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L’appuntamento
con gli sposi era fissato per un’ora prima di nona, ma già da un pezzo
Guglielmino si trovava all’interno della sua Cattedrale, in contemplazione. Si
sorprese ad accarezzare i bronzi del Campanella appoggiati in un angolo, e
pensò che forse non sarebbe riuscito a veder chiuse le bifore dell’abside con
vetrate policrome come quelle ammirate a Lione, durante il concilio del '74.
Vagò per il tempio e desirerò di esservi sepolto, per udire, dalla dimora
eterna, le note del canto gregoriano spandersi per le navate prima di
raggiungerlo presso il Trono dell’Altissimo. Un senso di vertigine lo costrinse
a sedersi su una panca addossata al muro di mancina, dove uno scalpellino aveva
lasciato le pietre sbozzate e gli arnesi per farne un altare.
Cullato
dalle sue visioni, s’appisolò.
«Monsignore.
Venerabile Guglielmino». Il sussurro rispettoso che lo risvegliava delineò
davanti ai suoi occhi la faccia rotonda di fra Giacomo.
«Perdonate,
eccellenza, son qui per il matrimonio dei Mauri»
«Di
già!?» sbottò riprendendo piena coscienza di sé.
«No,
no, state tranquillo, ché non è tardi: manca un’ora buona. È che ho ottenuto
dall’Abate il permesso di chiedervi il consenso a servir messa. Sapete, conosco
bene i Mauri ed essi degnano questo umile frate della loro amicizia».
Guglielmino
esaminò di traverso quel frate che si sforzava di parlar forbito: «Certo, che
puoi servir messa! Hai almeno una cotta decente?»
«Sicuro,
monsignore, qui con me, bianca e inamidata, con l’orlo di porpora alle maniche
e al collo: ho pensato che fosse la più adatta ed anche l’Abate è rimasto
contento»
«Va
bene, va bene. Vai pure in sacrestia a preparare i paramenti, e vedi se i ceri
sull’altare sono a posto, e insomma, occupati di tutto»
«Servo
vostro, monsignore. E poi, vedete, ci sarebbe qui con me messer Giunta dei
Ricoveri, con la moglie e il suo ragazzo: sono invitati domani, al banchetto di
Muciafora, ma non hanno voluto mancare alla vostra benedizione. Hanno portato i
fiori di maggio che decoravano stamani la casa della sposa, per l’altare»
«Fate,
fate»
«Ancora
una cosa: è giunto anche Iacopo, coi suoi figli»
«Il
Campanella?» D’un tratto lo sguardo del presule s’accese d’interesse, e cercò
il fonditore dietro la massa ingombrante del frate. «Forse sapete» continuò lui,
«che i Mauri si stanno costruendo un palazzo di città sulla Ruga Mastra, giusto
accanto alla fonderia», ma Guglielmino non lo ascoltava più.
Cinse
con un braccio le spalle all’artigiano e lo sospinse claudicando verso l’angolo
delle campane.
Mauro,
svincolatosi dalla Berta appena giunti sul sagrato, si precipitò all’interno
della Cattedrale, individuò il Vescovo a colloquio con mastro Iacopo e
s’inginocchiò ansioso ai suoi piedi baciando la mano con l’anello episcopale.
«Alzatevi,
cavaliere, e andate a pregare. Avete appena creato una nuova famiglia e vi
aspetta un impegno lungo una vita». Il tono era insolitamente benevolo e
contrastava col volto, tirato nello sforzo di apparir tranquillo.
«Ma,
e le campane?»
«Belle,
non è vero? Gli occhi del Vescovo brillarono mostrando l’opera del fonditore,
che orgogliosamente sorrise.
«Sì,
certo, ma non quelle, dicevo». Solo ora Guglielmino sembrò udire lo scampanio
che continuava a mettere in subbuglio le contrade aretine: «Ah, la
convocazione».
Poi,
notando l’aria preoccupata di Mauro, rimasto in ginocchio senza lasciargli la
mano, spiegò: «Sapete che Firenze ci muove guerra! Vogliono chiudere i conti
con questi vicini fastidiosi che ardiscono frenare le loro ambizioni». Si voltò
verso il Campanella: «L’oste del Giglio sta salendo alla Consuma, ma noi
andremo a Poppi e li ricacceremo oltre il valico sulle punte delle nostre
lance». S’interruppe vedendo entrare in chiesa Boso degli Azzi. Mauro alla sua
vista si tirò in piedi ma, senza pensarci, non abbandonò la mano del presule.
«Monsignor
Vescovo» salutò con un lieve inchino il nuovo arrivato, e poi si rivolse allo
sposo: «Salve, Mauro, siccome domani non si potrà essere a Muciafora per il
banchetto, come promesso, abbiamo deciso di presenziare a questa messa solenne,
se la cosa ti è gradita».
Un
groppo alla gola impedì a Mauro di rispondere e Boso continuò: «Con noi ci son
le nostre spose e qualche donzello e damigella, per render più festosa
l’occasione. C’è anche il Tarlati con due dei suoi fratelli e un po’ di seguito».
Poi, rivolgendosi al Vescovo, lo aggiornò: «Veniamo giusto dal palazzo comunale
e la piazza è ormai stracolma di nobili e di popolo. Ci son pure le amistà del
Montefeltro, delle Romagne, di Perugia e d’Orvieto. I fuoriusciti di Firenze
han tenuto consiglio nella sala grande e saranno dei nostri. Il Fieschi e i
feditori della Savoia sono al campo fuori Porta San Clemente. Il Podestà e
Buonconte terranno un breve discorso e poi si apriranno i registri per
l’arruolamento. Appena possibile verranno qui, Capitani e popolo, per ricevere
la vostra benedizione»
«Giovane
Mauri, vi siete innamorato del nostro anello?» Mauro lasciò di scatto la mano
del Vescovo. «Comunque vada la guerra che si prepara, questo simbolo del nostro
santo incarico presto passerà al dito di qualcun altro: son vecchio, ormai!»
Poi
si rivolse ancora a Boso: «Mandate a dire al Podestà che benedirò l’oste e le
insegne domani in San Clemente, prima di partire, e che facciano le cose ammodo
e con calma. Non è il tempo, che ci manca: il nemico impiegherà diversi giorni
per arrivare a scorgere la torre di Poppi, mentre noi saremo là in due tappe al
massimo. Adesso» concluse tornando ad occuparsi di Mauro «abbiamo un compito
più lieto da adempiere. Mio giovane cavaliere, non volete dunque prepararvi a
questa messa pregando un po’?»
Era
un congedo, e difatti s’allontanò verso la sacrestia. Lo sposo per parte sua
s’inginocchiò a fianco d’uno dei pilastri cercando di obbedire all’invito di
Guglielmino, ma pregare non è facile con l’animo in subbuglio. Immaginava di
dover combattere, certo: nelle ultime settimane in casa Mauri non s’era parlato
che di nozze e di guerra, ed aveva messo in conto che la sua vita da sposo
novello sarebbe stata presto interrotta. Ma, Signore, partire proprio il giorno
del banchetto nuziale! Che accidenti di nozze erano mai quelle?
Accortosi
di star quasi bestemmiando, Mauro cercò di correggere il corso dei pensieri: si
disse che comunque l’anello al dito della Berta ce l’aveva messo e ormai era
sua sposa per sempre, che la battaglia sarebbe stata breve e poi avevano tutta
la vita davanti.
Intanto
gli amici e i conoscenti, rimasti in attesa sul sagrato commentando gli
avvenimenti, entrarono in chiesa preceduti dalla sposa cui offriva il braccio
un Bencio emozionato. Gli occhi gonfi della Berta tradivano il pianto che
tentava di arginare a fatica. Le campane s’erano finalmente smorzate, una ad
una. Il Campanella distolse lo sguardo dalle sue creature di bronzo.
Un’ora
dopo la messa finì con la benedizione solenne. Vi aveva assistito una folla di
donne, accorse ignorando la circostanza delle nozze, ma spinte dal martellante
suono delle campane a pregare per le sorti di Arezzo e dei loro cari, che
intanto s’eran fatti registrare per la spedizione armata.
Nell’omelia
Guglielmino aveva accuratamente evitato ogni accenno alla campagna militare,
limitandosi a ricordare agli sposi i loro doveri. I due ragazzi erano entrati
nel cuore dei presenti, la loro sorte accomunata a quella di ogni figlio o
fratello o padre o nipote nelle preghiere delle popolane.
Il
Vescovo lasciò l’altare, ma s’arrestò quasi subito: «Stavo dimenticando una
cosa importante. Anch’io voglio fare un dono agli sposi, perché la loro unione
cominci nel migliore dei modi: le loro famiglie sono dispensate dal partecipare
alla guerra contro Firenze».
Sparì
in sacrestia, e la sposa dette libero sfogo alle lacrime, che ora avevano il
sapore dolce della liberazione.
Partirono
per Muciafora, la sposa sul bianco cavallo che il suo sposo aveva condotto per l’occasione.
Anche Bencio chiuse a dovere casa e bottega, e andò con loro.
Giunsero
al Ponte di Classe nel preciso momento che i rintocchi dell’Abbazia di
Campoleone, oltre l’Arno, chiamavano i monaci ai vespri e insieme rimandavano i
contadini alle case, sollevandoli per quel giorno dalle fatiche della terra.
Il
corteo nuziale venne accolto festosamente dagli abitanti delle casupole di
legno che sorgevano ai due lati dell’antico ponte. Frotte di marmocchi scalzi
saltellavano intorno ai cavalli, agitando braccia magre, massaie sugli usci
sventolavano le pezzuole e vecchi ingobbiti sorridevano sdentati. La Berta
ricambiava raggiante i saluti.
Si
fermarono alla Pieve di Santo Stefano per ricevere la benedizione del loro
pievano. Entrati in chiesa vi trovarono la Ilde in preghiera, il capo coperto
con uno sciugatoio di batista ricamata e i capelli fermati dalla sua fascia
nuziale.
Si
alzò per stringere a sé il suo Mauro ed abbracciare la sposa, mentre il
pievano, vestiti i paramenti più belli, aspettava paziente di poter benedire
gli sposi.
Seguì
un’invasione festosa del castello, gli omaggi al vecchio Moro dei giovani
signori che accompagnavano gli sposi, un breve spettacolo di danze improvvisato
dalle fanciulle di casa, e un rinfresco preparato con le carni e i dolci
sottratti al banchetto dell’indomani.
Infine
venne il tempo dei saluti: nessuno dei giovani cavalieri aveva ricevuto la
dispensa vescovile e prima di compieta si dovevano presentare al campo di San
Clemente.
Mauro
li abbracciò uno ad uno, trattenendo la commozione. Risposero con battute
allegre sulle notti che avrebbero trascorso sotto le tende, mentre lui
sprofondava tra le braccia della sua Berta, finsero baldanza, lo avvertirono scherzosamente
di non farsi illusioni, ché le prossime volte sarebbe toccato anche a lui. Per
ultimo abbracciò Ghigo, raccomandandogli di stare attento e di tenersi vicino a
Boso, ché presto avrebbero ricomposto il trio di San Donato in Collina.
Il
chiarore della luna creava un’atmosfera irreale nelle stanze del castello
immerse nel sonno. Le stelle spiavano la prima notte d’amore nella camera del
secondo piano, la medesima che aveva ospitato Pietro e la Ilde finché era vivo
il nonno di Mauro.
Il
letto che accoglieva gli sposi era lo stesso baldacchino del vecchio avo,
tirato a lucido e arricchito di nuove coltri.
Rimasti
finalmente soli si guardarono teneramente, lui la strinse in un abbraccio e la
baciò, in piedi al fondo del letto.
Poi
la Berta si liberò della veste di seta azzurra ormai stropicciata, armeggiando
all’inizio per slacciarne la cinta. Sfilandosi la camicia dalla testa, gli si
offrì nuda, con naturale semplicità, i turgidi seni invitanti e i bei fianchi
torniti, la candida pelle levigata del ventre e il triangolo bruno del pube. Un
brivido caldo percorse la schiena di Mauro, mentre il sangue gli avvampava le
gote, la bocca si apriva ed il pene spingeva prepotente le brache.
Si
amarono a lungo, con una passione ed un’intensità che mai nei loro sogni erano
arrivati ad immaginare, fino a non poterne più, fino ad abbandonarsi esausti
sul letto disfatto, la mente vuota e gli occhi al cielo del baldacchino.
Il
chiarore dell’alba risvegliò la Berta, che scoprì il suo Mauro seduto sul bordo
del letto: «Che pensi?»
Lui si
voltò a guardarla con un’espressione tenera e triste ad un tempo. Poi andò alla
finestra, ma si ritrasse subito, d’un balzo, spaventato. Tornò ad affacciarsi
ed un sudore freddo gli imperlò la fronte: solo, come una visione nella luce
fredda dell’aurora, dritto sul cavallo al centro della corte, il messo di
Campoleone guardava la torre ancora serrata.
La
Berta s’avvicinò, e lui le sussurrò: «Devo andare».
Il
messo seguì incredulo il risveglio del piccolo castello, l’agitazione
improvvisa, l’andirivieni dei servi, i cavalli condotti dagli stallieri e il
vecchio Moro avvicinarsi al suo masso, sostenendosi sui bastoni.
Sembrava
quasi che non l’avessero notato e la cosa lo innervosì. Cercò di attirare
l’attenzione di chi gli passava accanto, ma nessuno gli diede retta. Vide
uscire Mauro diretto alle stalle, ma il giovane lo scansò. Sapeva già cos’aveva
da dirgli: il Vescovo ci aveva ripensato, Arezzo aveva bisogno di lui, il
futuro dipendeva da quello scontro e se finiva male sarebbe stata anche colpa
sua. Il messo ragionava come la sua coscienza, accidenti a lui, e non lo voleva
sentire.
Quello
allora si volse invano a Pietro, che usciva ancora in camicia, e neanche
Bencio, nervoso e spettinato, si curò di lui.
Il
rito della partenza si ripeteva: alcuni cavalli e un carro vennero preparati
vicino al portone d’accesso, le bestie gravate delle bardature e delle selle,
costrette coi morsi alle briglie, ornate di staffe e pennacchi. Sul carro si
ammassarono scudi e lance, picche e faretre, casse coi viveri ed altre col
necessario per montar le tende. Vennero issati otri di vino e due servi
tirarono le corde che tenessero il carico salvo dai sobbalzi della via.
Mauro,
rientrato nella torre, ne riemerse poco dopo vestito a battaglia. Montò in
sella e Pietro gli porse l’elmo e lo scudo.
Un
ultimo sguardo alla Berta, rimasta muta sulla soglia della torre, sorretta
dalla Ilde non meno bianca di lei, e poi dette una voce alla guardia, ché
aprisse il portone.
«Si
farà onore» mormorò il Moro. Il messo abbassò il capo: «L’Abate m’aveva incaricato
di invitar gli sposi alla messa vespertina: voleva che avessero anche la sua
benedizione».
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