giovedì 2 aprile 2020

EPISODIO 18 - STORIA D'UN BORGO. CASTELNUOVO



Affacciato sulla valle dell’Arno, Castelnovo era un borgo di poche case in pietra, strette l’una all’altra che quasi si toccavano, raccolte intorno alla chiesetta e protette da una cerchia di solide mura. Vista dagli spalti in quel pomeriggio di fine ottobre dell’anno del Signore 1260, la vallata pareva un paradiso. Il fiume vi scorreva in mezzo quieto e pigro dopo aver scavato impetuoso i dirupi rocciosi della valle dell’Inferno e prima di farsi largo tra le gole dell’Ancisa. Il profilo ondulato del Pratomagno chiudeva il panorama in una fuga di gobbe carezzate dal sole.

Ma tutto questo non vedeva il vecchio Bandino affacciato agli spalti. Una lunga vita di duro lavoro sui campi gli aveva incurvato la schiena. Le sue dita tormentavano il pomo d’un bastone, e gli occhi fissavano i campi sotto le mura, bruciati, e i ruderi ancora fumanti della sua casa, distante appena cento passi dal borgo. Altre misere case erano ridotte a scheletri in mezzo a vigne arse e a tronchi d’alberi anneriti: un cerchio morto che stringeva il paese e il cuore del vecchio.
Solo il giorno prima quelle vigne andavano ingiallendo dopo la vendemmia, quei campi reclamavano il coltro e il suo sparuto gregge brucava ai margini del bosco. A memoria di Bandino tutti gli anni, in quella stagione, erano scorsi via alla stessa maniera.
Sapeva che Firenze e Arezzo facevano spesso scorrerie nella valle: lo aveva saputo da Piero vasaro, che scendeva ogni primavera a vendere le sue terrecotte ai mercatali del piano. Mai però ricordava che cavalieri fossero saliti fin lassù.
Il vecchio non lo sapeva, ma Castelnovo era parte dei domini dei Pazzi del Valdarno. Fin da epoche remote, tuttavia, gli abitanti vantavano un singolare privilegio, concesso loro addirittura dal Gran Conte Ugo di Toscana prima del Mille: quello di non dipendere da nessuno. A sentir loro, insomma, il borgo formava una sorta di repubblica per conto suo, non soggetta a tributi o vassallatici nei confronti di chicchessia.
Bandino neanche sapeva chi fossero, i Pazzi del Valdarno, i quali ogni tanto mandavano a reclamare imposte, mai pagate da nessuno; ricordava il nome d’un certo Raniero, o Ranieri, che si vantava d’essere il loro padrone, e una volta ne aveva pure discusso col vasaro, non riuscendo a capire come un uomo possa esser padrone di altri uomini. Il vasaro, che si dava delle arie per il fatto d’esser tra i pochi a scendere ogni tanto a valle, ma non ragionava tuttavia diversamente da Bandino, non seppe rispondere e se ne andò lasciandolo solo colle sue domande.
I Pazzi, invece, non sopportavano quel borgo ribelle che li rendeva oggetto di scherno, come se non bastassero i Fiorentini a minacciare il loro dominio sul Valdarno. Nel complicato intreccio di poteri in cui si dibattevano, anche le pretese d’un insignificante gruppo di case attentavano al loro prestigio. Più volte il vecchio Ranieri aveva alzato la voce, ma Castelnovo s’era tenuto gelosamente la propria libertà.
Poi, a settembre di quell’anno, c’era stata la battaglia di Montaperti: Siena ghibellina aveva vinto su Firenze e da due mesi l’aquila nera dell’Impero sventolava sulla città del giglio.
Notizia del fatto era giunta anche alle orecchie del vecchio, ma gli pareva più importante seguitare a far legna per l’inverno.
Giù nella valle le casate ghibelline si sentivano padrone della situazione e smaniose di regolare i conti sospesi, il che per i Pazzi significava prima di tutto ridurre all’obbedienza Castelnovo.
Intorno alla metà di ottobre, sulla strada davanti alla casa di Bandino passò il messo di quei signori, che recava l’intimazione di nuovi tributi: era pomposamente vestito e cavalcava dritto sulla sella. Parlò di un arbitrato, di balle di grano da consegnare l’indomani, di contributi in denaro da versare, e di un atto di sottomissione da firmarsi da tutti i capifamiglia.
E il giorno dopo il messo ripassò davanti a casa sua, e stavolta con lui c’era un obeso notaro e al loro seguito una compagnia di armati. Il notaro, sudato per l’affanno d’aver risalito la tortuosa carrareccia cavalcioni ad un asino, lo guardò e dovette pensare che per i contadini val più un comando che cento spiegazioni. Perciò gli intimò: «Tutti in piazza! Passa parola». Scocciato di dover interrompere il lavoro, Bandino piantò la scure nel ceppo sul quale spaccava la legna e seguì il drappello fin dentro le mura. E davanti alla chiesetta s’apparecchiò un banco.
«Per prima cosa ognuno sottoscriverà l’atto di sottomissione alla nobile casata dei Pazzi». Il grasso personaggio girò lo sguardo sui presenti. «Tu!» protese all’uomo più vicino la penna d’oca, dopo averne intinto la punta nel calamaro. Il Bruno, fabbro ferraio del paese, un omone massiccio e scuro come il suo nome, alzò la testa, guardò il banco, e fece un passo indietro. Poi toccò a Cioncolo, e a Bindo detto il Calvo, e anche a Piero, il vasaro. Tutti fecero un passo indietro: sapevano per esperienza che dove ci son firme da fare, c’è per certo la fregatura.
Il funzionario sbuffò, e poi decise che non serviva perdere altro tempo: «Basta! Prendeteli!» Il drappello circondò i quattro: li legarono e li trascinarono verso i cavalli senza che nessuno di loro opponesse la minima resistenza: soltanto non capivano.
«Torneremo domani!» minacciò il messo dei signori.
Un’assemblea improvvisata decise di richiamare tutti dentro la cinta e chiudere l’unica porta d’accesso: nessuno aveva idea delle reali intenzioni dei signori, ma ognuno convenne che era meglio discutere al riparo di solide mura, non fosse altro per impedire che altri uomini venissero portati via.
Nel pomeriggio i contadini radunarono le famiglie, chiusero in gabbie gli animali da cortile per portarseli dietro, riempirono dei sacchi con pane nero carne essiccata e cacio duro, e s’installarono nel borgo: lo slargo davanti alla chiesetta fu riservato a pecore e maiali ed ogni famiglia venne ospitata nelle stalle, nei granai o nelle soffitte.
Il giorno appresso nessuno si mostrò, e neppure quello successivo, sicché Bandino e gli altri contadini, illudendosi che la cosa fosse finita, tornarono alle loro case.
Dopo un’intera settimana senza novità, quella mattina Bandino rientrò in paese di buonora: aveva bisogno del falegname per certi manici da rifare e per una stanga nuova per l’aratro. Appena dentro la Porta, però, un grido sopra di lui lo gelò: «Arrivano!» Alle sue spalle i battenti si chiusero, le traverse s’infilarono nei fori del muro, i puntelli si ficcarono nel terreno, le catene sollevarono il ponte e abbassarono la saracinesca di ferro.
S’aggrappò alla grata, implorando che l’aprissero, che lo lasciassero tornare a casa, invano. Allora salì sugli spalti già gremiti di gente. In un vortice di polvere vide avanzare su per la via le insegne dei Pazzi. In testa c’era Guglielmo e suo fratello Ubertino, e subito dietro un gruppo di cavalieri: gli ultimi della fila trascinavano nella polvere quattro poveri corpi.
Giunti davanti alla Porta si schierarono e poi, lentamente, compirono al passo un quarto del giro delle mura.
Dal lato di tramontano, Castelnovo era costruito a strapiombo su un orrido percorso da un torrente, che col tempo s’era scavato un alveo sempre più profondo, così che da quel lato le mura risultavano inattaccabili.
I Pazzi gettarono quei resti martoriati nella forra.
Poi cavalcarono lungo i lati praticabili delle mura, avanti e indietro per tre volte, urlando e sollevando polvere con gli zoccoli, prima di fermarsi di nuovo davanti alla Porta.
Guglielmo intimò la resa. Il cuore degli assediati si fermò e qualcuno si mosse per obbedire rassegnato, ma una voce li bloccò: «Che fate? Guardate cosa resta del Bruno e degli altri: faremo tutti la stessa fine se ci consegniamo!»
Calò il silenzio. Guglielmo era furioso: «Mettete a fuoco i campi e le case di questi pezzenti! E ammazzate i loro animali!»
«No!» Un grido morì in gola a Bandino: aveva i porci, a casa, e le pecore al pascolo, e le capre, e polli conigli oche. Strinse a sé il cane che era venuto con lui in paese, mentre i cavalieri si sparpagliavano lanciando urla. «Non è possibile, non lo faranno, vedrai che non lo faranno» ripeteva parlando alla povera bestia.
Cominciarono invece i fuochi, dapprima sparsi e incerti, poi crepitanti e fitti e rossi. Le fiamme si levarono alte da una macchia, s’inseguirono nel campo davanti alla Porta, e attaccarono la prima casa, proprio la casa di Bandino, sulla via.
La sua casa. Quanta fatica, per tirarla su, quanto lavoro per riparare il tetto ogni anno, per impedire che ci piovesse, quanto daffare per tenerne fuori i topi, e cacciare i pidocchi dai pagliericci. Ed ecco, ora tutto bruciava. Una lacrima solcò il volto rugoso del vecchio. Quelle fiamme bruciavano anche i suoi ricordi, i tanti momenti belli passati là dentro, con la sua Mara.
Oddio la Mara!
E Taddeo, suo figlio, e la bella nuora, la Rosa, e il piccolo Bandino, il nipotino che avevano voluto chiamare come lui e che la sera gli stava sulle ginocchia: non aveva potuto avvertirli, avevano fatto in tempo a fuggire?
Il trambusto tornò a salire e a concentrarsi sotto le mura. In una bolgia di fiamme e fumo i Pazzi tornarono trascinando uomini donne e bambini rastrellati nelle case incendiate. Bandino  riconobbe i suoi con orrore, stretti in mezzo agli altri disperati. La gola gli si chiuse e la bocca si seccò.
I prigionieri vennero schierati in fila sull’orlo del baratro, pressati alle spalle dai cavalieri. Il Pazzo guardò i merli, la daga sulla destra, muto, finché un colpo netto recise la gola della donna che gli sta davanti tremante. Il tonfo dell’esile corpo che cadeva nel dirupo e rimbalzava e si schiantava nell’acqua dette il segnale agli altri: i poveretti volarono nel vuoto uno ad uno, decapitati dalle spade, trafitti dalle aste, squarciati dalle mazze. Il rio e i macigni si tinsero d’un rosso cupo.
Mors stupebit et natura!
Alla fine rimase solo il crepitio degli ultimi fuochi e il gemito di qualche donna, sulle mura.
Il cigolio d’un cardine annunciò l’apertura della Porta: Castelnovo s’arrendeva.
La mattina dopo Bandino si calò con gli altri nella forra, appeso alle funi, a recuperare quei poveri corpi; poi scavò per seppellirli e infine tornò sugli spalti a piangere stretto al suo cane.
Castelnovo, il piccolo borgo che guardava dall’alto la valle dell’Arno, non sarebbe stato libero mai più.

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