«Allora, com’è andata?»
«Ecco, messer
Presentino, giudicate da voi».
Lo Sfregiato allargò il
viso in un’espressione soddisfatta.
Allungò al prete un
rotolo di alcuni fogli, sotto lo sguardo dei santi affrescati sulle pareti
della vetusta chiesetta di Santa Maria, detta un tempo ad Balneum.
«Non qui, però. In
sacrestia staremo più tranquilli».
Preso il documento, il
prete socchiuse una porticina laterale. Il sole al tramonto allungò un fascio
di luce ad accendere il legno del vecchio armadio dei paramenti sacri.
Indicando agli amici
una panchetta addossata alla parete, sedette al piccolo scrittoio ed aprì le
pergamene. Non aveva voluto partecipare alla trattativa. Non ne aveva titolo.
Era però rimasto nei paraggi, cedendo all’insistenza degli altri due, che
facevano molto affidamento sul suo consiglio.
Il Lambardi non stava
nella pelle, si alzò subito e gli andò vicino: «Vedete, il capo primo è quello
fondamentale». Glielo mostrò col dito, laddove si diceva che i congiurati
s’impegnavano a difendere in perpetuo la
Città e libertà e il libero governo dei Cittadini di Arezzo. Presentino
trattenne un sorriso: ne aveva lette, lui, di clausole che prevedevano impegni in perpetuo e non erano durate lo spazio
d’un mattino.
«E’ un giuramento
solenne, non credete?» le cicatrici sulla guancia gli s’arrossarono, come
sempre quando s’infervorava.
«Sarà» sbottò il
Roselli, «ma io sarei più cauto. I Medici di sicuro fan per sé, e gli altri non
son da meno. Quanto a stracciar promesse ognuno di loro in questi ultimi anni
ha dato ampia prova di cosa sia capace. Non vorrei che per non esser sbranati
da un leone si finisca nelle fauci d’un branco di lupi»
«Non voglio certo
dire…»
«Riferite, caro
Pierantonio, al nostro Presentino della dovizia di particolari con cui
Vitellozzo ci ha descritto il saccheggio di questo borgo da lui compiuto nel
’95. Ed oggi ci viene tranquillamente a passare i bagni!»
«Messeri, abbiate
pazienza! Lasciate che scopra da solo il contenuto del trattato, così da farmene
una opinione mia».
I due tornarono a
sedersi e il prete riprese la propria lettura. I fogli che aveva in mano erano
il frutto d’una breve trattativa appena conclusa tra personaggi che già
conosciamo. Vitellozzo s’era finto malato, senza fatica visti i ricorrenti
attacchi di quartana che lo affliggevano, ed era venuto ai Bagni di San Casciano
ufficialmente per curarsi. Qui lo avevano raggiunto in segreto Piero de’ Medici,
Pandolfo Petrucci e i due aretini.
L’accordo prevedeva che
ogni terra castello e luogo compreso nel Capitanato Vecchio di Arezzo tornasse
alla città e al suo governo, e qui il Visdomini sollevò dei dubbi: che fine
avrebbero fatto Montepulciano, Lucignano e i castelli della Val di Chiana che
rientravano un tempo nel contado di Arezzo ed erano ora controllati da Siena?
Più d’una guerra s’era fatta in passato tra le due città per il possesso di
quelle terre. E infatti qui il Petrucci aveva posto le sue condizioni e gli
Aretini dovevano rinunciare a qualsiasi pretesa su quei borghi.
Ecco, pensò tra sé il
Visdomini, un altro motivo per il malcontento di Nofrio, che nella zona ha
degli interessi.
Poi il trattato parlava
delle spese, e parve a Presentino, prete avvezzo a maneggiar denari, anche
troppo generoso: viste le penose condizioni economiche di Arezzo, gli Aretini
dovevano contribuire all’impresa appena per la quarta parte, e ciò soltanto a
libertà recuperata, e dal computo si poteva scorporare ogni denaro, vettovaglia
o munizione fornita dagli stessi nel corso della campagna.
Per come la vedeva il
Roselli, invece, nessuno aveva regalato niente ad Arezzo, dato che gli attori
del patto erano quattro ed ognuno vi trovava il proprio interesse.
Presentino si stava
chiedendo chi avrebbe procurato armi e armati. Per quel che ne sapeva, Arezzo
non era in grado di fornire granché, i Medici erano esiliati e dunque potevano
mettere dei buoni denari, ma non possedevano un esercito stabile, e il Petrucci
aveva il suo bravo daffare per contenere le mire fiorentine sui suoi castelli.
Non restavano dunque solo
Vitellozzo e il Baglioni. E qui, pensò Presentino, bisognava chiarire il ruolo
dei Borgia, visto che i due Capitani s’eran posti al soldo del Valentino.
Tuttavia non disse
niente e seguitò a leggere.
I capitoli seguenti si
dilungavano a descrivere con precisione puntigliosa i preparativi necessari e
il modo di condurre la congiura.
Ottimi propositi,
rifletté il prete, ma difficili da mettere in pratica. Molte imprese falliscono
prima ancora di cominciare, per faciloneria o imprudenza.
C’era da mantenere il
segreto fino al momento giusto, e con tutta la gente coinvolta nell’affare non
sarebbe stato agevole.
Comunque il trattato si
occupava anche di questo.
Stabiliva che le
lettere e i contrassegni che si sarebbero dovute scambiare tra Città di
Castello ed Arezzo fossero inserite nel collo d’un’arme in asta, bastone o
lancia, di viandanti a piedi, senza che questi ne sapessero niente, ed anzi
affidando loro altre lettere e commissioni scoperte ed innocue.
Da ultimo, una breve
postilla precedeva le firme e la ratifica del notaro, e strappò al prete un
sorriso di apprezzamento divertito. Sia nella corrispondenza che nelle
conversazioni non si doveva per nessun motivo mai fare il nome di Vitellozzo e,
volendo intender lui, si sarebbe dovuto dire soltanto il cugino.
«Bene, amici miei».
Presentino ricompose i fogli e li arrotolò con cura. Riconsegnandoli al
Lambardi, decise di tener per sé i propri dubbi. «Tutto sommato mi pare un buon
trattato. Adesso tocca a voi due decidere se imbarcare la città in quest’avventura
o lasciar perdere, e lo dovete fare subito, qui, perché non vi saranno
consentiti ripensamenti»
«Non ci avete detto la
vostra opinione»
«Non sarà una
passeggiata, e tuttavia credo si debba fare. Son convinto che né Vitellozzo né
gli altri rinunceranno se gli Aretini si defilano, e in questo caso la nostra
città e il suo territorio son destinati a divenire campo di battaglia tra
eserciti opposti e preda del vincitore, chiunque sarà. Solo facendo la nostra
parte possiamo sperare di aver voce in capitolo, se mi passate il paragone
monastico».
Il Lambardi balzò in
piedi: «Questo si chiama parlare! Il giogo fiorentino sul colle di San Donato
sta per finire, perdio!»
Il Roselli era rimasto
seduto: «E sia, m’avete convinto, ma sappiate che mi fido solo dei nostri
concittadini, e fino in fondo neanche di loro, tanto sono abituati a piegare il
collo! Andiamo, dunque: ci aspetta un gran lavoro di persuasione. Badate, però,
a coinvolgere solo le persone fidate. Tornati in città stileremo un elenco. In
casi come questo meglio pochi ma buoni».
Il sole era tramontato,
lasciando la sacrestia in una complice penombra. La campana chiamò il prete a
vespro.
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