«Dunque siete in partenza»
«Il nostro negozio è concluso, nobile Pandolfo»
«Spero in modo soddisfacente»
«Nel migliore dei modi, in verità, e non troviamo le
parole per esprimervi la nostra gratitudine. Non fosse stato per voi…»
«Ho solo fatto quel che era giusto: i debiti si
pagano, ho detto agli Ascarelli, e le promesse son debiti, specie verso una
nobile istituzione come il maggiore spedale d’Arezzo»
«In verità avete fatto molto di più, e vi siamo
obbligati anche per la magnifica accoglienza che ci avete riservato. Non è
usuale che un senese, e nel vostro caso l’autorità più in vista di Siena,
accolga degli aretini con tanto onore»
«Oh, avrei voluto far di meglio, e me ne dolgo. Se
le necessità della difesa non assorbissero così tante delle nostre risorse!»
Pandolfo Petrucci, signore di Siena, abbassò la
testa e congiunse le mani dietro la schiena, come se d’improvviso il filo dei
pensieri gli avesse fatto scordare gli ospiti.
Nofrio Roselli inarcò le sopracciglia, in risposta
all’occhiata interrogativa di Pierantonio Lambardi. I due aretini eran giunti a
Siena per regolare una questione che riguardava lo Spedale del Ponte, un
contributo promesso e mai dato dalla famiglia senese degli Ascarelli, e per
questo erano ricorsi ai buoni uffici di Pandolfo. Ma mai si sarebbero aspettati
un’accoglienza così calda.
Il Petrucci continuò a stupirli: «Quanto ai
rapporti, come dire, burrascosi, tra le nostre città, non convenite anche voi
che siano acqua passata? Oggi sono molti di più gli interessi che ci legano di
quelli che ci dividono, a cominciare dallo strapotere della Dominante»
«Sappiamo la fatica che vi costa tenere
Montepulciano».
Un lampo guizzò negli occhi di Pandolfo: «Montepulciano
è senese! E comunque qui non si tratta d’un borgo: oggi i Fiorentini minacciano
Montepulciano, domani chissà quale villa o castello, o magari città. Non
scordatevi di Pisa. In verità la loro ambizione scoperta è formare un grande
stato nel centro d’Italia e nessuno, ai loro confini, può vivere tranquillo».
Il Lambardi abbozzò un amaro sorriso, guastato dal
solco di due vistose cicatrici che gli deturpavano la guancia sinistra e per le
quali era detto lo Sfregiato: «A noi venite a dirlo! Siena può ancora
difendersi. Arezzo non esiste più, comprata sottomessa e spogliata fin da
quando non erano ancora nati i nostri nonni. Dovreste venire a vedere com’è
ridotta la più potente tra le città ghibelline di Toscana. La trovereste piena
di rovine ed abitata da fantasmi magri e affamati. Ogni giorno qualcuno tra i
cittadini notabili è costretto a recarsi a Firenze a far atto d’omaggio ai padroni,
nessuno può farsi chiamare col proprio titolo o ricevere neppur l’ombra degli
onori che si devono agli antichi lignaggi. In città non si può girare armati o
a cavallo. Ogni scusa è buona per requisirci beni ed averi, e dovreste sentire
le calunnie, l’offese e fin gli scherni che tocca sopportare. Arezzo è morta».
L’espressione del Petrucci prese un che di
soddisfatto: il discorso stava prendendo la giusta piega.
«Eppure son convinto che non vi manchi l’orgoglio
per rialzare la testa, e neppure le risorse. Se solo voleste!»
«Fate presto a parlare, voi» si lamentò il Roselli.
«Messer Pierantonio vi ha descritto lo stato miserevole in cui è ridotta la
nostra città, ma c’è una zona, in verità, rafforzata e tenuta in ottima cura,
ed è la Cittadella: da lassù ci controllano e le vie pullulano di armigeri col
giglio sul petto. Ma c’è dell’altro, e credo ne siate informato: il denaro può
tutto, caro Pandolfo, e più d’uno, in città, s’è lasciato comprare».
Il Petrucci annuì comprensivo: «Perdonatemi, non
volevo offendervi. È evidente che da soli non potete far molto».
S’avvicinò ai due fino a far loro sentire il suo
fiato, dal leggero sentore di vino: «Ma le cose possono cambiare».
«In che modo?»
«Venite con me. Seduti staremo più comodi».
Li precedette per un ampio corridoio, traversando in
successione alcune stanzette ben arredate, sorta di anticamere, fino ad uno
studiolo d’angolo, che riceveva luce da due bifore affacciate sul fianco del
Duomo.
I ricchi intarsi delle sedie e dell’unico tavolo, le
pareti affrescate con scene di campagna, i registri e le pergamene disposte in
bell’ordine sul piano di lavoro davano conto dell’importanza del personaggio e
sembravano studiate a bella posta per incutere soggezione nell’ospite.
«Questo è il mio piccolo rifugio. Sedetevi pure,
farò portare del vino».
Con frasi brevi e senza fronzoli, li ragguagliò
sulle alleanze intessute dal Vitelli, badando a che risultasse chiaro
l’interesse che ogni alleato trovava nel progetto: in fondo, anche i rapporti
tra Stati sono affari!
«Che ne dite?» chiese alla fine. Non gli era
sfuggita, mentre parlava, l’attenzione crescente con cui l’ascoltavano e le occhiate
che si scambiavano di tanto in tanto.
L’interesse del Lambardi, in particolare, era
evidente: «Per come la mettete si può fare, e non sembra neanche difficile».
Il Roselli invece rimase assorto. Cominciava ad
essergli chiaro a cosa mirassero i movimenti del Vitelli di cui era giunta notizia
anche in Arezzo. Dunque c’era di più d’una semplice iniziativa militare di
Vitellozzo per vendicarsi di Firenze. Era logico che se il condottiero si
muoveva, dietro dovevano esserci il Papa e il Valentino, ma se entravano in
lega anche Perugia e Siena, e soprattutto i Medici, allora…
Un giovane paggio ben vestito entrò nello studiolo e
posò sul tavolo un vassoio con una brocca di vino e tre boccali, il tutto in
argento finemente lavorato.
«Sì, però…» attaccò Nofrio guardando Pierantonio.
«Non dite altro, vi prego» lo interruppe Pandolfo
riempiendo i boccali. «Non pretendo di convincervi con un breve colloquio.
Capisco il vostro bisogno di riflettere. Non stiamo progettando una passeggiata
ed occorre ponderare bene le cose. Di questi tempi, poi, non ci si può fidare
di nessuno. Ecco allora la mia proposta: tenete per voi quello che vi ho detto
finché non avrete ascoltato anche gli altri autori del piano. Piero de’ Medici
si trova in questi giorni a Massa in Maremma. Fate in modo di recarvi là ed io
guarderò di combinarvi un incontro. Magari» concluse dopo una breve pausa
«riesco pure a farvi parlare con Giampaolo Baglioni e con lo stesso Vitellozzo»
«Ecco» puntualizzò Nofrio mentre il loro ospite si
dissetava, «proprio lui è il problema, secondo me»
«Vitellozzo?»
«Come si fa a mettersi d’attorno un uomo della sua
ferocia? Avrete sentito di cos’è stato capace l’altr’anno in Acquasparta. Se ve
la intendete col Baglioni vi avrà riferito della fine del povero Altobello da
Canale». Si voltò verso il Lambardi per coinvolgerlo nel proprio orrore: «Non
gli basta uccidere il nemico vinto. Il cadavere di Altobello fu fatto a pezzi e
si dice che alcuni dei suoi scagnozzi ne abbiano mangiato le carni, mentre
altri le buttavano nel fuoco!» Il ribrezzo lo costrinse a una pausa. «E Girolamo
da Canale? Trafitto una decina di volte nella disperata difesa della città, fu
trascinato sanguinante e già quasi morto fino al cippo e decapitato senza
pietà. E a quanti staccò la testa dopo di lui in quel giorno di atrocità?»
«Non potete, per un episodio…»
«Un episodio!? Chiamate episodio almeno un mese di
furia cieca? Io la so così: presa Acquasparta, la mise a sacco, ne bruciò il
castello e poi ne demolì completamente le rovine. Si spostò a Monte Campano,
incendiò e distrusse pure quel castello. Si accampò sotto Amelia e pretese dagli
abitanti diecimila ducati. Poi fece irruzione in Viterbo, promise salvacondotto
agli avversari dei pontifici e invece li bloccò alla porta della rocca e li
spogliò di tutto. Non contento, fece razzia pure nelle case degli amici del
Papa. Dicono che abbia mandato a Città di Castello un bottino di quasi
cinquantamila ducati! Alla fine se ne andò trionfante a Foligno per incontrarvi
Papa Alessandro e il Valentino».
Era un fiume in piena. Tornò a rivolgersi al
Lambardi: «E tu sai come reagì a tanta brutalità consumata in suo nome il
nostro amato Pontefice? Alla fine di quel settembre di barbarie invitò a Roma
Vitellozzo e in piazza San Pietro ne passò in rassegna le truppe sanguinarie!»
Puntò il dito verso il Petrucci: «E questo non è che
un episodio, per voi? Sapete quanti altri, di questi episodi, si potrebbero
riferire a carico del vostro Vitellozzo? Pare che da quando i Fiorentini gli
hanno ammazzato il fratello sia diventato una belva, e voi vorreste farci
lega!»
«Suvvia, messer Roselli! Sapete come vanno le cose,
al mondo d’oggi. Sarà feroce come dite, ma è proprio per questo che tutti lo
temono e ne hanno rispetto. Se si deve cominciare una guerra, dite, non è
meglio un uomo così averlo con noi piuttosto che trovarselo di fronte?»
Il ragionamento di Pandolfo aveva una sua logica e
il Lambardi non avvertiva gli scrupoli del suo concittadino: gli bruciavano di
più, parecchio di più, le cicatrici sulla guancia e le umiliazioni quotidiane.
Per lui l’intesa che si profilava avrebbe potuto produrre qualcosa di buono. In
un gioco di tutti contro tutti, cos’aveva da perdere Arezzo? E se anche non
recuperava l’antica libertà e finiva invece sotto il Vitelli, non si sarebbe
trovata certo peggio di così. Infine quando i giocatori son tanti la partita è
più aperta, ed anche gli Aretini potevano giocare le loro carte.
«Sta bene, andremo a parlare col Medici e con gli
altri. Giusto avevo in mente un viaggio in Maremma per organizzare la
transumanza d’un certo mio gregge per la fine dell’estate».
I Lambardi erano una grande consorteria. Se i
palazzi di città erano stati quasi tutti confiscati, non così le terre, tra le
quali ne possedevano a bosco e prato sul versante tiberino di Catenaia. Su
quelle pagavano decime e dazi pesanti, ma per lo meno riuscivano a ricavarci di
che conservare un minimo di dignità alla famiglia. Guardò Nofrio, che ritrovava
la calma in un sorso di vino: «Così non dovremo dare spiegazioni a nessuno».
«E sia» concedette infine il Roselli, «ma penso che
dovremmo coinvolgere almeno Presentino dei Visdomini: è un amico, ed è
affidabile. Come prete gode di maggior libertà di movimento. Al nostro ritorno
dovremo conferire con lui e riferirgli l’esito di questa missione. Se decide di
venire con voi in Maremma per i suoi affari ecclesiastici e mi chiede di accompagnarlo,
parrà naturale a tutti»
«Purché non allarghiamo la cosa ad altri, almeno per
ora»
«Sono d’accordo» concluse il Petrucci «son cose
delicate e ci vuol poco a mandare tutto all’aria. Finché non saremo pronti…»
Si alzò senza finire la frase e scolò il proprio
boccale, imitato dagli altri due.
Qualche giorno dopo, nella stalla del suo palazzo di
Città di Castello, Vitellozzo leggeva con soddisfazione un breve messaggio
sibillino: “San Donato ha aperto gli occhi” c’era scritto sul foglio, senza
firma né sigilli.
«Anche l’ultimo tassello del mosaico è andato a
posto» sorrise carezzando la criniera del suo cavallo preferito. Poi, liberando
con gesto meccanico il destriero dalle briglie, forzò un colpo di tosse: «Sarà
tempo di darsi malato».
Uscito nella corte, scorse la fantesca affacciata
alla finestra della torre, intenta a pettegolare con un vecchio armigero.
«Chiamami il medico!» le gridò. «M’è venuta una fastidiosa
costipazione al petto, maledetta l’umidità delle notti!»
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