sabato 16 maggio 2020

CAPITOLO 35 - FUGA DAL BASTARDO


Il fracasso della porta spalancata all’improvviso abbatté la mia illusione d’aver trovato finalmente il posto adatto per condurvi una vita tranquilla. La prossima tribolazione aveva gli occhi sgranati sulla faccia smunta d’un lavorante malmesso, che nella concitazione inciampò sulla soglia della sacrestia e mancò poco finisse lungo disteso sui lastroni dell’impiantito.
Stavo porgendo al prete i paramenti che doveva indossare per la funzione vespertina, e lui li prendeva dalle mie mani e se l’infilava dalla testa, uno ad uno, aggiustandoseli addosso con calma.
Strana figura, il prete dei Canigiani. Non somigliava per niente a nessuno dei prelati, ed erano tanti, che avevo incontrato fino ad allora.
Tanto per cominciare era giovane, alto e magro, sempre sorridente, tranquillo e perfin bello. Catturava gli sguardi persi di molte donne, ma nei dieci giorni da che ero giunta al Bastardo per fargli da serva non ne avevo sentita nemmeno una che si vantasse d’aver giaciuto con lui.
In secondo luogo sapeva amministrare. Quando non pregava si occupava di far fruttare le sue terre. Aveva suddiviso i poderi perché bastassero a nutrire le famiglie dei mezzadri e dei fittavoli, non lesinava sulle scorte vive e morte e sugli attrezzi in dotazione. Chi veniva assunto da lui poteva dire addio alla fame e sperar di campare i figlioli. Così le rese in poco tempo erano aumentate ed ogni anno le sue cantine e i magazzini, sia al Bastardo che su al castello del Battifolle, si riempivano.
Nessuno l’aveva mai visto con un’arma in mano.
Non urlava mai. Non pretendeva, né dava ordini. Piuttosto chiedeva, suggeriva, proponeva, si preoccupava. E così s’era guadagnato la stima e il rispetto di tutti.
Indubbiamente un uomo ed un prete affascinante.
Per parte mia lo servivo volentieri, gli mandavo avanti la casa, ne apprezzavo la compagnia ed il parlare piano, conciso, scarno, quasi avaro, che mi dava modo di stargli intorno e allo stesso tempo seguire i miei pensieri, i quali non avevano mai lasciato Arezzo né la casa del mio eroe. Come avviene, la lontananza ne ingigantiva la figura. Non vedevo l’ora che la rivolta finisse, le acque si calmassero e lui venisse a prendermi, o almeno mandasse a chiamarmi.
«Perdonate» balbettò il poveruomo, la testa troppo grossa su un corpo smilzo mal coperto dalla corta tunica dei braccianti. «Perdonate, ma dicono che dovete scappare, subito».
Il Canigiani s’era voltato senza dar segno di fastidio, e gli mostrò uno dei suoi migliori sorrisi: «E perché mai, Mariotto?»
Li conosceva tutti per nome, dipendenti e parrocchiani.
«Gli Aretini, l’esercito, vengono qui. Hanno bruciato il castello di Quarata e ora metteranno il campo al Bastardo».
Il cuore mi balzò in gola. Avrei rivisto Nerone! Anzi, per un momento fantasticai che portasse lì l’esercito proprio per potermi riabbracciare.
«Non dovreste preoccuparvi» gli fece il prete. «In fondo siete un aretino anche voi»
«Non mi prendete in giro, vi prego. Io non m’intendo di queste cose. Ero al lavoro dentro una fossa, da stamani a pulirla. Mandar su nello staio le ultime manciate di grano, tirar via dalle pareti la paglia vecchia e poi metter le trecce di paglia nuova, attorcigliata per giorni dalle donne. Non manca molto alla battitura, lo sapete, e il grano comincerà ad arrivare».
Le fosse! Me n’ero dimenticata.
Il Bastardo non è solo una stazione di posta sull’incrocio delle vie per Siena, per le Chiane e per Firenze. Al Bastardo, accidenti, ci sono le fosse, parecchie fosse. Altro che per la Maria! L’esercito aretino veniva al Bastardo per le fosse. Ogni anno tra luglio e agosto tutto il grano che arrivava dalla Val di Chiana, e più giù dall’Umbria e dal Lazio, diretto a Firenze, finiva dentro le fosse del Bastardo per ripartire poco alla volta, sui carri, per tutto l’autunno e gran parte dell’inverno, fino alla tarda primavera, e poi ricominciare daccapo l’estate successiva. Nei villaggi intorno, chi non era mezzadro lavorava alle fosse, sotto l’attenta sorveglianza degli armati fiorentini di stanza al castello del Battifolle.
«Proprio loro, gli armati, son venuti di corsa a darci l’allarme. Dicono che stamani Vitellozzo abbia preso la Fortezza, e poi Quarata, e ora viene qui»
«Ma in questa stagione le fosse son vuote, l’avete detto voi stesso»
«Non tutte, no. L’annata passata il raccolto fu abbondante e ne resta ancora. Più che sufficiente per sfamare un esercito finché non arriva il grano nuovo»
«E l’esercito fiorentino?»
«Scappati! Chi dice verso Montevarchi, o Terranova, chi dritto fino a Firenze. E dovete scappare anche voi, o rimarrete in trappola»
«Io sono un prete. Non faccio la guerra»
«Neanche i contadini la fanno, se non vi son costretti. Neanche gli infossatori di grano. Ma se quelli arrivano non porteranno rispetto a nessuno. Almeno venite su al Battifolle. Tutti stanno salendo al castello. Famiglie intere. Anch’io devo andare, prima che sia troppo tardi. Venite anche voi, se ci tenete alla pelle. Oltretutto ci sarete di conforto».
Ma che stava dicendo, quello straccione ignorante? Perché gli Aretini non avrebbero dovuto portare rispetto? Non sapeva che c’era Nerone a comandarli? Non erano forse i Fiorentini gli oppressori? Non guardasse al Canigiani. Lui era un caso a parte. Ma gli altri? Nerone combatteva per una giusta causa e portava rispetto a tutti. Il prete non aveva niente da temere e faceva bene a restare al Bastardo.
«Va bene, verremo. Maria, riponete i paramenti e mettete le vostre cose in un sacco. Stasera la funzione si fa al Battifolle».
Rimasi senza parole. Ma come? Nerone veniva al Bastardo e io dovevo andarmene? Che m’importava a me di quel prete, dello straccione e di tutti gli infossatori di questo mondo? A me m’importava solo di Nerone e non mi sarei mossa. Perdio l’avrei aspettato proprio lì, nella sacrestia dell’oratorio del Bastardo.
«Sarà solo per stanotte, non vi crucciate». Al prete non sfuggiva proprio niente e s’era accorto che m’ero rabbuiata. «Domani, quando ci saremo assicurati che Vitellozzo non ha intenzioni ostili verso questa gente, torneremo al Bastardo».
Non si riusciva a dir di no a quel prete.
Sulla salita verso il castello, quando il sole non si vedeva già più e aveva lasciato larghe striature rossastre nel cielo sopra la merlatura, incontrammo davvero molte famiglie di mezzadri e di lavoranti. Non avevano molto con sé: un fagotto di stracci, una cesta con un paio di galline, un’oca, un maiale nero o un capretto recalcitrante, una frotta di marmocchi. Cercavano un riparo in attesa che finisse la bufera, trepidando per le messi mature che lasciavano sui campi.
La sorpresa, quello che non ti aspetti, mi arrivò appena varcai il portone del castello.
Come la vidi non potei credere ai miei occhi: l’Adele stava in piedi sui gradini della cappella, e mi guardava abbozzando un sorriso. Pareva impossibile, eppure era proprio lei.
Dimenticai il prete e l’abbracciai con tutte le mie forze.
«T’aspettavo» mi disse quando allentai la stretta.
Alle sue spalle Mariotto, l’infossatore dalla testa grossa, ed un ragazzetto ancora più magro di lui. Mi sorrisero a loro volta.
Ci voleva poco a capire.
«Hai messo su famiglia, vedo». Ero felice per lei.
«Vieni. Parleremo in chiesa. C’è più fresco»
«Venite voi, piuttosto». Il prete stava dando disposizioni agli armati della guarnigione che faticavano a contenere tutto quell’afflusso. «Non si offenderà se vi ospito in casa sua».
Aiutandomi a sistemare la camera del Canigiani, l’Adele mi raccontò la sua storia.
Finita in un bordello di Trastevere, ci aveva passato l’estate fra stenti e brutalità. Era tenuta come un giocattolo vecchio, da lanciare ai clienti più abbietti e disperati, che le chiedevano e le facevano di tutto. Neanche lei sapeva dove avesse trovato la forza per scappare. Comunque l’aveva trovata e all’inizio di settembre s’era messa a cercarmi, chiedendo a serve e prostitute, seguendo le indicazioni di quella che conosceva quell’altra che aveva sentito dire dalla tale che la tizia forse… alla fine, non so come, venne a sapere del mio incontro col Cardinal Giovanni e bussò alla porta di servizio di palazzo Ottieri. Ovviamente non c’ero più, ma il Cardinale non lasciò per strada neanche lei.
Mentre io venivo verso Arezzo, l’Adele fu inviata a Siena e da lì prese la via di Firenze, dove fu accolta come serva dai Canigiani. Seguì il prete al Bastardo, e vi conobbe il suo Mariotto, vedovo e con un figlio ormai grande. Chiedeva lavoro, ma i poderi erano già tutti assegnati, e a famiglie ben più numerose. L’Adele intercesse per lui: aveva riconosciuto nel suo sguardo gli stessi effetti delle bastonate che la vita aveva inferto a lei.
«Mandatelo alle fosse» suggerì al prete. «Lì c’è sempre bisogno di gente, e la paga gli basterà per sostentar sé e il suo figliolo»
«E mia moglie, se volete» rispose lui inaspettatamente, guardandola con gratitudine. Restò interdetta.
Il Canigiani, avvezzo a parlar poco, acconsentì, e lei si trovò maritata.
«Sei contenta?» le chiesi, e i suoi occhi risposero per lei.
Anche per l’Adele una vita tranquilla all’ombra del prete del Bastardo era il massimo da chiedere alla vita.
Ora la rivolta d’Arezzo stava buttando tutto all’aria, di nuovo. Decisamente non c’era pace, per noi.
Ma come poteva aver saputo di me? Sembra incredibile come nei villaggi tutti sappiano tutto di tutti. Appena salita al castello, le avevano parlato della perpetua che aveva preso il suo posto, sollevandole curiosità prima, poi agitazione ed infine, con la certezza, la smania di rivedermi.
Nella stanza entrò Mariotto con un baule del prete. Era davvero brutto, pover’uomo, ma l’Adele lo guardò come fosse il San Giuliano dipinto nell’oratorio del Bastardo.
A sera il castello era ormai stipato di gente: stanze corridoi stalle e cantine ospitavano bivacchi e giacigli improvvisati, ed anche il grande spiazzo centrale era trasformato in un caotico accampamento, rendendo vano ogni sforzo degli armati di mettere un po’ d’ordine.
Dopo aver servito la cena al prete, venne il mio turno di raccontare peripezie pene e consolazioni. La rivolta d’Arezzo io la vedevo diversamente dall’Adele, ma su un fatto ero d’accordo con lei: pareva che noi due non trovassimo mai pace. E c’era un’altra cosa, che ci accomunava: come lei vedeva bello il suo infossatore, così per me era senza macchia il mio cavaliere.
A due puttane, però, le illusioni non sono concesse a lungo.

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