Quel pomeriggio di
primavera del 1025, regnando Nostro Signore Gesù Cristo, un cielo plumbeo
prometteva rovesci.
Teodaldo sedette sotto
un ulivo, sulla sommità del colle del Pionta, come faceva spesso, per riflettere
e pregare in solitudine. Ignorando il tempo, poggiò i gomiti sulle ginocchia e
la testa tra le mani. Si sentiva triste, sfiduciato, stanco.
S’era seduto sotto a
quell’ulivo anche il giorno del suo arrivo ad Arezzo, due anni prima, ma con
tutt’altro spirito. Il cielo era sereno, allora, e lo stupendo panorama gli
aveva riempito il cuore: la cittadella vescovile stava ai suoi piedi, modesta
in verità, e piuttosto malconcia, ma il cantiere per la nuova chiesa di San
Donato era già piuttosto avanti, ad alimentare le sue speranze. Facendo girare
lo sguardo immaginava altri cantieri: un nuovo episcopio, una canonica
rinnovata, una possente cinta muraria, una scuola per chierici ed una per
cantori.
“Arezzo ti piacerà” gli
aveva detto suo fratello Bonifacio, duca di Mantova e marchese di Toscana,
annunciandogli la sua nomina a vescovo e la prossima destinazione.
Arezzo lo guardava,
quel giorno, serenamente adagiata sui due colli dirimpetto, piccola ma accogliente
città.
Arezzo lo squadrava,
adesso, diffidente ed ostile. O almeno così gli pareva.
L’entusiasmo s’era
spento, in quei due anni, e pian piano avevano preso campo in lui preoccupazioni,
affanno e scoramento.
Il cantiere del tempio
nuovo procedeva spedito, sì, ed aveva aperto anche tutti gli altri. Maginardo era
un architetto davvero bravo e stava dando forma ai suoi sogni. Lentamente si
andava spegnendo in lui la nostalgia per la sua Ravenna.
Ma s’era accorto presto
che le pietre non sono tutto, per un vescovo. Sei pastore d’anime, si diceva,
non un vassallo né un castellano. E la vita spirituale del suo gregge si trascinava
da anni in uno stato desolante. Per il popolo di Arezzo lui era rimasto un
estraneo, un forestiero imposto dall’alto come quell’altro, Adalberto,
ravennate pure lui, mandato direttamente ad Arezzo dall’imperatore.
E se gli aretini lo
guardavano con diffidenza, non era migliore il suo rapporto con i canonici. Si potrebbe
anzi dire che sul Pionta la canonica non esistesse nemmeno: un gruppo di preti
indegni, simoniaci e concubini, curavano solo i propri interessi materiali
depredando e spartendosi decime e prebende. Pagavano sgherri per derubare
fedeli e pellegrini, e non si contavano risse e scontri sanguinosi.
Aveva provato a
cambiare quel vergognoso andazzo, ricavandone solo odio e minacce. Senza la
protezione degli armati di suo fratello, avrebbe temuto per la sua stessa vita.
S’era ritrovato solo, a pregare un Dio che pareva essersi dimenticato di lui e
del suo popolo.
Ai piedi del suo ulivo,
sotto quel cielo cupo, non vedeva ormai più la bellezza del panorama né
avvertiva la vitalità della primavera.
Si riscosse quando vide
due figure venir su per il sentiero. Riconobbe subito Gerardo, primo tra i
canonici e forse l’unico di cui potesse fidarsi, ma al vecchio vestito di saio
che lo seguiva a fatica, pur non parendogli sconosciuto, non riusciva tuttavia
a dare un nome.
Lo fece quando i due
giunsero a pochi passi, e si buttò in ginocchio davanti a lui.
“Padre dell’anima mia!”
Il vecchio Romualdo
riprese fiato, gli sorrise e lo invitò ad alzarsi. Poi appoggiò le spalle al
tronco rugoso dell’ulivo e le mani al bastone.
Infine parlò: “Ti
chiedo asilo, Teodaldo, per qualche notte. Sono sulla via di Valdicastro, dove
vado per morire in pace nell’unico eremo che mi rimane”.
Guardò la polvere che
gli copriva i piedi scalzi: “Non è stata una vita di successi, la mia. In tanti
mi hanno seguito alla ricerca di Dio, in ogni luogo, sulle ali dell’entusiasmo,
per disperdersi poi appena li lasciavo soli. Ora sono stanco”
“Anch’io lo sono, padre
santo, e non ho la vostra età. Andiamo, la mia casa è la vostra casa”.
Tra le nubi s’aprì uno
squarcio di sereno. Il vescovo porse il braccio al vecchio eremita e s’avviarono
in silenzio, seguiti da Gerardo.
Per cena consumarono
soltanto una zuppa di verdure cotte e un tozzo di pane nero: entrambi
conducevano infatti una vita ascetica, di penitenza e di rinunce.
“Avrei un progetto”
confessò Teodaldo, e il vecchio si mise in ascolto. “Arezzo ha urgente bisogno
di santità. Non mancano i monasteri, nella mia diocesi, ma non sanno, mi pare,
curar le anime dei fedeli. Ne condizionano la vita quotidiana, la regolano, per
molti sono una fonte di sopravvivenza, ma non bastano a cambiare la società
degli uomini. Ci serve un eremo, un luogo dove i migliori possano vivere a
diretto contatto con Dio, in pura contemplazione, ed elevare preghiere efficaci
per la salvezza di questo mondo corrotto”
“So cos’è un eremo,
caro Teodaldo. Per parte mia ne ho fondati molti, ma ormai…”
“Fondatene un altro per
me, vi prego”
“Non ho più…”
“Un ultimo tentativo,
per carità. Anch’io, come voi, non conto più i fallimenti, nel mio magistero. Non
mi resta che un romitorio per dar senso alla mia vita. Un posto dove passare io
stesso, quando sarò vecchio, gli ultimi miei giorni”
“Le mie forze…”
“Vi sosterrò, padre
mio. Ho già il terreno, isolato sui monti del Casentino, e gli operai per costruire
le casette e l’oratorio comune, e un brav’uomo del posto che vi ospiterà finché
tutto non sarà pronto, e almeno cinque preti, i migliori, pronti a seguire il
vostro insegnamento. E poi sarete libero di andarvene in Valdicastro. Anzi, vi
ci farò portare da uomini fidati per alleviare le fatiche del viaggio”.
Aspettò la risposta col
fiato sospeso.
Romualdo fissò quegli
occhi accesi da un entusiasmo disperato e pensò che tramite il vescovo Dio
stava sconvolgendo i suoi piani una volta di più. Sussurrò: “L’ultimo eremo…”.
La mattina dopo un
gruppo di armati a cavallo scortò fuori dalla cittadella un’insolita processione.
Il vescovo, il romito, il fedele Gerardo e cinque giovani preti, a dorso di
mulo, presero la via del Casentino, verso Camaldoli.
“Che bella la campagna
in questa stagione” disse Teodaldo ad un certo punto, e fu l’unica frase
pronunciata in tutto il viaggio.
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