Le notizie arrivavano anche dentro il Battifolle, e
ciò che si diceva quel lunedì mattina non mi lasciò indifferente.
Giovanni de’ Medici, il mio Cardinale, era arrivato ad
Arezzo!
Dovevo assolutamente vederlo e ringraziarlo e
baciargli l’anello!
«Anch’io» approvò l’Adele.
Chiedemmo licenza al Canigiani e ci incamminammo verso
la città, attraverso sentieri in costa per aggirare il campo aretino del
Bastardo. Mariotto venne con noi, perché non si sa mai, disse, due donne sole,
di questi tempi!
Da lontano si sentivano le campane a festa.
«Io non capisco niente di guerra» diceva Mariotto per
via, «ma se un Cardinale benedice la rivolta, allora Dio è con gli Aretini»
«Che dite? Il Cardinale è fiorentino!» lo rimbeccò
l’Adele.
«Però lo sanno tutti che è in esilio. Come si fa a
mandare in esilio un Cardinale, dico io! Dio magari non sarà contro Firenze, perché
tra i Fiorentini c’è anche gente perbene come il prete Canigiani o come il
vostro Cardinale, ma deve esser per forza contro quelli che ora comandano, a
Firenze, e perciò questa guerra la vinceranno gli Aretini di sicuro!»
«Ma cosa ne volete sapere voi, di Dio e di tutto il
resto!» tagliò corto l’Adele.
Mariotto tacque e ci avvicinammo alla città in
silenzio, ascoltando il suono delle campane.
Quando cammino i ricordi mi tengono compagnia. È
sempre stato così e quella mattina il ritmo dei miei passi fu scandito dalle
impressioni del primo incontro col Cardinale davanti al suo palazzo romano.
Un giovane gentile, dal viso rotondo e pieno, occhi
neri tranquilli, quasi assenti, ed un sorriso benevolo che gli distendeva le
labbra carnose. Dopo, solo dopo, avevo notato l’eleganza della sua porpora e la
ricchezza delle damascature che la ornavano, le fibbie dorate della sua cintura
e dei calzari, e l’enormità della pietra incastonata nell’anello, testimone
della sua fedeltà a Santa Madre Chiesa.
Un Cardinale insolitamente giovane e, cosa ancor più
strana, pacifico e sorridente. Quando parlò la sua voce fu pacata e le sue
parole quelle d’un vecchio saggio.
Ebbi la certezza d’aver di fronte un uomo buono. O
forse fu il contrasto con le scelleratezze della notte appena conclusa, o con
la violenza dei miei anni, o magari il fatto che mi stava salvando. Tra un po’
lo avrei rivisto, rimanendone, chissà, delusa. Forse era meglio se restavo a
casa, cullando un ricordo al riparo dai disincanti.
M’arrabbiai con me stessa. Maledetta diffidenza,
perché t’insinui anche nelle poche memorie belle?
Affrettai il passo, tanto che i miei compagni di
viaggio a stento mi tennero dietro, e poco dopo entrammo in città.
Il Cardinal Giovanni mi parve esattamente come lo
rammentavo, e tirai un sospiro di sollievo. D’altronde non era passato poi così
gran tempo.
Giovane eppur maturo, opulento nei ricchi paramenti
eppur modesto, guidava la processione più solenne e affollata cui avessi mai
partecipato.
Gli occhi della gente, i canti, i saluti, le mani
alzate, i balli perfino: tutto diceva grazie. Era il ringraziamento collettivo
d’una città intera, nessuno escluso. Dai preti in doppia fila, avvolti nei
pesanti piviali e sudati, ai signori eleganti nelle corte vesti alla moda, che
sostenevano il braccio alle loro dame e incedevano a testa alta con la tipica
andatura strascicata di chi calca la terra da padrone, fino ai poveri
straccioni ammassati ai margini, che si spingevano l’un l’altro per veder
sfilare la ricchezza da vicino, oppure la seguivano dal fondo, a distanza, ma
anch’essi contenti, quel giorno.
“E viva le Palle!”
Era un grazie possente e univoco, che annullava
diversità e discordie. Grazie al Cardinal de’ Medici per esser lì, grazie a Dio
perché la città era libera, grazie al sole per esser bello e caldo, grazie ai
coraggiosi che avevano cacciato i Fiorentini, grazie ai condottieri che li
avevano sostenuti. Grazie a tutti per aver cancellato un secolo di servitù.
Ora, pensai, la Madonna delle Lacrime poteva smetter
di piangere per questa gente.
Dopo la processione solenne per le vie ci fu la
solenne messa cantata in Cattedrale, cui seguì il solenne Te Deum che fece
tremar d’emozione perfino gli alti pilastri del tempio.
Alla fine, quando s’era fatta l’ora di desinare e
mentre la gente sciamava soddisfatta verso casa, mi fu permesso di avvicinare
il Cardinale. M’inginocchiai sotto il ritratto della Maddalena, proprio accanto
alla porta della sacrestia, e aspettai che i celebranti andassero a deporre i
paramenti.
Quando mi fu davanti, a capo chino gli mormorai il mio
ringraziamento.
«E di cosa?» mi chiese fermandosi.
Non m’aspettavo che mi parlasse e trasalii, ma fui
subito rassicurata dal tono quieto della sua voce, lo stesso di allora. Alzai
gli occhi e risposi: «Per avermi salvata».
Non so dire se mi riconobbe, ma le sue labbra si
aprirono nel placido sorriso che conoscevo. Mi benedisse e tirò oltre,
lasciandomi inginocchiata ad aspettare il passaggio della lunga fila di
Canonici.
Prima di tornare al Battifolle, bussammo al convento
delle Murate per riverire la Madre Badessa.
Mariotto rimase nel parlatorio, mentre l’Adele ed io
ci rifugiammo in cucina per consumare il pane e il cacio che c’eravamo portate
da casa. Le converse, mentre lavoravano, non facevano che parlare della
processione e della messa e della magnificenza del Cardinale.
Appresi che era lui stesso Canonico della Cattedrale
aretina. Canonicato e relativa prebenda gli erano stati conferiti dal Ca-pitolo
verso la fine del 1493, ed egli li aveva accettati per mezzo di messer Baldassarre
Albergotti, Canonico a sua volta e suo procuratore. Aveva allora, il mio
Cardinale, appena diciotto anni.
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