Affacciato
sulla valle dell’Arno, Castelnovo era un borgo di poche case in pietra, strette
l’una all’altra che quasi si toccavano, raccolte intorno alla chiesetta e
protette da una cerchia di solide mura. Vista dagli spalti in quel pomeriggio
di fine ottobre dell’anno del Signore 1260, la vallata pareva un paradiso. Il
fiume vi scorreva in mezzo quieto e pigro dopo aver scavato impetuoso i dirupi
rocciosi della valle dell’Inferno e prima di farsi largo tra le gole
dell’Ancisa. Il profilo ondulato del Pratomagno chiudeva il panorama in una
fuga di gobbe carezzate dal sole.
Ma
tutto questo non vedeva il vecchio Bandino affacciato agli spalti. Una lunga
vita di duro lavoro sui campi gli aveva incurvato la schiena. Le sue dita
tormentavano il pomo d’un bastone, e gli occhi fissavano i campi sotto le mura,
bruciati, e i ruderi ancora fumanti della sua casa, distante appena cento passi
dal borgo. Altre misere case erano ridotte a scheletri in mezzo a vigne arse e
a tronchi d’alberi anneriti: un cerchio morto che stringeva il paese e il cuore
del vecchio.
Solo
il giorno prima quelle vigne andavano ingiallendo dopo la vendemmia, quei campi
reclamavano il coltro e il suo sparuto gregge brucava ai margini del bosco. A
memoria di Bandino tutti gli anni, in quella stagione, erano scorsi via alla
stessa maniera.
Sapeva
che Firenze e Arezzo facevano spesso scorrerie nella valle: lo aveva saputo da
Piero vasaro, che scendeva ogni primavera a vendere le sue terrecotte ai
mercatali del piano. Mai però ricordava che cavalieri fossero saliti fin lassù.
Il
vecchio non lo sapeva, ma Castelnovo era parte dei domini dei Pazzi del
Valdarno. Fin da epoche remote, tuttavia, gli abitanti vantavano un singolare
privilegio, concesso loro addirittura dal Gran Conte Ugo di Toscana prima del
Mille: quello di non dipendere da nessuno. A sentir loro, insomma, il borgo
formava una sorta di repubblica per conto suo, non soggetta a tributi o
vassallatici nei confronti di chicchessia.
Bandino
neanche sapeva chi fossero, i Pazzi del Valdarno, i quali ogni tanto mandavano
a reclamare imposte, mai pagate da nessuno; ricordava il nome d’un certo
Raniero, o Ranieri, che si vantava d’essere il loro padrone, e una volta ne
aveva pure discusso col vasaro, non riuscendo a capire come un uomo possa esser
padrone di altri uomini. Il vasaro, che si dava delle arie per il fatto d’esser
tra i pochi a scendere ogni tanto a valle, ma non ragionava tuttavia
diversamente da Bandino, non seppe rispondere e se ne andò lasciandolo solo
colle sue domande.
I
Pazzi, invece, non sopportavano quel borgo ribelle che li rendeva oggetto di
scherno, come se non bastassero i Fiorentini a minacciare il loro dominio sul
Valdarno. Nel complicato intreccio di poteri in cui si dibattevano, anche le
pretese d’un insignificante gruppo di case attentavano al loro prestigio. Più
volte il vecchio Ranieri aveva alzato la voce, ma Castelnovo s’era tenuto
gelosamente la propria libertà.
Poi,
a settembre di quell’anno, c’era stata la battaglia di Montaperti: Siena
ghibellina aveva vinto su Firenze e da due mesi l’aquila nera dell’Impero
sventolava sulla città del giglio.
Notizia
del fatto era giunta anche alle orecchie del vecchio, ma gli pareva più
importante seguitare a far legna per l’inverno.
Giù
nella valle le casate ghibelline si sentivano padrone della situazione e
smaniose di regolare i conti sospesi, il che per i Pazzi significava prima di
tutto ridurre all’obbedienza Castelnovo.
Intorno
alla metà di ottobre, sulla strada davanti alla casa di Bandino passò il messo
di quei signori, che recava l’intimazione di nuovi tributi: era pomposamente
vestito e cavalcava dritto sulla sella. Parlò di un arbitrato, di balle di
grano da consegnare l’indomani, di contributi in denaro da versare, e di un
atto di sottomissione da firmarsi da tutti i capifamiglia.
E il
giorno dopo il messo ripassò davanti a casa sua, e stavolta con lui c’era un
obeso notaro e al loro seguito una compagnia di armati. Il notaro, sudato per
l’affanno d’aver risalito la tortuosa carrareccia cavalcioni ad un asino, lo
guardò e dovette pensare che per i contadini val più un comando che cento
spiegazioni. Perciò gli intimò: «Tutti in piazza! Passa parola». Scocciato di
dover interrompere il lavoro, Bandino piantò la scure nel ceppo sul quale
spaccava la legna e seguì il drappello fin dentro le mura. E davanti alla
chiesetta s’apparecchiò un banco.
«Per
prima cosa ognuno sottoscriverà l’atto di sottomissione alla nobile casata dei
Pazzi». Il grasso personaggio girò lo sguardo sui presenti. «Tu!» protese
all’uomo più vicino la penna d’oca, dopo averne intinto la punta nel calamaro.
Il Bruno, fabbro ferraio del paese, un omone massiccio e scuro come il suo
nome, alzò la testa, guardò il banco, e fece un passo indietro. Poi toccò a
Cioncolo, e a Bindo detto il Calvo, e anche a Piero, il vasaro. Tutti fecero un
passo indietro: sapevano per esperienza che dove ci son firme da fare, c’è per
certo la fregatura.
Il
funzionario sbuffò, e poi decise che non serviva perdere altro tempo: «Basta!
Prendeteli!» Il drappello circondò i quattro: li legarono e li trascinarono
verso i cavalli senza che nessuno di loro opponesse la minima resistenza:
soltanto non capivano.
«Torneremo
domani!» minacciò il messo dei signori.
Un’assemblea
improvvisata decise di richiamare tutti dentro la cinta e chiudere l’unica porta
d’accesso: nessuno aveva idea delle reali intenzioni dei signori, ma ognuno
convenne che era meglio discutere al riparo di solide mura, non fosse altro per
impedire che altri uomini venissero portati via.
Nel
pomeriggio i contadini radunarono le famiglie, chiusero in gabbie gli animali
da cortile per portarseli dietro, riempirono dei sacchi con pane nero carne
essiccata e cacio duro, e s’installarono nel borgo: lo slargo davanti alla
chiesetta fu riservato a pecore e maiali ed ogni famiglia venne ospitata nelle
stalle, nei granai o nelle soffitte.
Il
giorno appresso nessuno si mostrò, e neppure quello successivo, sicché Bandino
e gli altri contadini, illudendosi che la cosa fosse finita, tornarono alle
loro case.
Dopo
un’intera settimana senza novità, quella mattina Bandino rientrò in paese di
buonora: aveva bisogno del falegname per certi manici da rifare e per una
stanga nuova per l’aratro. Appena dentro la Porta, però, un grido sopra di lui
lo gelò: «Arrivano!» Alle sue spalle i battenti si chiusero, le traverse
s’infilarono nei fori del muro, i puntelli si ficcarono nel terreno, le catene
sollevarono il ponte e abbassarono la saracinesca di ferro.
S’aggrappò
alla grata, implorando che l’aprissero, che lo lasciassero tornare a casa, invano.
Allora salì sugli spalti già gremiti di gente. In un vortice di polvere vide
avanzare su per la via le insegne dei Pazzi. In testa c’era Guglielmo e suo
fratello Ubertino, e subito dietro un gruppo di cavalieri: gli ultimi della
fila trascinavano nella polvere quattro poveri corpi.
Giunti
davanti alla Porta si schierarono e poi, lentamente, compirono al passo un
quarto del giro delle mura.
Dal
lato di tramontano, Castelnovo era costruito a strapiombo su un orrido percorso
da un torrente, che col tempo s’era scavato un alveo sempre più profondo, così
che da quel lato le mura risultavano inattaccabili.
I
Pazzi gettarono quei resti martoriati nella forra.
Poi
cavalcarono lungo i lati praticabili delle mura, avanti e indietro per tre
volte, urlando e sollevando polvere con gli zoccoli, prima di fermarsi di nuovo
davanti alla Porta.
Guglielmo
intimò la resa. Il cuore degli assediati si fermò e qualcuno si mosse per
obbedire rassegnato, ma una voce li bloccò: «Che fate? Guardate cosa resta del
Bruno e degli altri: faremo tutti la stessa fine se ci consegniamo!»
Calò
il silenzio. Guglielmo era furioso: «Mettete a fuoco i campi e le case di
questi pezzenti! E ammazzate i loro animali!»
«No!»
Un grido morì in gola a Bandino: aveva i porci, a casa, e le pecore al pascolo,
e le capre, e polli conigli oche. Strinse a sé il cane che era venuto con lui
in paese, mentre i cavalieri si sparpagliavano lanciando urla. «Non è
possibile, non lo faranno, vedrai che non lo faranno» ripeteva parlando alla
povera bestia.
Cominciarono
invece i fuochi, dapprima sparsi e incerti, poi crepitanti e fitti e rossi. Le
fiamme si levarono alte da una macchia, s’inseguirono nel campo davanti alla
Porta, e attaccarono la prima casa, proprio la casa di Bandino, sulla via.
La
sua casa. Quanta fatica, per tirarla su, quanto lavoro per riparare il tetto
ogni anno, per impedire che ci piovesse, quanto daffare per tenerne fuori i
topi, e cacciare i pidocchi dai pagliericci. Ed ecco, ora tutto bruciava. Una
lacrima solcò il volto rugoso del vecchio. Quelle fiamme bruciavano anche i
suoi ricordi, i tanti momenti belli passati là dentro, con la sua Mara.
Oddio
la Mara!
E
Taddeo, suo figlio, e la bella nuora, la Rosa, e il piccolo Bandino, il
nipotino che avevano voluto chiamare come lui e che la sera gli stava sulle ginocchia:
non aveva potuto avvertirli, avevano fatto in tempo a fuggire?
Il
trambusto tornò a salire e a concentrarsi sotto le mura. In una bolgia di
fiamme e fumo i Pazzi tornarono trascinando uomini donne e bambini rastrellati
nelle case incendiate. Bandino riconobbe
i suoi con orrore, stretti in mezzo agli altri disperati. La gola gli si chiuse
e la bocca si seccò.
I
prigionieri vennero schierati in fila sull’orlo del baratro, pressati alle
spalle dai cavalieri. Il Pazzo guardò i merli, la daga sulla destra, muto,
finché un colpo netto recise la gola della donna che gli sta davanti tremante.
Il tonfo dell’esile corpo che cadeva nel dirupo e rimbalzava e si schiantava
nell’acqua dette il segnale agli altri: i poveretti volarono nel vuoto uno ad
uno, decapitati dalle spade, trafitti dalle aste, squarciati dalle mazze. Il
rio e i macigni si tinsero d’un rosso cupo.
Mors
stupebit et natura!
Alla
fine rimase solo il crepitio degli ultimi fuochi e il gemito di qualche donna,
sulle mura.
Il
cigolio d’un cardine annunciò l’apertura della Porta: Castelnovo s’arrendeva.
La
mattina dopo Bandino si calò con gli altri nella forra, appeso alle funi, a
recuperare quei poveri corpi; poi scavò per seppellirli e infine tornò sugli
spalti a piangere stretto al suo cane.
Castelnovo,
il piccolo borgo che guardava dall’alto la valle dell’Arno, non sarebbe stato
libero mai più.
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