giovedì 2 aprile 2020

CAPITOLO 16 - UNA PROMESSA SCRITTA


«Allora, com’è andata?»
«Ecco, messer Presentino, giudicate da voi».
Lo Sfregiato allargò il viso in un’espressione soddisfatta.
Allungò al prete un rotolo di alcuni fogli, sotto lo sguardo dei santi affrescati sulle pareti della vetusta chiesetta di Santa Maria, detta un tempo ad Balneum.
«Non qui, però. In sacrestia staremo più tranquilli».

Preso il documento, il prete socchiuse una porticina laterale. Il sole al tramonto allungò un fascio di luce ad accendere il legno del vecchio armadio dei paramenti sacri.
Indicando agli amici una panchetta addossata alla parete, sedette al piccolo scrittoio ed aprì le pergamene. Non aveva voluto partecipare alla trattativa. Non ne aveva titolo. Era però rimasto nei paraggi, cedendo all’insistenza degli altri due, che facevano molto affidamento sul suo consiglio.
Il Lambardi non stava nella pelle, si alzò subito e gli andò vicino: «Vedete, il capo primo è quello fondamentale». Glielo mostrò col dito, laddove si diceva che i congiurati s’impegnavano a difendere in perpetuo la Città e libertà e il libero governo dei Cittadini di Arezzo. Presentino trattenne un sorriso: ne aveva lette, lui, di clausole che prevedevano impegni in perpetuo e non erano durate lo spazio d’un mattino.
«E’ un giuramento solenne, non credete?» le cicatrici sulla guancia gli s’arrossarono, come sempre quando s’infervorava.
«Sarà» sbottò il Roselli, «ma io sarei più cauto. I Medici di sicuro fan per sé, e gli altri non son da meno. Quanto a stracciar promesse ognuno di loro in questi ultimi anni ha dato ampia prova di cosa sia capace. Non vorrei che per non esser sbranati da un leone si finisca nelle fauci d’un branco di lupi»
«Non voglio certo dire…»
«Riferite, caro Pierantonio, al nostro Presentino della dovizia di particolari con cui Vitellozzo ci ha descritto il saccheggio di questo borgo da lui compiuto nel ’95. Ed oggi ci viene tranquillamente a passare i bagni!»
«Messeri, abbiate pazienza! Lasciate che scopra da solo il contenuto del trattato, così da farmene una opinione mia».
I due tornarono a sedersi e il prete riprese la propria lettura. I fogli che aveva in mano erano il frutto d’una breve trattativa appena conclusa tra personaggi che già conosciamo. Vitellozzo s’era finto malato, senza fatica visti i ricorrenti attacchi di quartana che lo affliggevano, ed era venuto ai Bagni di San Casciano ufficialmente per curarsi. Qui lo avevano raggiunto in segreto Piero de’ Medici, Pandolfo Petrucci e i due aretini.
L’accordo prevedeva che ogni terra castello e luogo compreso nel Capitanato Vecchio di Arezzo tornasse alla città e al suo governo, e qui il Visdomini sollevò dei dubbi: che fine avrebbero fatto Montepulciano, Lucignano e i castelli della Val di Chiana che rientravano un tempo nel contado di Arezzo ed erano ora controllati da Siena? Più d’una guerra s’era fatta in passato tra le due città per il possesso di quelle terre. E infatti qui il Petrucci aveva posto le sue condizioni e gli Aretini dovevano rinunciare a qualsiasi pretesa su quei borghi.
Ecco, pensò tra sé il Visdomini, un altro motivo per il malcontento di Nofrio, che nella zona ha degli interessi.
Poi il trattato parlava delle spese, e parve a Presentino, prete avvezzo a maneggiar denari, anche troppo generoso: viste le penose condizioni economiche di Arezzo, gli Aretini dovevano contribuire all’impresa appena per la quarta parte, e ciò soltanto a libertà recuperata, e dal computo si poteva scorporare ogni denaro, vettovaglia o munizione fornita dagli stessi nel corso della campagna.
Per come la vedeva il Roselli, invece, nessuno aveva regalato niente ad Arezzo, dato che gli attori del patto erano quattro ed ognuno vi trovava il proprio interesse.
Presentino si stava chiedendo chi avrebbe procurato armi e armati. Per quel che ne sapeva, Arezzo non era in grado di fornire granché, i Medici erano esiliati e dunque potevano mettere dei buoni denari, ma non possedevano un esercito stabile, e il Petrucci aveva il suo bravo daffare per contenere le mire fiorentine sui suoi castelli.
Non restavano dunque solo Vitellozzo e il Baglioni. E qui, pensò Presentino, bisognava chiarire il ruolo dei Borgia, visto che i due Capitani s’eran posti al soldo del Valentino.
Tuttavia non disse niente e seguitò a leggere.
I capitoli seguenti si dilungavano a descrivere con precisione puntigliosa i preparativi necessari e il modo di condurre la congiura.
Ottimi propositi, rifletté il prete, ma difficili da mettere in pratica. Molte imprese falliscono prima ancora di cominciare, per faciloneria o imprudenza.
C’era da mantenere il segreto fino al momento giusto, e con tutta la gente coinvolta nell’affare non sarebbe stato agevole.
Comunque il trattato si occupava anche di questo.
Stabiliva che le lettere e i contrassegni che si sarebbero dovute scambiare tra Città di Castello ed Arezzo fossero inserite nel collo d’un’arme in asta, bastone o lancia, di viandanti a piedi, senza che questi ne sapessero niente, ed anzi affidando loro altre lettere e commissioni scoperte ed innocue.
Da ultimo, una breve postilla precedeva le firme e la ratifica del notaro, e strappò al prete un sorriso di apprezzamento divertito. Sia nella corrispondenza che nelle conversazioni non si doveva per nessun motivo mai fare il nome di Vitellozzo e, volendo intender lui, si sarebbe dovuto dire soltanto il cugino.
«Bene, amici miei». Presentino ricompose i fogli e li arrotolò con cura. Riconsegnandoli al Lambardi, decise di tener per sé i propri dubbi. «Tutto sommato mi pare un buon trattato. Adesso tocca a voi due decidere se imbarcare la città in quest’avventura o lasciar perdere, e lo dovete fare subito, qui, perché non vi saranno consentiti ripensamenti»
«Non ci avete detto la vostra opinione»
«Non sarà una passeggiata, e tuttavia credo si debba fare. Son convinto che né Vitellozzo né gli altri rinunceranno se gli Aretini si defilano, e in questo caso la nostra città e il suo territorio son destinati a divenire campo di battaglia tra eserciti opposti e preda del vincitore, chiunque sarà. Solo facendo la nostra parte possiamo sperare di aver voce in capitolo, se mi passate il paragone monastico».
Il Lambardi balzò in piedi: «Questo si chiama parlare! Il giogo fiorentino sul colle di San Donato sta per finire, perdio!»
Il Roselli era rimasto seduto: «E sia, m’avete convinto, ma sappiate che mi fido solo dei nostri concittadini, e fino in fondo neanche di loro, tanto sono abituati a piegare il collo! Andiamo, dunque: ci aspetta un gran lavoro di persuasione. Badate, però, a coinvolgere solo le persone fidate. Tornati in città stileremo un elenco. In casi come questo meglio pochi ma buoni».
Il sole era tramontato, lasciando la sacrestia in una complice penombra. La campana chiamò il prete a vespro.

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