venerdì 8 maggio 2020

CAPITOLO 26: E ORA? LE ORE SUCCESSIVE


La pesante Porta di Sant’Angelo lentamente si aprì cigolando sui cardini. Il sole del primo pomeriggio aveva finalmente vinto sulle nuvole, disperdendole, ma lasciava in ombra il lato delle mura rivolto a tramontana e il Corridoio Fiorentino, e su quell’ombra calpestavano l’erba gli zoccoli del cavallo di Francesco Albergotti. Un Arcangelo San Michele scolpito nella pietra, dall’alto della Porta sembrava alzare minaccioso il braccio armato sulla testa del cavaliere, guardandolo come si guarda un traditore o un venduto.

L’Albergotti non ci fece caso. Erano altre, le cose che lo preoccupavano. Conosceva bene i propri concittadini, gente avvezza a covare per anni odî profondi per poi esplodere all’improvviso con una ferocia senza pari. Non bastava certo la sparuta guarnigione fiorentina a difender la Cittadella e il Cassero: bisognava trovar gente, subito. Battere camperie, cortine e contado, arruolare uomini disposti per un buon soldo a correre in soccorso: ecco cosa bisognava fare. Si voltò sconsolato a guardare i due armati che lo seguivano. In tre soltanto ci sarebbe voluto un sacco di tempo, e il tempo era proprio quello che gli mancava. Sguinzagliò comunque gli altri due per le fattorie della piana a nord della città, con l’ingiunzione di far presto e di rivedersi, prima di sera, fuori del cassero di Porta San Clemente.
Lui stesso, dopo un frenetico giro per campagne e per ville, non vi arrivò che a vespro, primo e solo. Nessuno di quei dannati contadini aveva voluto intender ragioni. La notizia della sommossa, con dovizia di particolari sulla riacquistata libertà ed i saccheggi che ne erano seguiti, aveva fatto il giro delle camperie in un baleno, distraendo dal lavoro gli stanchi zappatori e radunando gli artigiani nelle piazzette dei borghi.
Arezzo è libera! Tornano i Medici! Arriva Vitellozzo!
Perfino i suoi stessi dipendenti lo avevano scongiurato di non coinvolgerli, ed anzi, visto che era fuori, di mettersi in salvo lui stesso.
«Andate a Firenze, padrone. Salvatevi finché siete in tempo».
Un’ora dopo, la conferma.
Alla locanda fuori San Clemente, dove aveva ingannato l’attesa sbocconcellando un tozzo di pane e concedendosi un boccale di vino, arrivarono gli altri due: non portavano che un gruppetto di cinque o sei uomini già in là cogli anni, dalle mani callose e la schiena curva, bocche da sfamare piuttosto che potenziali combattenti.
Prima ancora che aprissero bocca, scaraventò il boccale contro il muro, bestemmiando tutti i santi che conosceva.
A Firenze, sicuro. Non restava che correre a Firenze. Ma non per salvarsi, no. O non soltanto.
Il Consiglio della Repubblica non avrebbe certo abbandonato Arezzo così, senza combattere.
Bisognava informarli, scuoterli dal loro proverbiale torpore, e pressarli ad intervenire, a far presto.
Un minuto ed era a cavallo, spronandolo sulla via di Vallelunga, diretto ventre a terra verso la Dominante. Avrebbe cavalcato finché c’era luce ed anche dopo, se appena fosse riuscito a distinguer la strada nel buio d’una notte che s’annunciava serena ma senza luna. E all’alba avrebbe tirato giù dal letto i signori di Firenze.

Non è facile prender sonno la notte dopo una rivoluzione. Se ci provi, le mille voci d’una giornata memorabile tornano subito ad affollarti la mente, con infiniti particolari che si inseguono e si sovrappongono in una memoria ancora desta, indaffarata nel tentativo di mettervi ordine.
Nerone non provò neppure a stendersi sul letto. A notte fonda, dopo un giro delle mura a controllare i turni di guardia alle Porte, era tornato al Palazzo dei Priori. Nella piazza c’era ancora qualcuno che tirava tardi a commentare i fatti del giorno, o che dormiva per terra, il capo contro un muro.
Salì al primo piano e si ritrovò, solo, nel salone che aveva visto proclamare la ritrovata libertà.
Rimuginava sul colpo di mano improvviso, e in larga parte improvvisato, sul suo esito fin troppo facilmente positivo, sulle prospettive che s’erano aperte e sulle cose da fare subito, a giorno.
Nessuno lo aveva nominato Capitano delle bande cittadine né dell’esercito. D'altronde nessuno aveva ancora organizzato né bande né esercito. Eppure bisognava farlo, e presto. I piani eran saltati, Vitellozzo era ancora lontano e chissà quando sarebbe arrivato, i Fiorentini arroccati nella Cittadella minacciavano ancora la città, ed erano i soli a disporre di armati di professione. La massa s’infiamma facilmente, ma altrettanto facilmente si sbanda.
Meccanicamente, tenendo il filo dei suoi pensieri, pose attenzione ai due armadi che si fronteggiavano da pareti opposte. Aprì quello che custodiva i vessilli, le bandiere e gli altri simboli ufficiali della città: da quanto tempo, si disse, nessuno ha più aperto quest’armadio! In cima al mucchio delle stoffe stinte ma piegate con cura c’era una sopravveste che era stata bianca, di quelle che si mettevano una volta in battaglia sulla cotta di maglia di ferro per mostrare al nemico in nome di quale Famiglia o Comune lo si affrontava. La sollevò con le due mani. Vi era dipinto il cavallo nero sfrenato, simbolo dell’antica Repubblica Aretina, sormontato da un cartiglio con uno strano motto, che non ricordava d’aver mai letto:
A cane non magno saepe tenetur aper.
Spesso basta un cagnolino per tenere a bada un cinghiale.
La scoperta lo esaltò: ecco una degna risposta all’ingiurioso epiteto dell’Alighieri! Botoli ringhiosi, così il Poeta della Commedia aveva bollato gli Aretini e da allora i maledetti Fiorentini non perdevano occasione per ripeterlo sghignazzando. Sorrise: oggi s’è visto come i botoli sappiano anche mordere!
Appoggiò con cura la sopravveste sul grande tavolo e andò ad aprire l’altro armadio, quello delle pergamene: c’erano gli atti ufficiali della città ed averli lì davanti gli trasmise un senso di potere. Era come se la loro esistenza, da sola, conferisse il sigillo dell’ufficialità alla rivolta e al nuovo ordine sociale che era ancora lungi dall’instaurarsi. Tirò fuori un rotolo, quello che appariva il più antico e malconcio. Soffiò via la polvere, ne sciolse il nastro con rispetto, buttò gli occhi sul capolettera e sulle prime righe d’una scrittura d’altri tempi, e trasalì.
Una lettera I lunghissima e dipinta in rosso prendeva quasi tutto il lato sinistro della pagina, terminando alle estremità con sottili volute, percorsa da un’elegante linea sinuosa del color del foglio. Più spessa in alto, si appoggiava leggermente in diagonale ai caratteri neri del testo minuto e preciso.
In nomine Domini amen. Ad honorem, laudem et reverentiam omnipotentis Dei et beate Marie semper Virginis matris eius, et beati Donati martiris patroni et defensoris Comunis et Populi civitatis Aretii…
Mentalmente tradusse il testo latino, di facile comprensione anche per lui che aveva poco studiato. Il governo della sua fattoria, del resto, gli affari in città e i doveri della sua condizione sociale gli avevano fatto incontrare innumerevoli volte la lingua latina.
Tradusse fino alla frase: Questo è lo Statuto del Comune di Arezzo fatto e composto… nell’anno del Signore dalla natività del medesimo mille trecento venti sette, indizione decima.
Lesse il dimenticato nome del sacrosanto Romano Impero e dell’imperatore Lodovico re dei Romani, lesse il mitico cognome dei Tarlati di Pietramala, e quelli dei quartieri cittadini, di Porta Burgi, di Porta del Foro, di Porta Crucifera, di Porta Sant’Andrea. Un brivido gli corse per la schiena: sapeva che il libero Comune si reggeva per statuti e leggi, anno per anno redatte e aggiornate, ma non credeva ne esistesse ancora copia.
Quando era piccolo, nelle serate d’inverno, un anziano casiere gli raccontava vecchie storie. Spesso gli parlava della vendita di Arezzo alla Dominante e descriveva gli incendi e le distruzioni che ne erano seguite, nel lontano 1384.
«Bruciarono in piazza i pubblici registri» ripeteva ogni volta, «e gli atti, e i decreti dei Priori, e gli Statuti». Qui faceva una pausa, gli si avvicinava ed abbassava la voce: «Perché non rimanesse traccia del libero Comune». Appoggiava la schiena contro il muro e concludeva: «Non s’è salvato niente».
Nerone arrotolò con cura il documento: evidentemente il vecchio si sbagliava, ed ora questi fogli potevano diventare preziosi. Ecco da dove ripartire. Ecco la base sulla quale costruire la nuova Arezzo. Ne avrebbe parlato al Lambardi, l’indomani. No, anzi, ora, subito.
Non poteva aspettare: si buttò la cappa sulle spalle ed uscì a passo svelto.

«Ma quanto ci mette, un messo, a raggiungere Camerino e tornare?»
La mano nervosa di Vitellozzo tormentava la criniera dello splendido baio, mentre lui osservava la luce del tramonto di quel sabato tinger di rosso un mucchio di paglia secca. Preferiva la compagnia dei suoi cavalli alla comodità delle stanze del palazzo. Tarlatino gli era a fianco e seguiva, in silenzio come sempre, lo sfogo del suo Capitano.
Appena dopo desinare, un messo trafelato giunto da Arezzo gli aveva portato la notizia della rivolta e la richiesta d’intervenire subito, gettandolo nello sconforto.
Troppo presto, accidenti! Lui non era ancora pronto. E poi, così all’improvviso, non aveva neanche potuto definire col Valentino i particolari dell’azione. E se il Borgia non lo avesse sostenuto? Se il Papa non fosse stato d’accordo? Incalzò il messo per avere particolari che quello, partito subito per ordine del Lambardi, non conosceva. Ne cavò solo la notizia dell’arresto di Nerone, dell’assembramento alla Porta di Santo Spirito, della ressa al Palazzo dei Priori e della cattura del Commissario e del Capitano di Giustizia.
Neanche mezzora dopo un uomo di Vitellozzo cavalcava ventre a terra verso il campo del Borgia, che in quei giorni stava assediando Camerino, nelle Marche.
Adesso, roso dall’inquietudine, non vedeva l’ora d’aver risposte. Tarlatino, in una pausa dello sfogo, buttò là che ci voleva pazienza: in fondo il messo era partito nel primo pomeriggio. Doveva arrivare a Camerino, aspettare di esser ricevuto da Cesare Borgia e poi attender la risposta. Non era pensabile che tornasse prima del giorno dopo.
Come sempre Vitellozzo dovette dargli ragione: «Lo so, lo so». Afferrò la spazzola e si mise a strigliare il destriero.
Ma questi Aretini! Farsi scoprire così, prima ancora di muoversi! Non si può proprio farci affidamento, che Dio li fulmini! Anni di lavoro paziente e sotterraneo, di contatti e colloqui, una rete messa insieme maglia dopo maglia, attento a non sbagliare una mossa, ed ecco che appena coinvolgi gli Aretini tutto va all’aria!
Lo sfogo era ricominciato e gli arrossava il neo sullo zigomo. Tarlatino, che aveva parlato con l’ambasciatore di Arezzo mentre si rifocillava, provò a prender le difese dei ribelli: «Pare che la spiata sia partita da qui»
«Da Città di Castello!? Non è possibile!»
«Un ragazzo, dicono, che voi avete bandito qualche tempo fa. Per vendetta»
«Trovalo! Manda qualcuno a cercarlo e fallo portare da me. Voglio ucciderlo con le mie mani! Gliela cavo io, la voglia di vendicarsi»
«Già fatto, Capitano, ma pare che sia rifugiato in Arezzo, sotto la diretta protezione di Guglielmo de’ Pazzi»
«Non hai sentito!? Guglielmo adesso è prigioniero e non può proteggere nessuno»
«Certo, quando prenderemo Arezzo… perché il piano va avanti, vero? In fondo, gli Aretini hanno reagito bene: non si sono fatti prendere dal panico e pare che abbiano in mano la situazione. Forse potrebbero anche fare da soli, ma…»
«Da soli un corno! Con quali armi, eh? Dove li trovano i soldati? Con quali forze si opporranno a Firenze? Pensi davvero che i Fiorentini, con tutti i guai che già hanno dalle parti di Pisa e in quel di Pistoia, si lascino tranquillamente beffare anche dagli Aretini?»
Guardò feroce il suo luogotenente: «Ti sei ammattito? Dobbiamo muoverci, invece, e alla svelta, prima che la Dominante si organizzi. Ma ho le mani legate, vedi. Chissà come la prenderà il Valentino. Non posso certo attaccare se lui non è d’accordo. Va bene che vuole la Toscana e la mia guerra contro Firenze gli fa comodo, ma ci sono troppi intralci. Chi lo sa cos’ha davvero in testa, quel demonio, e cosa ne pensa il Papa suo padre, e Re Luigi»
«Comunque non siamo ancora pronti»
«Però si potrebbe mandargli un po’ di gente, e potrebbe andarci il Petrucci da Siena, e il Baglioni: li ho già fatti avvertire, ma se il messo non torna da Camerino…»
Scaraventò la spazzola contro il muro e si buttò sulla paglia. Il sole non la illuminava più e la stalla pian piano calava nell’oscurità. Tarlatino ritenne inutile aggiungere parole, accennò un inchino ed uscì. Vitellozzo quella notte avrebbe dormito sul cumulo di paglia secca, così vestito come si trovava, senza neanche cenare. Se fosse riuscito a dormire.

Stava appena facendo giorno, in Firenze, un’alba serena quanto al cielo ma densa di preoccupazioni nella testa di Pier Soderini, quando Francesco Albergotti chiese, anzi ordinò al servo di tirar giù dal letto il suo padrone perché lo ricevesse.
Per il Gonfaloniere della Repubblica non fu un bel risveglio. Ascoltò il racconto, agitato e confuso, dei fatti successi in Arezzo. Qualcosa gli era giunto già la sera prima ed aveva giusto deciso di mandar qualcuno ad accertarsi di cosa stesse succedendo. Adesso, in piedi, ancora in camicia e cuffia, le nebbie del sonno non del tutto diradate, si sforzava di mettere a fuoco una situazione drammatica e allarmante.
Mentre l’Albergotti continuava a parlare, aggiungendo particolari e mischiandovi pareri consigli e richieste, il Soderini pensava a come muoversi. In fondo, messer Machiavelli non aveva torto quando suggeriva maggior decisione nel trattare gli Aretini: non mancavano le teste calde, in quella stramaledetta città. Chi aveva detto, qualche giorno prima, che bisognava tener Pisa senza Pisani e Arezzo senza denari?
Ma questa ribellione non era certo frutto dell’iniziativa di qualche aretino, pochi o tanti che fossero. Qui c’era di sicuro lo zampino del Vitelli, e quindi del Valentino.
Quello pensava in grande e ormai l’avevan capito anche i sassi che voleva la Toscana. Finora ne era stato frenato dal Re di Francia, e l’aveva presa alla larga, assediando Piombino, ma questa rivolta significava un cambio certo di strategia e un attacco diretto a Firenze. Se le cose stavano così, la Repubblica non avrebbe resistito a lungo alla sua potenza militare.
Ma forse c’erano ancora speranze. Se l’Albergotti la raccontava giusta, la scoperta della congiura aveva costretto gli Aretini ad anticipare i piani, e magari Vitellozzo non era ancora pronto, e mandando subito un esercito… sì, ma quale? L’assedio infinito di Pisa non vedeva appunto fine. Ingaggiare altre compagnie richiedeva tempo, e denari che non c’erano, o almeno non abbastanza. Forse Re Luigi… Ancora una volta quel demonio del Machiavelli aveva ragione!
Sì, ma l’esercito francese era in Francia come il suo Re, e poi Luigi non avrebbe certo mosso guerra al Valentino e al Papa, ed anzi poteva approfittare dell’occasione per venir lui ad occupar Firenze, come successe nel ’94 con Carlo VIII. E poi c’erano i Medici: il cardinal Giovanni aveva percorso l’Europa in lungo e in largo per stringere alleanze, e adesso era a Roma. Magari non aveva buoni rapporti col Borgia, ma Roma non è solo il Papa. Prima di muoversi bisognava capire bene, e comunque ci sarebbe stato da spendere, proprio come diceva il Machiavelli.
«Mi state a sentire, messer Soderini?»
«Sì, scusate. Le notizie che ci avete portato sono di enorme gravità, ma potete riferire ai vostri concittadini che la Repubblica saprà porvi rimedio con la decisione necessaria»
«Perdonate, ma non posso certo tornare ad Arezzo»
«Sì, certo. Come volete. Ora però datemi il tempo di vestirmi».
Mentre l’Albergotti s’allontanava, fece un cenno al capo delle guardie, che prontamente s’avvicinò: «Fate venire il Bargello, subito!»
Qualche minuto dopo, tornato in camera, mentre il suo servo più fidato lo aiutava a vestirsi, gli parlò a voce bassa, quasi non volesse farsi sentire nemmeno dai muri: «Fatti un giro in città e convoca di persona i membri del Consiglio degli Ottanta. Li voglio tutti in San Giovanni per l’ora terza. Ora si vedrà chi sta davvero con la Repubblica».
Non era la prima volta che affidava al servo un incarico delicato; quello si limitò ad annuire e partì. Sulla porta incrociò il Bargello che arrivava di corsa.
«Disponete perché gli Aretini presenti in Firenze vengano arrestati, nessuno escluso».
Uscito anche il Bargello, Pier Soderini continuò a macerarsi nei suoi pensieri. Avrebbe proposto di tornare a nominare finalmente i Dieci di Balia, e questo avrebbe provocato polemiche e mugugni, ma la situazione era troppo grave e la città intera doveva farsene carico. Ci sarebbero state discussioni ed opinioni contrastanti, e lui contava che si sarebbero annullate una con l’altra, facilitandogli così l’ingrato compito.
Già, ma come conveniva muoversi? Abbandonare l’impresa di Pisa per spostare l’esercito verso Arezzo? E se invece le notizie portate dall’Albergotti fossero state gonfiate ad arte e qualcuno, dietro di lui, volesse distoglierlo da Pisa proprio ora che s’era quasi alla resa dei conti? Che ci fosse dietro insomma lo zampino degli irriducibili partigiani dei Medici? Lo stesso Albergotti riferiva che gli Aretini gridavano Palle! Palle! O magari gli Ottimati volevano proprio ripristinare il magistrato dei Dieci di Balia per limitare il potere popolare.
Gli restavano due ore per chiarirsi tutti quei dubbi.

«Caro Nerone, mi piacete. Siete un uomo coraggioso e di forti slanci, un Capitano ideale per i nostri ragazzi che dovranno difendere la libertà di Arezzo. Come ogni idealista, però, tendete all’ingenuità e in politica, perdonate, questa è una colpa grave».
La sua preziosa pergamena in mano, Nerone ascoltava a bocca aperta l’inatteso rimbrotto del Lambardi. Aveva preso anche la sopravveste, ma di quella allo Sfregiato non aveva fatto parola. Neppure il Gonfaloniere aveva chiuso occhio e la visita del Pantaneto lo aveva trovato avvolto nelle medesime congetture. E non s’era ancora deciso su cosa convenisse fare.
«In politica non si possono confondere i sogni con la realtà, e quello che tenete nelle mani è soltanto un sogno, tanto bello quanto può essere amaro e tragico il risveglio. Arezzo, vedete, è tornata libera, ma solo in nome dei Medici e delle loro palle. Solo perché si son mosse Siena e Perugia. Solo perché Vitellozzo sta conducendo la sua guerra personale contro la Repubblica Fiorentina, e Cesare Borgia forse glielo permetterà, e il Papa sarà d’accordo, e il Re di Francia lascerà fare. Un gioco d’incastri, ecco cos’è la politica».
Nerone cominciò ad innervosirsi: «E noi? Mi dite che ci stiamo a fare, in questo gioco?»
«Ci stiamo per fare e per avere la nostra parte. Il gioco è partito e Arezzo è il tavolo su cui si gioca. Possiamo scegliere di farci calpestare dagli altri giocatori o fare anche noi le nostre mosse. E per prima cosa dobbiamo scegliere la nostra squadra: non abbiamo mezzi per giocare da soli e quindi stiamo con i Medici. Semplice, no? Capite ora perché non c’è spazio per il vostro Statuto?»
«Fornire armati e mura alle ambizioni di Piero il Fatuo. È questo che faremo?»
«Non proprio. Comunque vi devo ringraziare. Parlar con voi mi sta chiarendo le idee. Intanto faremo sì che armati e mura siano le nostre: oggi stesso formeremo un esercito aretino, e voi ne sarete a capo. Vitellozzo ancora non arriva e dobbiamo dimostrare di saper difendere la libertà riacquistata. Anche il vostro Statuto, in fondo, può tornarci utile: il popolo ha bisogno di simboli».
Nerone si rincuorò. Non era quello che sperava, ma sempre meglio di niente.
Piuttosto il Lambardi lo sapeva, come muoversi?
Glielo chiese, e il Gonfaloniere allargò le braccia. Per fortuna in quel momento a Città di Castello il messo di Vitellozzo era tornato da Camerino, cavalcando tutta la notte e portando le lodi del Valentino per le mosse degli Aretini, con l’ordine di correre in loro aiuto.

«Burchio! Simone! Arezzo vi aspetta. Prendete cento cinquanta cavalli. Giovanni, tu vai con loro».
L’agitazione era al massimo nella corte di palazzo Vitelli, prima ancora che facesse giorno.
Dunque il Borgia non aveva rinunciato a prendersi la Toscana.
Via libera!
Vitellozzo s’agitava correndo da un lato all’altro della corte. Burchio e suo figlio Simone, capitani di cavalleria e Aretini di nascita, lo seguivano dappresso.
«Dite loro che arriverò presto con le mie Compagnie. Dite che prenderemo la Fortezza e tutte le terre del contado. Dite che il Petrucci da Siena ha già mandato una compagnia di cento cavalli e arriverà subito anche il Baglioni con i suoi. Dite che stiano forti. Dite che la Repubblica è finita!»
Tarlatino sorrise: Vitellozzo era tornato quello d’un tempo.

Poco prima del mezzodì, in San Giovanni Pier Soderini rimase solo e appoggiò la schiena sull’alta spalliera della sedia. Il Consiglio degli Ottanta, come previsto, non aveva deciso. Lo spettro dei Medici incombeva, e la paura aveva convinto tutti della necessità di agire, ma era prevalsa l’opinione di non mandare a monte l’impresa di Pisa. Luigi della Stufa e Antonio Serristori erano stati spediti a far genti in Valdarno e in Casentino, con la consegna di avvicinarsi ad Arezzo e ripristinarvi l’ordine. Forse sarebbe bastato.
Ad ogni buon conto era partita pure una lettera, destinata a Re Luigi e scritta di suo pugno dal Soderini nei minuti che avevano preceduto l’assemblea, con la richiesta di aiuto urgente e l’offerta d’una bella somma.
Una volta di più il futuro di Firenze era affidato alla forza di convinzione dei suoi fiorini.

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