Il fracasso della porta spalancata all’improvviso
abbatté la mia illusione d’aver trovato finalmente il posto adatto per condurvi
una vita tranquilla. La prossima tribolazione aveva gli occhi sgranati sulla
faccia smunta d’un lavorante malmesso, che nella concitazione inciampò sulla
soglia della sacrestia e mancò poco finisse lungo disteso sui lastroni dell’impiantito.
Stavo porgendo al prete i paramenti che doveva
indossare per la funzione vespertina, e lui li prendeva dalle mie mani e se
l’infilava dalla testa, uno ad uno, aggiustandoseli addosso con calma.
Strana figura, il prete dei Canigiani. Non somigliava per
niente a nessuno dei prelati, ed erano tanti, che avevo incontrato fino ad
allora.
Tanto per cominciare era giovane, alto e magro, sempre
sorridente, tranquillo e perfin bello. Catturava gli sguardi persi di molte
donne, ma nei dieci giorni da che ero giunta al Bastardo per fargli da serva
non ne avevo sentita nemmeno una che si vantasse d’aver giaciuto con lui.
In secondo luogo sapeva amministrare. Quando non
pregava si occupava di far fruttare le sue terre. Aveva suddiviso i poderi
perché bastassero a nutrire le famiglie dei mezzadri e dei fittavoli, non
lesinava sulle scorte vive e morte e sugli attrezzi in dotazione. Chi veniva
assunto da lui poteva dire addio alla fame e sperar di campare i figlioli. Così
le rese in poco tempo erano aumentate ed ogni anno le sue cantine e i
magazzini, sia al Bastardo che su al castello del Battifolle, si riempivano.
Nessuno l’aveva mai visto con un’arma in mano.
Non urlava mai. Non pretendeva, né dava ordini.
Piuttosto chiedeva, suggeriva, proponeva, si preoccupava. E così s’era
guadagnato la stima e il rispetto di tutti.
Indubbiamente un uomo ed un prete affascinante.
Per parte mia lo servivo volentieri, gli mandavo
avanti la casa, ne apprezzavo la compagnia ed il parlare piano, conciso,
scarno, quasi avaro, che mi dava modo di stargli intorno e allo stesso tempo
seguire i miei pensieri, i quali non avevano mai lasciato Arezzo né la casa del
mio eroe. Come avviene, la lontananza ne ingigantiva la figura. Non vedevo
l’ora che la rivolta finisse, le acque si calmassero e lui venisse a prendermi,
o almeno mandasse a chiamarmi.
«Perdonate» balbettò il poveruomo, la testa troppo
grossa su un corpo smilzo mal coperto dalla corta tunica dei braccianti.
«Perdonate, ma dicono che dovete scappare, subito».
Il Canigiani s’era voltato senza dar segno di
fastidio, e gli mostrò uno dei suoi migliori sorrisi: «E perché mai, Mariotto?»
Li conosceva tutti per nome, dipendenti e
parrocchiani.
«Gli Aretini, l’esercito, vengono qui. Hanno bruciato
il castello di Quarata e ora metteranno il campo al Bastardo».
Il cuore mi balzò in gola. Avrei rivisto Nerone! Anzi,
per un momento fantasticai che portasse lì l’esercito proprio per potermi
riabbracciare.
«Non dovreste preoccuparvi» gli fece il prete. «In
fondo siete un aretino anche voi»
«Non mi prendete in giro, vi prego. Io non m’intendo
di queste cose. Ero al lavoro dentro una fossa, da stamani a pulirla. Mandar su
nello staio le ultime manciate di grano, tirar via dalle pareti la paglia
vecchia e poi metter le trecce di paglia nuova, attorcigliata per giorni dalle
donne. Non manca molto alla battitura, lo sapete, e il grano comincerà ad
arrivare».
Le fosse! Me n’ero dimenticata.
Il Bastardo non è solo una stazione di posta
sull’incrocio delle vie per Siena, per le Chiane e per Firenze. Al Bastardo,
accidenti, ci sono le fosse, parecchie fosse. Altro che per la Maria!
L’esercito aretino veniva al Bastardo per le fosse. Ogni anno tra luglio e
agosto tutto il grano che arrivava dalla Val di Chiana, e più giù dall’Umbria e
dal Lazio, diretto a Firenze, finiva dentro le fosse del Bastardo per ripartire
poco alla volta, sui carri, per tutto l’autunno e gran parte dell’inverno, fino
alla tarda primavera, e poi ricominciare daccapo l’estate successiva. Nei
villaggi intorno, chi non era mezzadro lavorava alle fosse, sotto l’attenta
sorveglianza degli armati fiorentini di stanza al castello del Battifolle.
«Proprio loro, gli armati, son venuti di corsa a darci
l’allarme. Dicono che stamani Vitellozzo abbia preso la Fortezza, e poi
Quarata, e ora viene qui»
«Ma in questa stagione le fosse son vuote, l’avete
detto voi stesso»
«Non tutte, no. L’annata passata il raccolto fu
abbondante e ne resta ancora. Più che sufficiente per sfamare un esercito
finché non arriva il grano nuovo»
«E l’esercito fiorentino?»
«Scappati! Chi dice verso Montevarchi, o Terranova,
chi dritto fino a Firenze. E dovete scappare anche voi, o rimarrete in
trappola»
«Io sono un prete. Non faccio la guerra»
«Neanche i contadini la fanno, se non vi son
costretti. Neanche gli infossatori di grano. Ma se quelli arrivano non
porteranno rispetto a nessuno. Almeno venite su al Battifolle. Tutti stanno
salendo al castello. Famiglie intere. Anch’io devo andare, prima che sia troppo
tardi. Venite anche voi, se ci tenete alla pelle. Oltretutto ci sarete di
conforto».
Ma che stava dicendo, quello straccione ignorante?
Perché gli Aretini non avrebbero dovuto portare rispetto? Non sapeva che c’era
Nerone a comandarli? Non erano forse i Fiorentini gli oppressori? Non guardasse
al Canigiani. Lui era un caso a parte. Ma gli altri? Nerone combatteva per una
giusta causa e portava rispetto a tutti. Il prete non aveva niente da temere e
faceva bene a restare al Bastardo.
«Va bene, verremo. Maria, riponete i paramenti e
mettete le vostre cose in un sacco. Stasera la funzione si fa al Battifolle».
Rimasi senza parole. Ma come? Nerone veniva al
Bastardo e io dovevo andarmene? Che m’importava a me di quel prete, dello
straccione e di tutti gli infossatori di questo mondo? A me m’importava solo di
Nerone e non mi sarei mossa. Perdio l’avrei aspettato proprio lì, nella
sacrestia dell’oratorio del Bastardo.
«Sarà solo per stanotte, non vi crucciate». Al prete
non sfuggiva proprio niente e s’era accorto che m’ero rabbuiata. «Domani,
quando ci saremo assicurati che Vitellozzo non ha intenzioni ostili verso
questa gente, torneremo al Bastardo».
Non si riusciva a dir di no a quel prete.
Sulla salita verso il castello, quando il sole non si
vedeva già più e aveva lasciato larghe striature rossastre nel cielo sopra la
merlatura, incontrammo davvero molte famiglie di mezzadri e di lavoranti. Non
avevano molto con sé: un fagotto di stracci, una cesta con un paio di galline,
un’oca, un maiale nero o un capretto recalcitrante, una frotta di marmocchi.
Cercavano un riparo in attesa che finisse la bufera, trepidando per le messi
mature che lasciavano sui campi.
La sorpresa, quello che non ti aspetti, mi arrivò
appena varcai il portone del castello.
Come la vidi non potei credere ai miei occhi: l’Adele
stava in piedi sui gradini della cappella, e mi guardava abbozzando un sorriso.
Pareva impossibile, eppure era proprio lei.
Dimenticai il prete e l’abbracciai con tutte le mie
forze.
«T’aspettavo» mi disse quando allentai la stretta.
Alle sue spalle Mariotto, l’infossatore dalla testa
grossa, ed un ragazzetto ancora più magro di lui. Mi sorrisero a loro volta.
Ci voleva poco a capire.
«Hai messo su famiglia, vedo». Ero felice per lei.
«Vieni. Parleremo in chiesa. C’è più fresco»
«Venite voi, piuttosto». Il prete stava dando
disposizioni agli armati della guarnigione che faticavano a contenere tutto
quell’afflusso. «Non si offenderà se vi ospito in casa sua».
Aiutandomi a sistemare la camera del Canigiani,
l’Adele mi raccontò la sua storia.
Finita in un bordello di Trastevere, ci aveva passato
l’estate fra stenti e brutalità. Era tenuta come un giocattolo vecchio, da
lanciare ai clienti più abbietti e disperati, che le chiedevano e le facevano
di tutto. Neanche lei sapeva dove avesse trovato la forza per scappare.
Comunque l’aveva trovata e all’inizio di settembre s’era messa a cercarmi,
chiedendo a serve e prostitute, seguendo le indicazioni di quella che conosceva
quell’altra che aveva sentito dire dalla tale che la tizia forse… alla fine,
non so come, venne a sapere del mio incontro col Cardinal Giovanni e bussò alla
porta di servizio di palazzo Ottieri. Ovviamente non c’ero più, ma il Cardinale
non lasciò per strada neanche lei.
Mentre io venivo verso Arezzo, l’Adele fu inviata a
Siena e da lì prese la via di Firenze, dove fu accolta come serva dai
Canigiani. Seguì il prete al Bastardo, e vi conobbe il suo Mariotto, vedovo e
con un figlio ormai grande. Chiedeva lavoro, ma i poderi erano già tutti
assegnati, e a famiglie ben più numerose. L’Adele intercesse per lui: aveva
riconosciuto nel suo sguardo gli stessi effetti delle bastonate che la vita
aveva inferto a lei.
«Mandatelo alle fosse» suggerì al prete. «Lì c’è
sempre bisogno di gente, e la paga gli basterà per sostentar sé e il suo
figliolo»
«E mia moglie, se volete» rispose lui inaspettatamente,
guardandola con gratitudine. Restò interdetta.
Il Canigiani, avvezzo a parlar poco, acconsentì, e lei
si trovò maritata.
«Sei contenta?» le chiesi, e i suoi occhi risposero
per lei.
Anche per l’Adele una vita tranquilla all’ombra del
prete del Bastardo era il massimo da chiedere alla vita.
Ora la rivolta d’Arezzo stava buttando tutto all’aria,
di nuovo. Decisamente non c’era pace, per noi.
Ma come poteva aver saputo di me? Sembra incredibile
come nei villaggi tutti sappiano tutto di tutti. Appena salita al castello, le
avevano parlato della perpetua che aveva preso il suo posto, sollevandole
curiosità prima, poi agitazione ed infine, con la certezza, la smania di
rivedermi.
Nella stanza entrò Mariotto con un baule del prete.
Era davvero brutto, pover’uomo, ma l’Adele lo guardò come fosse il San Giuliano
dipinto nell’oratorio del Bastardo.
A sera il castello era ormai stipato di gente: stanze
corridoi stalle e cantine ospitavano bivacchi e giacigli improvvisati, ed anche
il grande spiazzo centrale era trasformato in un caotico accampamento, rendendo
vano ogni sforzo degli armati di mettere un po’ d’ordine.
Dopo aver servito la cena al prete, venne il mio turno
di raccontare peripezie pene e consolazioni. La rivolta d’Arezzo io la vedevo
diversamente dall’Adele, ma su un fatto ero d’accordo con lei: pareva che noi
due non trovassimo mai pace. E c’era un’altra cosa, che ci accomunava: come lei
vedeva bello il suo infossatore, così per me era senza macchia il mio
cavaliere.
A due puttane, però, le illusioni non sono concesse a
lungo.
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