martedì 28 aprile 2020

IMPRESSIONI DI VIAGGIO

L'altro ieri, nel pomeriggio inoltrato d'una serena giornata di fine aprile, ho percorso in beata solitudine molti chilometri sull'autostrada del sole, verso sud. Andavo a Roma per necessità, per un motivo che non vi dirò, ma comunque previsto dai vari decreti antivirus, e dunque legittimo.
L'andatura tranquilla e l'assenza quasi totale di traffico m'han lasciato libero di ammirare le geometrie perfette eppur varie dei campi, verdi di giovane grano, gialli di rape fiorite, ocra di arature recenti, scolpiti dalle file regolari dei frutteti, bordati da fossi sottili o da canali stretti tra i binari delle alzate.
Brevi filari di cipressi puntano il cielo. Aceri e gelsi sfoggiano le chiome nuove. Boschetti rigogliosi occupano le asperità d'una piana quasi mai regolare né vasta.

Case sparse ammiccano dalle colline: vecchie coloniche o casolari di pietra, rare ville padronali o costruzioni più modeste dai colori chiari d'un intonaco quasi nuovo. E tutte hanno in comune il rosso scuro dei coppi del tetto. Strade strette s'infilano in piccoli agglomerati e salgono ai paesi distesi al sole dei crinali. Vere cittadine a volte, ognuna con la sua chiesa e la dimora signorile, palazzo rocca o castello, a dominare l'abitato, spesso invadente ed esagerata. Qualche antico borgo murato con la sua cintura di case moderne stretta intorno o sfilacciata lungo la via d'accesso.
Girando l'occhio, mi coglie una sensazione di pulizia, di ordine naturale non imposto ma cercato e mantenuto. Sopra i campi e le case aleggia un'aura di faticoso benessere. Qualcuno ha scritto che il mondo è stato creato da Dio ma la Valdichiana è stata creata dagli uomini: un plauso a loro per questo.
Non tutto è idillio, però. Ruderi ogni tanto fiancheggiano l'autostrada, vittime del nostro bisogno di andar veloci, e capannoni, frutto della modernità industriale e di commerci più o meno floridi, d'una ricchezza improvvisamente svanita insieme al traffico. Si viaggia bene, da soli, ma, caspita!, dove son finiti, tutti?
E' così fino alle colline di Fabro e all'ingresso in Umbria, dove il verde si fa più intenso e il paesaggio più mosso.
I boschi ricoprono le pendici, ma lasciano spazio ad ampie radure a foraggio dalle tonalità più vive, smeraldine, grasse. Pascoli si offrono al tranquillo ruminar delle mucche e dei cavalli. Il Tevere gioca passando e ripassando sotto i viadotti dell'autostrada, contornato dai pioppi, stretto tra argini naturali o disteso in bassi acquitrini.
E poi la piana di Orvieto, col reticolo fitto delle vigne, trame sottili, delicate promesse di tralci nuovi e nuovi grappoli. E infine il tormentato passaggio sotto Baschi, arcigno borgo che incombe sulle curve come un rimprovero della Storia.
Entrando nel Lazio non avverti cesure, mutamenti netti del paesaggio, se non contorni più incerti, un intervento umano più sporadico e casuale, verdi meno carichi: una terra d'altri tempi, senza orpelli.
Sai d'esser quasi arrivato passando sotto i precipizi di tufo della rupe di Orte, sentinella severa sul territorio romano e sull'autostrada, che s'allarga inutilmente sotto gli occhi d'una bianca Madonna.
L'ultima impressione di questo strano viaggio me la offre, in un tramonto sbiadito e triste, il deserto grigio del Grande Raccordo Anulare, con le sue file di lampioni, accesi anche se non c'è nessuno da illuminare. Mi sembra di sentire lo stesso il rombo di motori inesistenti e il chiasso dei clacson, di vedere le code ininterrotte di veicoli lenti o fermi del tutto, i sorpassi pretesi, le corsie intasate, di avvertire la fretta impaziente e il puzzo dei fumi di scappamento.
Forse è meglio che venga la notte, mi dico, a farmi sentire meno solo. Forse è meglio, e spero che domattina il maleficio sia dissolto e tutto torni come d'incanto normale.
O forse è meglio di no.

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