sabato 16 maggio 2020

CAPITOLO 31 - UNA SETTIMANA MOVIMENTATA


Il mercoledì, giorno dopo l’arrivo di Vitellozzo, Nerone condusse le sue bande alla conquista del Casentino, arrivando fino a prendere Rassina quasi senza colpo ferire.
Al suo fianco Maestro Leonardo osservava la stretta valle, attento ad ogni anfratto, alle svolte dell’Arno, ai fossi, alle radure, ai castelli, alle strade montane che varcavano il Pratomagno, per scendere il versante del Valdarno, o le pendici del Mugello, verso Firenze.

Alzava spesso gli occhi a studiare il profilo delle vette ed il cammino del sole. Se vuoi valutare l’altezza dei monti e la loro asperità, aveva spiegato alla cena in casa di Nerone, ti devi porre in luogo piano, in basso; per osservare invece l’andamento delle valli, il cammino dei fiumi e delle strade, la grandezza dei borghi e la distanza tra di loro, devi salire quanto più possibile in alto.
Abbi cura del tuo occhio, diceva, che è il prencipe delle scienze: lui tutte le umane arti consiglia e corregge, lui move l’omo a diverse parti del mondo.
Non tralasciava, il Maestro, di prendere appunti e vergar disegni o schizzi, rapidi e sicuri, e lo stupore di Nerone era che usasse indifferentemente la mancina come la destra: scriveva per il giusto verso oppure al contrario con la stessa disinvoltura, rendendo a sua volontà chiare od oscure le frasi scritte. E poi scriveva dovunque, in piedi come a cavallo, lungo un sentiero o sopra un carro, usando una strana penna che non aveva bisogno d’intinger nel vasetto perché l’inchiostro ce l’aveva dentro. Ne chiese ragione e quello sorrise: «L’ho costruita io, e l’ho chiamata ingegno scrittorio».
Alla fine Leonardo aveva conquistato la sua simpatia confessando, senza vergogna ed anzi con una punta d’orgoglio, d’esser omo sanza lettere. Accidenti, pensò Nerone, magari non sarà andato a scuola, ma di studio deve averne fatto parecchio!
La sera dello stesso giorno, mentre Nerone riportava ad Arezzo le sue bande vittoriose, giungeva in città la notizia che il Commissario dell’esercito fiorentino, Antonio Giacomini, era arrivato a Quarata con alcune compagnie di rinforzo. Si meravigliarono non poco i capi della rivolta, che avevano creduto il Giacomino presente fin dalla scaramuccia della Querciola. Vitellozzo li tranquillizzò, dicendo che anche per loro ci sarebbero stati altri fanti, e cavalli, e che già erano superiori sia per numero che per armi, ed avevano le artiglierie, e che si pensasse alla Fortezza.
La notte dopo, verso la prima ora dopo mezzanotte, a conferma delle parole di Vitellozzo, arrivò infatti suo fratello Giulio, vescovo di Città di Castello, portando una Compagnia di preti armati a cavallo. S’incuriosirono gli Aretini, che avevano sì una certa dimestichezza coi prelati combattenti, a cominciare dai loro leggendari vescovi Guglielmino degli Ubertini e Guido Tarlati, ma mai avevano visto all’opera intere Compagnie di uomini di Chiesa.
Il giovedì mattina si cominciò a spianare, per sicurezza, i campi fuori delle mura, tra la Porta di San Lorentino e quella di San Clemente. Squadre di uomini sradicarono le viti, abbatterono gli ulivi le querce gli aceri ed ogni tipo di albero che potesse nascondere assalitori e impedire la visuale e i tiri dagli spalti.
Il venerdì arrivarono brutte notizie: il Giacomino cominciava a riorganizzare le fila fiorentine. Passando per la via dei monti era calato su Rassina e l’aveva ripresa, mentre il Conestabile nominato due giorni prima se ne fuggiva. Venuto in Arezzo a riferire l’accaduto, Vitellozzo lo fece impiccare.
A seguito di questi fatti Tarlatino, sempre al fianco del Vitelli quasi fosse la sua ombra, lo convinse ad accelerare i preparativi per l’attacco alla Cittadella. Si cominciò così a fare i gabbioni di protezione  per le artiglierie.
Il sabato giunsero in città vari ambasciatori dagli Stati e Terre vicini, ad offrire aiuto, rafforzando l’ottimismo del Gonfaloniere, dei Priori e dei Dieci della Guerra. Si continuò a spianare i campi, stavolta nella parte a tramontana delle mura, tra San Clemente e il borgo detto della Catona.
La domenica, infine, portò nuove preoccupazioni. Il Giacomino s’era mosso di nuovo ed aveva ripreso Giovi, giusto allo sbocco del Casentino nella piana di Arezzo, a non più di quattro miglia dalla città. Per recuperare il controllo del contado bisognava ora rifarsi da capo.
Quel lunedì 13 di giugno, dunque, già prima dell’alba i Dieci della Guerra, Nerone e Vitellozzo coi suoi Capitani si riunirono nel salone del Palazzo. Occorreva agire su due fronti, contro la Cittadella e contro il Giacomino, e occorreva farlo subito, per non esser presi in mezzo.
Un improvviso trambusto, giù dabbasso, interruppe la riunione, e un momento dopo il Roselli fece irruzione nella sala seguito da alcuni uomini che trascinavano quattro prigionieri, feriti legati e stravolti.
«Spie!» chiarì il Roselli, allungando al Lambardi un rotolo col sigillo di Firenze. «Li abbiamo presi lungo le mura mentre tentavano d’entrare in Cittadella».
Il Lambardi, rotto il sigillo, lesse con aria preoccupata e poi riferì agli altri: «Una lettera del Giacomino a quelli di dentro. Dice che gli arriveranno aiuti dal Re di Francia».
Passò il foglio a Vitellozzo. Questi, senza neanche leggerlo, fece un cenno agli uomini che tenevano stesi a terra i prigionieri. Si spalancarono le finestre che davano sulla piazza, comparvero delle corde e le si strinsero al collo dei malcapitati. Un paio di loro tentarono di far resistenza, mentre gli altri due sembravano rassegnati. Con movimenti esperti da boia, un omone fissò le estremità delle corde all’asta che correva di traverso al muro esterno, usata di solito per stender bandiere e arazzi ma che tornava buona pure per le impiccagioni. Un’ultima lotta e i quattro vennero gettati nel vuoto, oltre l’asta, uno dopo l’altro.
Due, tre calci all’aria, un ultimo contorcimento per cercar di liberare le mani strette dietro la schiena, poi si arresero, le gambe penzoloni: la strozza aveva chiuso per sempre la via dei polmoni e la vita se ne andava dalle orbite sbarrate e già vuote, lasciandoli appesi come sacchi inerti.
Davanti a loro che non vedevano più, un tenue chiarore a levante delineava, nell’aria fresca del mattino, il profilo scuro della Cattedrale, che il vescovo Guglielmino volle elevata sulla città più di qualsiasi altra costruzione, per marcare il suo potere religioso e civile insieme.
«Spie» mormorò la piccola folla d’insonni che s’era adunata nella piazza, e che si disperse quando il movimento degli impiccati si fermò del tutto.
Si richiusero le finestre, gli armati lasciarono la sala e la riunione riprese.
La mano sinistra di Maestro Leonardo faceva andare leggera la penna sulla pergamena distesa, tracciando a memoria linee curve e incomprensibili parole scritte a rovescio. Di tanto in tanto s’interrompeva a riflettere, lisciandosi la barba, indifferente alle discussioni che si animavano intorno a lui.
Fuori le mura, sui campi a settentrione, una pattuglia di ronda si muoveva indolente, aspettando il cambio e ragionando sulle spie catturate poco prima, sulle mosse del Giacomino e sulle incerte prospettive della rivolta. I bastioni della Fortezza prendevano colore nell’alba. D’un tratto il più giovane del gruppo si fece strozzare un grido in gola, strattonando il vicino e indicando un punto preciso della cortina. S’acquattarono nell’erba umida, al riparo d’un acero. A pochi passi dalla Porta di S. Angelo, dietro una delle torri della cinta antica, qualcosa si muoveva scendendo lungo i conci: una massa scura e informe, appesa ad una fune calata lentamente dagli spalti.
Come toccò terra la sagoma si sciolse, si drizzò e si divise, lasciando la corda che venne rapidamente ritirata. Due persone dalla differente statura tentavano la fuga, profittando dell’ora che porta il sonno a chi ha vegliato tutta la notte e della tensione che s’allenta con l’arrivo del giorno.
La ronda aspettò. Le due ombre si staccarono dalle mura, prima guardinghe, e poi giù di corsa tra gli alberi. Gli armati sogghignarono: i due stavano giusto venendo nella loro direzione! Avanti, bastardi, siamo proprio qui! Un attimo dopo saltarono fuori ad afferrare gli sfortunati fuggitivi, che urlarono.
Una donna!? E l’altro? Un ragazzo, anzi un bambino!
Disperazione e terrore nelle pupille dilatate. Ma dove volevate andare? Perché rischiare una fuga così insensata? Lo sanno tutti che in caso d’assalto o di resa le donne e i ragazzi vengono risparmiati. E allora?
Ancora una volta il più giovane del gruppo fu il più lesto a capire: strappò il mantello alla donna, che si portò istintivamente le mani al petto. Con uno strattone le lacerò anche la veste e dai lacci sciolti della camicia venne fuori una mammella e il bordo sgualcito d’una cartapecora. Uno schiaffo zittì il pianto del bambino.
È incredibile come il giorno irrompa velocemente, in una mattina chiara di giugno.
La riunione nella sala dei Priori venne di nuovo interrotta dal Roselli. Stavolta sul pavimento finirono lunghi distesi la donna e il suo bambino. La cartapecora non conteneva niente di più d’una richiesta d’aiuto all’esercito del Giacomino, niente di diverso dai ripetuti segnali inviati dalla Fortezza verso Quarata col fumo e con le bandiere di giorno o coi fuochi di notte. Ma se le spie di prima fossero entrate in Cittadella, o se quella sciagurata avesse raggiunto il Capitano fiorentino, allora potevano ancora sperare di ricevere viveri e rinforzi.
Di nuovo bastò un cenno a Vitellozzo per trasmettere l’ordine. Un’altra corda s’annodò al collo della donna, discinta scarmigliata graffiata. Ci fu solo il tempo per un’ultima occhiata triste al figlio, che aveva ripreso a singhiozzare, e poi venne gettata anche lei a dar calci all’aria, alta sulla piazza dove la gente era tornata a radunarsi, richiamata dalla voce che s’impiccavano una donna ed un ragazzo.
Ma per il bambino non ci fu corda. Vitellozzo s’avvicinò al Roselli e gli parlò all’orecchio. Preso su come un fagotto, il piccolo, che strillava mamma! con quanta voce aveva in gola, venne portato via. Le sue urla scesero la scala e poi giù nella corte si fecero strazianti, finché, di colpo, tacquero.
Un quarto d’ora dopo, un vecchio claudicante salì verso la Cittadella per depositare un sacco davanti alla Porta del Rastrello, sotto gli sguardi incuriositi dei Fiorentini. Lì per lì il sacco sembrava inerte ma poi cominciò ad animarsi: il suo contenuto si muoveva a tratti, come per volersi liberare. Quando il pendio davanti alla Porta tornò deserto, una rapida sortita di due uomini recuperò il fagotto. Appena dentro, un colpo di coltello liberò il povero ragazzo, spaventato a morte. Il suo viso era una maschera di sangue. Nel mezzo, al posto del naso reciso di netto, uno sbrano di carne lacerata mostrava il bordo osseo delle cavità nasali; ai lati della testolina non c’erano più i padiglioni delle orecchie ma grumi di sangue rappreso ai capelli.
Un messaggio dei rivoltosi, chiaro e spietato.
Nerone, che aveva seguito il Roselli giù nella corte del Palazzo, mentre teneva fermo il ragazzo sotto il coltello del boia, si ripeteva: “E’ così che funziona, la guerra”.
Ma non riuscì, dopo, a impedirsi di vomitare.
E intanto quelli della Fortezza furon presi dalla disperazione, cominciando a mancar loro anche i viveri. Colti di sorpresa dalla sommossa, vi s’eran rifugiati di corsa, senza aver tempo per riempire dispense e cantine. Dopo una settimana d’assedio, non avevano altro da mangiare che poco grano, e niente per maci-narlo, così che lo cuocevano in chicchi, la sera, distribuendone un pugno ciascuno.

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