|
Alla
prima ora del dieci di giugno, in venerdì, il sole indorò le pietre del
castello di Poppi. Dall’unica finestra aperta sul muro orientale la luce del
mattino penetrò nel salone al primo piano, allungando una scia sul pavimento e
sul tavolo centrale. Le pareti affrescate, la travatura del soffitto, il legno
delle cassapanche e la pietra del grande camino assunsero un’aura diafana,
quasi sacra.
Mauro
però, chiamato alla riunione dei Capitani dell'oste ghibellina, vi trovò
un’atmosfera tuttaffatto diversa. Come a Bibbiena, colse troppa tensione in
quei volti.
Cupo
in un angolo, il Podestà Guido Novello tormentava il pomolo della propria
spada. La sera prima, in quella stessa sala, un indovino gli aveva espresso
infausti presagi. Il fatto è che l’indomani Giove, cioè il partito guelfo,
avrebbe dominato il cielo, mentre Saturno, che rappresentava i ghibellini, si
sarebbe trovato in basso, in una zona che gli antichi indicavano come la fine
della vita, in perfetta quadratura al Sole, a significare la perdita del
potere. In più la stella Antares sarebbe sorta sull’orizzonte orientale di
Campaldino, proprio dal lato dell’oste ghibellina, portatrice di violenza e
morte.
Guido
Novello aveva messo a parte gli altri di questi segni, ricevendone però soltanto
mugugni e commiserazione.
«San
Donato varrà più di un indovino!» gli aveva opposto Buonconte con una logica
inconfutabile, che suonava rimprovero alla poca fede degli Aretini nel loro
santo patrono.
Tarlato
fu meno diplomatico: «Ricordo al Podestà che se siamo qui è soprattutto per
lui!»
«Per
Arezzo» lo corresse Guglielmino «e per i nostri valori».
Ma
Tarlato non era disposto a farsi zittire ancora: «Non è questo! Dite: siete
saliti sulla torre?» La collera gli andava trasformando i lineamenti, già di
suo spigolosi. «Io ne sono appena sceso e vi dico che il luogo scelto per la
battaglia non mi piace per niente»
«Certo
la piana non è grande» confermò Guglielmo Pazzo.
«Ma
siete ciechi? O non avete guardato nemmeno un istante verso Borgo alla
Collina?» Il Tarlati era una furia: «I Fiorentini son così tanti che in pochi
minuti le due osti affolleranno il campo. E come giostreremo, allora? In quali
spazi metteremo al galoppo i destrieri? Che volteggi inventeremo, stretti nella
ressa? In che modo daremo slancio al cavallo per superare i palvesi, travolgere
i pedoni o scompaginare i balestrieri?»
Il
ragionamento non faceva una piega. La vittoria era affidata ai cavalieri:
ognuno di loro era una perfetta macchina da guerra, capace di travolgere decine
di pedoni e di scardinare la più compatta formazione di berrovieri o di
abbattere intere formazioni a cavallo. Ma l’abilità la forza l’esperienza dei
cavalieri ghibellini avevano bisogno di spazio. Come dopo ogni tiro di balestra
occorre tender la corda, incoccar la quadrella e ritrovar la linea di
puntamento, così ogni assalto si fa alla carica, e si colpisce si piroetta
s’impenna si giostra si schiva si scarta, e ci si allontana. Poi si carica di
nuovo, e daccapo si affonda si travolge si fedisce, e poi ancora un attacco, e
un altro, ogni volta seminando morte e terrore. Ma guai a farsi imbrigliare,
permettere che ti stringano in una morsa o ti chiudano in un cerchio d’aste
lunghe, guai a lasciarsi fermare o peggio sbalzar da cavallo: nel corpo a corpo
il numero, alla fine, vince sul valore, e il coraggio o la forza non bastano
più.
Eran
tutti muti quando entrò Mauro, e tesi.
«Il
primo assalto» sentenziò il Vescovo mentre faceva cenno al giovane di
avvicinarsi, «sarà decisivo. Se sfonderemo si disperderanno, se arriveremo alle
insegne fuggiranno, se uccideremo il sire di Narbona avremo vinto»
«Già»
incalzò Tarlato, «ma perché costringerci a questo? Perché non affrontarli nella
lunga piana che abbiamo percorso ieri giungendo da Bibbiena? Lì le nostre
scorrerie avrebbero potuto esser due tre dieci cento, tante quante ne avrebbero
rette le nostre braccia e i garretti dei destrieri!» Puntando l’indice alle
finestre che affacciano sul lato opposto a Campaldino, guardò truce Guido
Novello. Nessuno poteva dargli torto. Se si era scelto di combattere tra
Certomondo e Borgo alla Collina era solo per non lasciare il castello del Podestà
dal lato dei nemici e quindi in loro balìa prima dello scontro. Se Bibbiena era
cara a Guglielmino, Poppi lo era ai Guidi e senza di loro non si dava possibilità
di successo. Non v’era dunque altra scelta ma proprio per questo i timori del
conte davano sui nervi agli altri.
Guido
Novello abbandonò il salone, convinto che non si potesse far ragionare quei
guerrieri avvezzi a discorrer solo di strategie d’attacco. Si sentiva saggio,
lui, uno che non va a battere il capo dove potrebbe romperlo, uno che alla
propria età crede sia meglio riflettere che agire, mettere in campo la prudenza
prima della spada, e soprattutto uno che non sfida la sorte. Mauro ripensò alle
parole che gli aveva udito pronunciare per via.
«Sarebbe
meglio non fosse dei nostri» imprecò Tarlato voltandosi alla finestra.
«Comanderà
la riserva» tagliò corto Guglielmino.
«E
speriamo di non averne bisogno» commentò il Pazzo.
Se
poco prima il Tarlati, scrutando la piana e i rilievi che la chiudono a
settentrione, oltre a notare il movimento intorno a Borgo alla Collina,
l’animazione tra le tende, i fumi dei bivacchi e la polvere levata dai
drappelli a cavallo, se avesse potuto spinger l’occhio fin dentro il padiglione
di Aimeric di Narbona, vi avrebbe visto riuniti nello stesso momento i Capitani
fiorentini.
Se
le sue orecchie, oltre al fracasso lontano di armi, al vociare incessante che
gli giungeva come lo stormir di libeccio tra il fogliame d’una quercia, ai
comandi secchi che la distanza rendeva come schiocchi di rami spezzati, se
avessero potuto udire i discorsi che in quel padiglione si facevano, vi avrebbe
sentito parlar di strategia alla stregua di quanto avveniva nel salone sotto di
lui, e però in termini affatto diversi e addirittura contrari.
Nella
tenda del comando fiorentino, davanti al sire di Narbona e al suo balio
Guillaume de Durfort stavano in piedi Maghinardo da Susinana, signore di Imola
e Faenza, Corso Donati, Vieri dei Cerchi, Gherardo dei Tornaquinci, Barone dei
Mangiadori e i Capitani dei sestieri, insieme al Podestà di Firenze e ai
comandanti alleati.
E
c’era pure Rinaldo dei Bostoli. Nei giorni di marcia dura verso il passo della
Consuma il suo rancore s’era risvegliato e bruciava ogni ora di più, l’ansia di
vendetta aveva ripreso a divorarlo, la via gli pareva troppo lunga, e troppo
lenti i passi dell’esercito. Alla fine la sua impazienza aveva trovato sfogo in
una sorta di tic che gli faceva muovere il collo a scatti e spingere
ripetutamente la spalla sinistra verso il mento. Gli anni avevano intestardito la
passione per la bella Ippolita, ed era per lei che avrebbe vinto o sarebbe
morto.
Stava
parlando Barone dei Mangiadori: «Io consiglio d’aspettarli a piè fermo. La
battaglia non si vincerà attaccando ma lasciandoli venire avanti. Fateli
sfogare, reggete l’urto, non vi scomponete, e saranno vostri». Parole strane,
per un cavaliere, e che assurde suonarono alle orecchie degli altri.
«Stare
fermi?» reagì Corso Donati. «Le masnade stanno ferme! I pedoni aspettano la
carica del nemico. È con loro forse che pensate di riportar vittoria? Credete
che l’accozzaglia di pezzenti che a malapena abbiamo condotto fin qui possa
aver ragione della potenza dei feditori aretini, o che le grasse rotondità dei
nostri mercanti respingano la furia dei destrieri?» I suoi occhi girarono sui
presenti: «Non avete udito la proposta?»
I Capitani
guardarono Barone, che però li ignorò, rivolgendosi invece all’anziano Durfort:
«I tempi son cambiati. La guerra non è più un certame tra gentili cavalieri che
si affrontino con rispetto. Oggi si devono tenere i piedi per terra»
«E
credete di vincere senza attaccarli? Che avete in mente, eh? Che c’è dietro a
quest’idea balzana? Pensate forse ad un finto scontro, ad una battaglia mancata?
Per san Giovanni, dite la verità ai Capitani! Voi state ancora trattando con
l’Ubertini!»
Barone
insisté, paziente: «La nostra forza è il numero: siamo di più e la piana non è
vasta, e perciò li aspetteremo e li imbriglieremo nella nostra rete. D’altra
parte, a quale scopo abbiamo condotto al campo tanti mercanti e straccioni,
come li chiama il Donati?»
Corso
voleva replicare, ma Guillaume lo anticipò per comunicare ad Aimeric la sua
opinione: «Mi pare, Sire, che il nobile dei Mangiadori abbia ben valutato la
situazione, e che sia saggio seguirne il consiglio». Tanto bastò per togliere
spazio alle rimostranze. Al furioso Donati, incapace di accomodamenti, non
restò che lasciar la tenda imprecando contro tutti, Francesi e Fiorentini, e
meditando di abbandonare addirittura il campo: «Facciano a comodo loro!» lo
sentirono urlare scalciando la polvere.
«Non
se ne andrà» valutò pacato Guillaume, «non è uomo da lasciar l’impresa.
Piuttosto da disfarla. Propongo che gli venga assegnata la riserva, con
l’ingiunzione di non intervenire in battaglia se non richiesto, pena la testa».
Riprese
a parlare Barone, chiedendo che si mandassero squadre con pale e picconi a
preparare il campo. Rinaldo, preso congedo, si fermò appena fuori del
padiglione ad osservare il teatro dello scontro e il profilo di Poppi là in
fondo. Al punto in cui erano le cose, non gli sembravano possibili nuove
trattative: «Se il Cielo sarà propizio, domani tornerò alla mia terra,
riprenderò le case ed avrò la donna che amo». Un lampo attraversò gli occhi
chiari: forse Boso era nel campo nemico.
Nessun commento:
Posta un commento