irrompa velocemente, in una mattina chiara di giugno.
La riunione
nella sala dei Priori venne di nuovo interrotta dal Roselli. Stavolta sul
pavimento finirono lunghi distesi la donna e il suo bambino. La cartapecora non
conteneva niente di più d’una richiesta d’aiuto all’esercito del Giacomino,
niente di diverso dai ripetuti segnali inviati dalla Fortezza verso Quarata col
fumo e con le bandiere di giorno o coi fuochi di notte. Ma se le spie di prima
fossero entrate in Cittadella, o se quella sciagurata avesse raggiunto il
Capitano fiorentino, allora potevano ancora sperare di ricevere viveri e
rinforzi.
Di nuovo bastò
un cenno a Vitellozzo per trasmettere l’ordine. Un’altra corda s’annodò al
collo della donna, discinta scarmigliata graffiata. Ci fu solo il tempo per
un’ultima occhiata triste al figlio, che aveva ripreso a singhiozzare, e poi
venne gettata anche lei a dar calci all’aria, alta sulla piazza dove la gente
era tornata a radunarsi, richiamata dalla voce che s’impiccavano una donna ed
un ragazzo.
Ma per il
bambino non ci fu corda. Vitellozzo s’avvicinò al Roselli e gli parlò
all’orecchio. Preso su come un fagotto, il piccolo, che strillava mamma! con quanta voce aveva in gola,
venne portato via. Le sue urla scesero la scala e poi giù nella corte si fecero
strazianti, finché, di colpo, tacquero.
Un quarto d’ora
dopo, un vecchio claudicante salì verso la Cittadella per depositare un sacco
davanti alla Porta del Rastrello, sotto gli sguardi incuriositi dei Fiorentini.
Lì per lì il sacco sembrava inerte ma poi cominciò ad animarsi: il suo
contenuto si muoveva a tratti, come per volersi liberare. Quando il pendio
davanti alla Porta tornò deserto, una rapida sortita di due uomini recuperò il
fagotto. Appena dentro, un colpo di coltello liberò il povero ragazzo,
spaventato a morte. Il suo viso era una maschera di sangue. Nel mezzo, al posto
del naso reciso di netto, uno sbrano di carne lacerata mostrava il bordo osseo
delle cavità nasali; ai lati della testolina non c’erano più i padiglioni delle
orecchie ma grumi di sangue rappreso ai capelli.
Un messaggio dei
rivoltosi, chiaro e spietato.
Nerone, che
aveva seguito il Roselli giù nella corte del Palazzo, mentre teneva fermo il
ragazzo sotto il coltello del boia, si ripeteva: “E’ così che funziona, la
guerra”.
Ma non riuscì,
dopo, a impedirsi di vomitare.
E intanto quelli
della Fortezza furon presi dalla disperazione, cominciando a mancar loro anche
i viveri. Colti di sorpresa dalla sommossa, vi s’eran rifugiati di corsa, senza
aver tempo per riempire dispense e cantine. Dopo una settimana d’assedio, non
avevano altro da mangiare che poco grano, e niente per maci-narlo, così che lo
cuocevano in chicchi, la sera, distribuendone un pugno ciascuno.
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