La pesante Porta
di Sant’Angelo lentamente si aprì cigolando sui cardini. Il sole del primo
pomeriggio aveva finalmente vinto sulle nuvole, disperdendole, ma lasciava in
ombra il lato delle mura rivolto a tramontana e il Corridoio Fiorentino, e su
quell’ombra calpestavano l’erba gli zoccoli del cavallo di Francesco
Albergotti. Un Arcangelo San Michele scolpito nella pietra, dall’alto della
Porta sembrava alzare minaccioso il braccio armato sulla testa del cavaliere,
guardandolo come si guarda un traditore o un venduto.
L’Albergotti non
ci fece caso. Erano altre, le cose che lo preoccupavano. Conosceva bene i
propri concittadini, gente avvezza a covare per anni odî profondi per poi
esplodere all’improvviso con una ferocia senza pari. Non bastava certo la
sparuta guarnigione fiorentina a difender la Cittadella e il Cassero: bisognava
trovar gente, subito. Battere camperie, cortine e contado, arruolare uomini
disposti per un buon soldo a correre in soccorso: ecco cosa bisognava fare. Si
voltò sconsolato a guardare i due armati che lo seguivano. In tre soltanto ci
sarebbe voluto un sacco di tempo, e il tempo era proprio quello che gli
mancava. Sguinzagliò comunque gli altri due per le fattorie della piana a nord
della città, con l’ingiunzione di far presto e di rivedersi, prima di sera,
fuori del cassero di Porta San Clemente.
Lui stesso, dopo
un frenetico giro per campagne e per ville, non vi arrivò che a vespro, primo e
solo. Nessuno di quei dannati contadini aveva voluto intender ragioni. La
notizia della sommossa, con dovizia di particolari sulla riacquistata libertà
ed i saccheggi che ne erano seguiti, aveva fatto il giro delle camperie in un
baleno, distraendo dal lavoro gli stanchi zappatori e radunando gli artigiani
nelle piazzette dei borghi.
Arezzo è libera!
Tornano i Medici! Arriva Vitellozzo!
Perfino i suoi
stessi dipendenti lo avevano scongiurato di non coinvolgerli, ed anzi, visto
che era fuori, di mettersi in salvo lui stesso.
«Andate a
Firenze, padrone. Salvatevi finché siete in tempo».
Un’ora dopo, la
conferma.
Alla locanda
fuori San Clemente, dove aveva ingannato l’attesa sbocconcellando un tozzo di
pane e concedendosi un boccale di vino, arrivarono gli altri due: non portavano
che un gruppetto di cinque o sei uomini già in là cogli anni, dalle mani
callose e la schiena curva, bocche da sfamare piuttosto che potenziali
combattenti.
Prima ancora che
aprissero bocca, scaraventò il boccale contro il muro, bestemmiando tutti i
santi che conosceva.
A Firenze,
sicuro. Non restava che correre a Firenze. Ma non per salvarsi, no. O non
soltanto.
Il Consiglio
della Repubblica non avrebbe certo abbandonato Arezzo così, senza combattere.
Bisognava
informarli, scuoterli dal loro proverbiale torpore, e pressarli ad intervenire,
a far presto.
Un minuto ed era
a cavallo, spronandolo sulla via di Vallelunga, diretto ventre a terra verso la
Dominante. Avrebbe cavalcato finché c’era luce ed anche dopo, se appena fosse
riuscito a distinguer la strada nel buio d’una notte che s’annunciava serena ma
senza luna. E all’alba avrebbe tirato giù dal letto i signori di Firenze.
Non è facile
prender sonno la notte dopo una rivoluzione. Se ci provi, le mille voci d’una
giornata memorabile tornano subito ad affollarti la mente, con infiniti
particolari che si inseguono e si sovrappongono in una memoria ancora desta,
indaffarata nel tentativo di mettervi ordine.
Nerone non provò
neppure a stendersi sul letto. A notte fonda, dopo un giro delle mura a
controllare i turni di guardia alle Porte, era tornato al Palazzo dei Priori.
Nella piazza c’era ancora qualcuno che tirava tardi a commentare i fatti del
giorno, o che dormiva per terra, il capo contro un muro.
Salì al primo
piano e si ritrovò, solo, nel salone che aveva visto proclamare la ritrovata
libertà.
Rimuginava sul
colpo di mano improvviso, e in larga parte improvvisato, sul suo esito fin
troppo facilmente positivo, sulle prospettive che s’erano aperte e sulle cose
da fare subito, a giorno.
Nessuno lo aveva
nominato Capitano delle bande cittadine né dell’esercito. D'altronde nessuno
aveva ancora organizzato né bande né esercito. Eppure bisognava farlo, e
presto. I piani eran saltati, Vitellozzo era ancora lontano e chissà quando
sarebbe arrivato, i Fiorentini arroccati nella Cittadella minacciavano ancora
la città, ed erano i soli a disporre di armati di professione. La massa
s’infiamma facilmente, ma altrettanto facilmente si sbanda.
Meccanicamente,
tenendo il filo dei suoi pensieri, pose attenzione ai due armadi che si
fronteggiavano da pareti opposte. Aprì quello che custodiva i vessilli, le
bandiere e gli altri simboli ufficiali della città: da quanto tempo, si disse,
nessuno ha più aperto quest’armadio! In cima al mucchio delle stoffe stinte ma
piegate con cura c’era una sopravveste che era stata bianca, di quelle che si
mettevano una volta in battaglia sulla cotta di maglia di ferro per mostrare al
nemico in nome di quale Famiglia o Comune lo si affrontava. La sollevò con le
due mani. Vi era dipinto il cavallo nero sfrenato, simbolo dell’antica
Repubblica Aretina, sormontato da un cartiglio con uno strano motto, che non ricordava
d’aver mai letto:
A cane
non magno saepe tenetur aper.
Spesso
basta un cagnolino per tenere a bada un cinghiale.
La scoperta lo
esaltò: ecco una degna risposta all’ingiurioso epiteto dell’Alighieri! Botoli ringhiosi, così il Poeta della
Commedia aveva bollato gli Aretini e da allora i maledetti Fiorentini non
perdevano occasione per ripeterlo sghignazzando. Sorrise: oggi s’è visto come i
botoli sappiano anche mordere!
Appoggiò con
cura la sopravveste sul grande tavolo e andò ad aprire l’altro armadio, quello
delle pergamene: c’erano gli atti ufficiali della città ed averli lì davanti
gli trasmise un senso di potere. Era come se la loro esistenza, da sola,
conferisse il sigillo dell’ufficialità alla rivolta e al nuovo ordine sociale
che era ancora lungi dall’instaurarsi. Tirò fuori un rotolo, quello che
appariva il più antico e malconcio. Soffiò via la polvere, ne sciolse il nastro
con rispetto, buttò gli occhi sul capolettera e sulle prime righe d’una
scrittura d’altri tempi, e trasalì.
Una lettera I lunghissima e dipinta in rosso
prendeva quasi tutto il lato sinistro della pagina, terminando alle estremità
con sottili volute, percorsa da un’elegante linea sinuosa del color del foglio.
Più spessa in alto, si appoggiava leggermente in diagonale ai caratteri neri
del testo minuto e preciso.
In nomine Domini amen. Ad
honorem, laudem et reverentiam omnipotentis Dei et beate Marie semper Virginis
matris eius, et beati Donati martiris patroni et defensoris Comunis et Populi
civitatis Aretii…
Mentalmente
tradusse il testo latino, di facile comprensione anche per lui che aveva poco
studiato. Il governo della sua fattoria, del resto, gli affari in città e i
doveri della sua condizione sociale gli avevano fatto incontrare innumerevoli
volte la lingua latina.
Tradusse fino
alla frase: Questo è lo Statuto del
Comune di Arezzo fatto e composto… nell’anno del Signore dalla natività del
medesimo mille trecento venti sette, indizione decima.
Lesse il
dimenticato nome del sacrosanto Romano Impero e dell’imperatore Lodovico re dei
Romani, lesse il mitico cognome dei Tarlati di Pietramala, e quelli dei
quartieri cittadini, di Porta Burgi, di Porta del Foro, di Porta Crucifera, di
Porta Sant’Andrea. Un brivido gli corse per la schiena: sapeva che il libero
Comune si reggeva per statuti e leggi, anno per anno redatte e aggiornate, ma
non credeva ne esistesse ancora copia.
Quando era
piccolo, nelle serate d’inverno, un anziano casiere gli raccontava vecchie
storie. Spesso gli parlava della vendita di Arezzo alla Dominante e descriveva
gli incendi e le distruzioni che ne erano seguite, nel lontano 1384.
«Bruciarono in
piazza i pubblici registri» ripeteva ogni volta, «e gli atti, e i decreti dei
Priori, e gli Statuti». Qui faceva una pausa, gli si avvicinava ed abbassava la
voce: «Perché non rimanesse traccia del libero Comune». Appoggiava la schiena
contro il muro e concludeva: «Non s’è salvato niente».
Nerone arrotolò
con cura il documento: evidentemente il vecchio si sbagliava, ed ora questi
fogli potevano diventare preziosi. Ecco da dove ripartire. Ecco la base sulla
quale costruire la nuova Arezzo. Ne avrebbe parlato al Lambardi, l’indomani.
No, anzi, ora, subito.
Non poteva
aspettare: si buttò la cappa sulle spalle ed uscì a passo svelto.
«Ma quanto ci
mette, un messo, a raggiungere Camerino e tornare?»
La mano nervosa
di Vitellozzo tormentava la criniera dello splendido baio, mentre lui osservava
la luce del tramonto di quel sabato tinger di rosso un mucchio di paglia secca.
Preferiva la compagnia dei suoi cavalli alla comodità delle stanze del palazzo.
Tarlatino gli era a fianco e seguiva, in silenzio come sempre, lo sfogo del suo
Capitano.
Appena dopo
desinare, un messo trafelato giunto da Arezzo gli aveva portato la notizia
della rivolta e la richiesta d’intervenire subito, gettandolo nello sconforto.
Troppo presto,
accidenti! Lui non era ancora pronto. E poi, così all’improvviso, non aveva
neanche potuto definire col Valentino i particolari dell’azione. E se il Borgia
non lo avesse sostenuto? Se il Papa non fosse stato d’accordo? Incalzò il messo
per avere particolari che quello, partito subito per ordine del Lambardi, non
conosceva. Ne cavò solo la notizia dell’arresto di Nerone, dell’assembramento
alla Porta di Santo Spirito, della ressa al Palazzo dei Priori e della cattura
del Commissario e del Capitano di Giustizia.
Neanche mezzora
dopo un uomo di Vitellozzo cavalcava ventre a terra verso il campo del Borgia,
che in quei giorni stava assediando Camerino, nelle Marche.
Adesso, roso
dall’inquietudine, non vedeva l’ora d’aver risposte. Tarlatino, in una pausa
dello sfogo, buttò là che ci voleva pazienza: in fondo il messo era partito nel
primo pomeriggio. Doveva arrivare a Camerino, aspettare di esser ricevuto da
Cesare Borgia e poi attender la risposta. Non era pensabile che tornasse prima
del giorno dopo.
Come sempre
Vitellozzo dovette dargli ragione: «Lo so, lo so». Afferrò la spazzola e si
mise a strigliare il destriero.
Ma questi
Aretini! Farsi scoprire così, prima ancora di muoversi! Non si può proprio
farci affidamento, che Dio li fulmini! Anni di lavoro paziente e sotterraneo,
di contatti e colloqui, una rete messa insieme maglia dopo maglia, attento a
non sbagliare una mossa, ed ecco che appena coinvolgi gli Aretini tutto va
all’aria!
Lo sfogo era
ricominciato e gli arrossava il neo sullo zigomo. Tarlatino, che aveva parlato
con l’ambasciatore di Arezzo mentre si rifocillava, provò a prender le difese
dei ribelli: «Pare che la spiata sia partita da qui»
«Da Città di
Castello!? Non è possibile!»
«Un ragazzo,
dicono, che voi avete bandito qualche tempo fa. Per vendetta»
«Trovalo! Manda
qualcuno a cercarlo e fallo portare da me. Voglio ucciderlo con le mie mani!
Gliela cavo io, la voglia di vendicarsi»
«Già fatto,
Capitano, ma pare che sia rifugiato in Arezzo, sotto la diretta protezione di
Guglielmo de’ Pazzi»
«Non hai
sentito!? Guglielmo adesso è prigioniero e non può proteggere nessuno»
«Certo, quando
prenderemo Arezzo… perché il piano va avanti, vero? In fondo, gli Aretini hanno
reagito bene: non si sono fatti prendere dal panico e pare che abbiano in mano
la situazione. Forse potrebbero anche fare da soli, ma…»
«Da soli un
corno! Con quali armi, eh? Dove li trovano i soldati? Con quali forze si
opporranno a Firenze? Pensi davvero che i Fiorentini, con tutti i guai che già
hanno dalle parti di Pisa e in quel di Pistoia, si lascino tranquillamente
beffare anche dagli Aretini?»
Guardò feroce il
suo luogotenente: «Ti sei ammattito? Dobbiamo muoverci, invece, e alla svelta,
prima che la Dominante si organizzi. Ma ho le mani legate, vedi. Chissà come la
prenderà il Valentino. Non posso certo attaccare se lui non è d’accordo. Va
bene che vuole la Toscana e la mia guerra contro Firenze gli fa comodo, ma ci
sono troppi intralci. Chi lo sa cos’ha davvero in testa, quel demonio, e cosa
ne pensa il Papa suo padre, e Re Luigi»
«Comunque non
siamo ancora pronti»
«Però si
potrebbe mandargli un po’ di gente, e potrebbe andarci il Petrucci da Siena, e
il Baglioni: li ho già fatti avvertire, ma se il messo non torna da Camerino…»
Scaraventò la
spazzola contro il muro e si buttò sulla paglia. Il sole non la illuminava più
e la stalla pian piano calava nell’oscurità. Tarlatino ritenne inutile
aggiungere parole, accennò un inchino ed uscì. Vitellozzo quella notte avrebbe
dormito sul cumulo di paglia secca, così vestito come si trovava, senza neanche
cenare. Se fosse riuscito a dormire.
Stava appena
facendo giorno, in Firenze, un’alba serena quanto al cielo ma densa di
preoccupazioni nella testa di Pier Soderini, quando Francesco Albergotti chiese,
anzi ordinò al servo di tirar giù dal letto il suo padrone perché lo ricevesse.
Per il
Gonfaloniere della Repubblica non fu un bel risveglio. Ascoltò il racconto,
agitato e confuso, dei fatti successi in Arezzo. Qualcosa gli era giunto già la
sera prima ed aveva giusto deciso di mandar qualcuno ad accertarsi di cosa
stesse succedendo. Adesso, in piedi, ancora in camicia e cuffia, le nebbie del
sonno non del tutto diradate, si sforzava di mettere a fuoco una situazione
drammatica e allarmante.
Mentre l’Albergotti
continuava a parlare, aggiungendo particolari e mischiandovi pareri consigli e
richieste, il Soderini pensava a come muoversi. In fondo, messer Machiavelli
non aveva torto quando suggeriva maggior decisione nel trattare gli Aretini:
non mancavano le teste calde, in quella stramaledetta città. Chi aveva detto,
qualche giorno prima, che bisognava tener
Pisa senza Pisani e Arezzo senza denari?
Ma questa
ribellione non era certo frutto dell’iniziativa di qualche aretino, pochi o
tanti che fossero. Qui c’era di sicuro lo zampino del Vitelli, e quindi del
Valentino.
Quello pensava
in grande e ormai l’avevan capito anche i sassi che voleva la Toscana. Finora
ne era stato frenato dal Re di Francia, e l’aveva presa alla larga, assediando
Piombino, ma questa rivolta significava un cambio certo di strategia e un
attacco diretto a Firenze. Se le cose stavano così, la Repubblica non avrebbe
resistito a lungo alla sua potenza militare.
Ma forse c’erano
ancora speranze. Se l’Albergotti la raccontava giusta, la scoperta della
congiura aveva costretto gli Aretini ad anticipare i piani, e magari Vitellozzo
non era ancora pronto, e mandando subito un esercito… sì, ma quale? L’assedio
infinito di Pisa non vedeva appunto fine. Ingaggiare altre compagnie richiedeva
tempo, e denari che non c’erano, o almeno non abbastanza. Forse Re Luigi…
Ancora una volta quel demonio del Machiavelli aveva ragione!
Sì, ma
l’esercito francese era in Francia come il suo Re, e poi Luigi non avrebbe
certo mosso guerra al Valentino e al Papa, ed anzi poteva approfittare
dell’occasione per venir lui ad occupar Firenze, come successe nel ’94 con
Carlo VIII. E poi c’erano i Medici: il cardinal Giovanni aveva percorso
l’Europa in lungo e in largo per stringere alleanze, e adesso era a Roma.
Magari non aveva buoni rapporti col Borgia, ma Roma non è solo il Papa. Prima
di muoversi bisognava capire bene, e comunque ci sarebbe stato da spendere,
proprio come diceva il Machiavelli.
«Mi state a
sentire, messer Soderini?»
«Sì, scusate. Le
notizie che ci avete portato sono di enorme gravità, ma potete riferire ai
vostri concittadini che la Repubblica saprà porvi rimedio con la decisione
necessaria»
«Perdonate, ma
non posso certo tornare ad Arezzo»
«Sì, certo. Come
volete. Ora però datemi il tempo di vestirmi».
Mentre
l’Albergotti s’allontanava, fece un cenno al capo delle guardie, che
prontamente s’avvicinò: «Fate venire il Bargello, subito!»
Qualche minuto
dopo, tornato in camera, mentre il suo servo più fidato lo aiutava a vestirsi,
gli parlò a voce bassa, quasi non volesse farsi sentire nemmeno dai muri:
«Fatti un giro in città e convoca di persona i membri del Consiglio degli
Ottanta. Li voglio tutti in San Giovanni per l’ora terza. Ora si vedrà chi sta
davvero con la Repubblica».
Non era la prima
volta che affidava al servo un incarico delicato; quello si limitò ad annuire e
partì. Sulla porta incrociò il Bargello che arrivava di corsa.
«Disponete
perché gli Aretini presenti in Firenze vengano arrestati, nessuno escluso».
Uscito anche il
Bargello, Pier Soderini continuò a macerarsi nei suoi pensieri. Avrebbe
proposto di tornare a nominare finalmente i Dieci di Balia, e questo avrebbe
provocato polemiche e mugugni, ma la situazione era troppo grave e la città
intera doveva farsene carico. Ci sarebbero state discussioni ed opinioni
contrastanti, e lui contava che si sarebbero annullate una con l’altra,
facilitandogli così l’ingrato compito.
Già, ma come
conveniva muoversi? Abbandonare l’impresa di Pisa per spostare l’esercito verso
Arezzo? E se invece le notizie portate dall’Albergotti fossero state gonfiate
ad arte e qualcuno, dietro di lui, volesse distoglierlo da Pisa proprio ora che
s’era quasi alla resa dei conti? Che ci fosse dietro insomma lo zampino degli
irriducibili partigiani dei Medici? Lo stesso Albergotti riferiva che gli
Aretini gridavano Palle! Palle! O
magari gli Ottimati volevano proprio ripristinare il magistrato dei Dieci di
Balia per limitare il potere popolare.
Gli restavano
due ore per chiarirsi tutti quei dubbi.
«Caro Nerone, mi
piacete. Siete un uomo coraggioso e di forti slanci, un Capitano ideale per i
nostri ragazzi che dovranno difendere la libertà di Arezzo. Come ogni
idealista, però, tendete all’ingenuità e in politica, perdonate, questa è una
colpa grave».
La sua preziosa
pergamena in mano, Nerone ascoltava a bocca aperta l’inatteso rimbrotto del
Lambardi. Aveva preso anche la sopravveste, ma di quella allo Sfregiato non
aveva fatto parola. Neppure il Gonfaloniere aveva chiuso occhio e la visita del
Pantaneto lo aveva trovato avvolto nelle medesime congetture. E non s’era
ancora deciso su cosa convenisse fare.
«In politica non
si possono confondere i sogni con la realtà, e quello che tenete nelle mani è
soltanto un sogno, tanto bello quanto può essere amaro e tragico il risveglio.
Arezzo, vedete, è tornata libera, ma solo in nome dei Medici e delle loro
palle. Solo perché si son mosse Siena e Perugia. Solo perché Vitellozzo sta
conducendo la sua guerra personale contro la Repubblica Fiorentina, e Cesare
Borgia forse glielo permetterà, e il Papa sarà d’accordo, e il Re di Francia
lascerà fare. Un gioco d’incastri, ecco cos’è la politica».
Nerone cominciò
ad innervosirsi: «E noi? Mi dite che ci stiamo a fare, in questo gioco?»
«Ci stiamo per
fare e per avere la nostra parte. Il gioco è partito e Arezzo è il tavolo su
cui si gioca. Possiamo scegliere di farci calpestare dagli altri giocatori o
fare anche noi le nostre mosse. E per prima cosa dobbiamo scegliere la nostra
squadra: non abbiamo mezzi per giocare da soli e quindi stiamo con i Medici.
Semplice, no? Capite ora perché non c’è spazio per il vostro Statuto?»
«Fornire armati
e mura alle ambizioni di Piero il Fatuo. È questo che faremo?»
«Non proprio.
Comunque vi devo ringraziare. Parlar con voi mi sta chiarendo le idee. Intanto
faremo sì che armati e mura siano le nostre: oggi stesso formeremo un esercito
aretino, e voi ne sarete a capo. Vitellozzo ancora non arriva e dobbiamo
dimostrare di saper difendere la libertà riacquistata. Anche il vostro Statuto,
in fondo, può tornarci utile: il popolo ha bisogno di simboli».
Nerone si
rincuorò. Non era quello che sperava, ma sempre meglio di niente.
Piuttosto il
Lambardi lo sapeva, come muoversi?
Glielo chiese, e
il Gonfaloniere allargò le braccia. Per fortuna in quel momento a Città di
Castello il messo di Vitellozzo era tornato da Camerino, cavalcando tutta la
notte e portando le lodi del Valentino per le mosse degli Aretini, con l’ordine
di correre in loro aiuto.
«Burchio!
Simone! Arezzo vi aspetta. Prendete cento cinquanta cavalli. Giovanni, tu vai
con loro».
L’agitazione era
al massimo nella corte di palazzo Vitelli, prima ancora che facesse giorno.
Dunque il Borgia
non aveva rinunciato a prendersi la Toscana.
Via libera!
Vitellozzo
s’agitava correndo da un lato all’altro della corte. Burchio e suo figlio
Simone, capitani di cavalleria e Aretini di nascita, lo seguivano dappresso.
«Dite loro che
arriverò presto con le mie Compagnie. Dite che prenderemo la Fortezza e tutte
le terre del contado. Dite che il Petrucci da Siena ha già mandato una compagnia
di cento cavalli e arriverà subito anche il Baglioni con i suoi. Dite che
stiano forti. Dite che la Repubblica è finita!»
Tarlatino
sorrise: Vitellozzo era tornato quello d’un tempo.
Poco prima del
mezzodì, in San Giovanni Pier Soderini rimase solo e appoggiò la schiena
sull’alta spalliera della sedia. Il Consiglio degli Ottanta, come previsto, non
aveva deciso. Lo spettro dei Medici incombeva, e la paura aveva convinto tutti
della necessità di agire, ma era prevalsa l’opinione di non mandare a monte
l’impresa di Pisa. Luigi della Stufa e Antonio Serristori erano stati spediti a
far genti in Valdarno e in Casentino, con la consegna di avvicinarsi ad Arezzo
e ripristinarvi l’ordine. Forse sarebbe bastato.
Ad ogni buon
conto era partita pure una lettera, destinata a Re Luigi e scritta di suo pugno
dal Soderini nei minuti che avevano preceduto l’assemblea, con la richiesta di
aiuto urgente e l’offerta d’una bella somma.
Una volta di più
il futuro di Firenze era affidato alla forza di convinzione dei suoi fiorini.
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