Bibit ille,
bibit illa! declamò uno studente ubriaco
alzando la coppa e fissandola con occhi lucidi.
Bibit servus cum ancilla! gli fece eco un coro di giovani
suoi pari. In mezzo al gruppo una compiacente fanciulla li esortava a bere e li
gratificava di carezze, mentre le rime si scioglievano in risate e libagioni.
Lo
stanzone dalle volte in laterizio, posto tre scalini sotto il livello della
via, era pieno di gente, in quella sera di giugno del 1287. Fuori l’aria fresca avrebbe reso piacevole il
passeggio, mentre nel locale il fumo della legna bruciata nel camino si
mescolava all’odore della zuppa di cavoli che bolliva nel calderone e ai fiati
dei giocatori di carte. La luce delle candele agitava ombre sui muri ad ogni
aprir dell’uscio.
Eppure
nessuno pareva scontento o pensava ad uscire.
La
taverna, una delle tante in Arezzo, esponeva una scolorita insegna di legno
quasi in fondo alla contrada di San Piero, proprio accanto alle caldere che le
davano il nome.
Era
il ritrovo preferito della gente più varia, che apprezzava il vino quasi sempre
genuino e la rozza cordialità della locandiera.
Donna
Vigna, come la chiamavano per il vezzo di dire, mescendo, questo è di vigna!, era un donnone già oltre i quaranta, dai modi
spicci e la voce roca, pronta a rimbeccare le battute scurrili degli ospiti più
grezzi, ma paziente con loro più che non lo fosse col marito.
Costui,
per parte sua, non era meno grosso, con due braccia che promettevano botte ai
malintenzionati. La natura, però, gli aveva lesinato l’intelletto, facendolo
docile servo degli ordini della moglie. L’accorta locandiera teneva a pigione
tre o quattro puttane per attirar clienti, e lasciava che li adescassero nel
locale, ma le spediva ad offrire i loro servigi in un vicino bordello per non
aver noie coi preti o col capitano di giustizia.
Dava
da dormire ai forestieri in due camere, una per gli uomini e l’altra per le donne,
più che altro per aggirar le bolle comunali sull’orario di chiusura, e
d’altronde bastava una botticella di vino mandata all’indirizzo giusto, per
tener lontani i controlli.
«A
chi non piace il vino, Dio gli tolga l’acqua» era solita dire ai pochi che
chiedevano alloggio senza bere. Si faceva pagare prima di mescere e non
prendeva parte alle discussioni, soprattutto a quelle, ed erano le più, dove si
tirava in ballo il vescovo o si malediva la protervia dei nobili.
Del
resto, esponenti del clero e del ceto nobiliare erano lì anche quella sera, a
divertirsi mescolati a manovali e maestranze, ai capimastri e ai carpentieri,
ai fabbri e ai numerosi studenti.
Mauro
dei Mauri, un ragazzone robusto dalla pelle insolitamente scura, sedeva ad un
tavolo vicino al camino con suo padre Pietro e l’amico di lui, Giunta dei
Ricoveri, che bevevano discorrendo del caldo, dei raccolti e della guerra contro
Firenze. Il giovane però non ascoltava i loro discorsi: la sua attenzione s’era
rivolta da un po’ ad un altro avventore, che stava tutto solo in un angolo.
Gli
occhi fissi alla punta delle pianelle, Boso degli Azzi cercava nel boccale la
serenità perduta a causa dell'amore per Ippolita.
Stava
lì a cercare nel boccale vuoto ragioni alla propria sconfitta, poi lo riempiva
e tornava a guardarci dentro.
Il
gruppo degli studenti ritmò burlesco: Bibit ista, bibit ille, bibunt
centum, bibunt mille.
«Ippolita
ama me» lesse Boso nel vino, «i suoi occhi son più sinceri delle sue parole».
Poi
un pensiero improvviso gli aggrottò le ciglia: «E’ stregata, ecco, vittima d’un
maleficio». Parlava a voce alta ma incerta, la lingua impastata dal bere: «Sono
stati quegli occhi freddi come il marmo, a incatenarla».
Pietro
dei Mauri e Giunta dei Ricoveri stavano discutendo delle liti continue fra
guelfi e ghibellini, del recente rientro in città dei capi fazione e del
comportamento non sempre trasparente del vescovo. Conoscevano, come tutti, la
storia di Boso e interruppero il loro ragionare guardandolo comprensivi.
Lui
si voltò ai giocatori di dadi: «E’ un demonio, ecco cos’è, e chissà quali
streghe l’hanno aiutato. Ci si può aspettare di tutto, da un guelfo».
Non
amava i guelfi, che erano in combutta coi fiorentini, pensava, per vender loro
Arezzo. E per come la vedeva lui erano anche ladri di femmine.
«Tutti
briganti, capite?» pontificò ai capimastri che giocavano a carte. «Non se ne
salva uno. E il Bostoli, ve lo dico io, è il peggiore!»
La
porta spalancata di colpo lo fece voltare e nell’aria greve riconobbe gli occhi
azzurri del suo rivale.
Da
quando era rientrato in città, tre settimane prima, Rinaldo ogni sera usciva in
passeggiata, scortato da un drappello di soldati, e dalla sua casa nel canto
di ser Cambio saliva invariabilmente per la contrada dove affacciavano le case
degli Azzi. Già, perché neanche lui aveva scordato quel bacio dietro il
cespuglio sulla via del Pionta, ed il sonno gli era rimasto sulle labbra di Ippolita.
All’epoca pensò di averla facendosi desiderare, ma quando le ragioni di
famiglia gliela tolsero per darla a Boso, giurò vendetta: la spiava nelle sue
uscite e non perdeva occasione per passarle davanti e farsi notare.
"Salute
a tutti!» esordì Rinaldo forzando il tono.
Boso
si alzò a fatica e gli si fece incontro barcollando.
«Tu!»
lo apostrofò con l’indice puntato. Poi ci ripensò: «Voi! Come osate venir qui,
traditore d’un guelfo!?»
Il
vociare dei giocatori divenne brusio, mentre gli avventori si facevano attenti
e la compagnia di giovani interruppe i suoi carmina. Il braccio del Bostoli rimase
alzato a mezzo saluto. Conosceva i sentimenti dell’Azzi e non s’aspettava di
trovarlo lì, né di essere affrontato. Non provava astio per il rivale: il suo
atteggiamento e i commenti che giravano in città sulle sue sbornie gli
confermavano l’infelicità di quel matrimonio, trasmettendogli un sottile
piacere e alimentando segrete speranze. Spesso aveva covato l’idea di sfidarlo
e prendersi Ippolita. Se non lo aveva ancora fatto è perché sapeva che lei non
lo avrebbe perdonato e perché era sicuro di aver partita vinta, prima o poi:
già considerava suo il cuore dell’amata e la vita gli avrebbe offerto
l’occasione giusta. Dunque niente propositi di vendetta: era entrato per bere e
non per duellare. L’offesa lo mise in imbarazzo ma decise di ignorarla e si
diresse verso l’oste.
«Ehi,
guelfo, dico a voi. Siete sordo?» insisté Boso. «Oppure oltre che traditore
siete pure vigliacco?»
Gli
occhi di Giunta dei Ricoveri e dei suoi amici Mauri si spostarono da Boso a
Rinaldo.
«Puzzate
di vino, messer Azzi. Andate per la vostra strada e lasciatemi schiarir la gola
con un buon boccale»
«Non
volete ascoltarmi, eh? La verità vi disturba, vero? Eh, già! Preferite tramar
nell’ombra, fingere amicizia per poi colpire, e aspettando di prendere Arezzo
con l’intrigo, attentate alla virtù di donne che non son vostre»
«Non
mi provocate, Boso. Io non ho niente contro di voi»
«Lo
sentite?» cercò il sostegno degli astanti «Fa il superiore, si dà un’aria di
distacco, ma noi sappiamo bene come agisce, il nobile Bostoli vendutosi a
Firenze, e i cospiratori qui non li vogliamo, vero, donna Vigna?»
La locandiera, chiamata in causa, cercò di calmarlo: «Suvvia,
signore, non fatevi sangue amaro. Bevete e divertitevi: ho giusto una donzella
che farebbe la felicità di molti»
«Datela
a costui, ché lo convinca a lasciare in pace le donne oneste. E dal momento che
non volete cacciare questo demonio, lo farò io».
Esaltato
dal suo stesso dire, avanzò verso il suo nemico, che estrasse il coltello e gli
intimò: «Fermatevi, adesso basta!»
Inaspettatamente,
una mano scura gli bloccò il braccio.
Il
giovane Mauro dei Mauri, balzato alle sue spalle, lo immobilizzò: «Via le armi, non vedete che è
ubriaco?»
«Levatemi
le mani di dosso!»
«Via
le armi» ripeté Mauro, e gli strinse il polso fino a costringerlo a mollare il
coltello, che finì per terra.
Nel
frattempo l’oste, ad un cenno della moglie, aveva afferrato Boso, che
protestava, ma senza tentare di liberarsi: «Lasciatemi, ché ho da rendere un
servizio a tutta la città. Aiutatemi, piuttosto. Morte ai guelfi!»
In
quel momento l’uscio si spalancò di nuovo.
Un
drappello di sgherri del Comune irruppe nel locale armi in pugno, e rapidamente
prese posizione tra gli attoniti clienti.
«Chi
di voi è messer Rinaldo dei Bostoli?» chiese il più grosso di loro, con
evidenza il capo pattuglia.
Mauro
lasciò la presa. I presenti guardarono il nobile chiamato in causa, di fatto
indicandolo al soldato, che gli si rivolse con tono imperioso: «Abbiamo ordine
di condurvi al capitano di Giustizia. Seguiteci senza opporre resistenza».
L’oste
lasciò perdere Boso e seguendo un altro muto comando di donna Vigna si portò
alle spalle di Rinaldo: c’era da far capire agli armati del Comune che i
tavernieri stavano dalla loro parte. Ora nessuno curava più i dadi o le carte.
Attendevano la reazione di Rinaldo, che si guardò intorno e poi con un guizzo
saltò sul tavolo che aveva di fronte, a gridare: «Bostoli, a me!»
Il
richiamo, lanciato ai suoi rimasti fuori dall’uscio, cadde nel vuoto: la
masnada dalle sopravvesti rosso verdi aveva neutralizzato, prima d’entrare, la
scorta di Rinaldo, che si ritrovò solo e circondato. L’oste si mosse di scatto,
lo afferrò per le gambe e con uno strattone lo stese sul tavolo. Il volto sbatté
con violenza e le corde prontamente gli fermarono le braccia dietro la schiena.
La bocca sputò sangue e invettive: «Lasciatemi, cani! Sono un Bostoli!
Pagherete caro l’affronto!»
Dal
labbro spaccato un rivolo rosso macchiò l’elegante guarnacca foderata di seta.
Mentre lo trascinavano via, si voltò allo stranito Boso: «Non riuscirete a
liberarvi di me».
Avvezza
a simili burrasche, donna Vigna non s’era lasciata turbare dal movimentato
episodio ed incitò gli avventori a riprendere i giochi, mentre il marito
ripuliva il locale dai resti della breve lotta.
Pietro
dei Mauri rimproverò il figlio: «Che
ti è preso? Era armato e poteva farti male»
«Può
darsi, ma non era uno scontro alla pari e il Bostoli andava fermato. Guardate
com’è ridotto il nobile Azzi».
Boso
s’era buttato a sedere su un panchetto, la testa confusa. Gli effetti della
sbornia e il vano tentativo di riordinare le idee gli stavano procurando un
forte mal di testa. Accennò a chiedere ancora da bere, ma poi ci ripensò e
decise di tornare a casa.
Appena
fuori l’aria fresca lo fece rabbrividire. Improvvisi conati lo costrinsero ad
appoggiarsi al muro, piegato a vomitare la cena e il vino tracannato. Si
sollevò, poi, ma fu colto da vertigini. Aspettò un po’ prima di muovere qualche
passo verso casa, le gambe molli. Trovò sostegno nelle braccia dei Mauri,
usciti dietro a lui insieme a Giunta.
«Venite» lo incoraggiò Pietro, «vi accompagniamo noi».
Si
udirono urla, sempre più forti e vicine, e al Canto di ser Cambio, sul Borgo
Maestro, dovettero fermarsi: una folla agitata correva verso le mura. Rumori di
battaglia arrivavano dalla parte della pieve e bagliori d’incendio creavano un
alone infernale al di sopra dei tetti. Cavalieri in armi risalivano la via
scompaginando chi scendeva impaurito. Sul colle bruciavano le case dei Sassoli
e quelle vicine degli Albergotti, capi di parte guelfa. Boso s’aggrappò ad una
delle campanelle per i cavalli infisse nel muro e alzò gli occhi al palazzo dei
Bostoli, che gli stava proprio di fronte. Nessuno pareva assediarlo o
presidiarne le porte: «Già» mormorò tra sé «il pesce grosso lo hanno già
preso».
Si
mossero per traversare l’incrocio, ma non trovarono un varco tra la folla. Un
corteo di armati con le insegne del comune e della parte ghibellina scortava un
gruppo di uomini.
Riconobbero
i personaggi più in vista della parte guelfa, scalzi e con le vesti stracciate,
esposti allo scherno di chi fino a ieri, conducendo una vita di stenti, ne
invidiava gli agi e la pompa.
Tra
di loro Rinaldo, seminudo scarmigliato sporco e sanguinante, camminava tuttavia
a testa alta, ostentando una fierezza che Boso non s’immaginava potesse avere.
Lo colse un involontario senso di pietà per l’avversario: l’epilogo della
serata, che prima, da ubriaco, avrebbe salutato con entusiasmo, adesso che era
quasi sobrio gli parve indegno e perfino vergognoso.
Si
sciolse dall’appoggio dei Mauri drizzando a fatica la schiena. Intorno a loro
si sprecavano i commenti: «Ben gli sta» sentenziò una donna. E un’altra,
sicura: «Erano in combutta con Firenze». «Finalmente ci sarà pace, in città»
disse un anziano.
«Viva
Arezzo ghibellina!» si udì più lontano. «Viva, viva!»
Seguirono
la folla e arrivarono con gli altri alla Porta del Borgo mentre il cigolio dei
cardini ne annunciava l’apertura e l’argano con rumor di ferraglia sollevava la
saracinesca.
L’araldo
lesse il bando, emesso dal vescovo quale unica autorità legittima dopo l’uccisione
del priore. Spiegò, con linguaggio legale, che i prigionieri erano stati
scoperti a tramare con emissari della repubblica fiorentina e perciò condannati
per tradimento al bando perpetuo da Arezzo e a non più tornarvi pena la morte
per loro, le loro donne e i figli piccoli, trattenuti in città come ostaggi; le
case e i beni venivano confiscati ad uso del comune e i loro nomi cancellati
dai pubblici registri.
Un
brusio accompagnò la lettura e si trasformò alla fine in un’ovazione.
Spalleggiati dalla massa urlante, gli sgherri scaraventarono fuori i
prigionieri, rincorsi dagli insulti, dagli sputi e dai sassi. Quindi la Porta
venne richiusa alle loro spalle.
Rinaldo
finì lungo disteso nella polvere. Lo soccorsero e qualcuno gli chiese se stesse
bene. Lui si rialzò, ma sembrava sconvolto: «Lassù, guardate, i diavoli son
tornati! Non li vedete anche voi?»
Indicò
il cielo sopra le mura, dove volteggiavano ombre agitate, e gli pareva che
avessero ghigni soddisfatti.
Si
dice che un giorno del 1217 il santo Francesco, passando da Arezzo, avesse
visto demoni ballare sopra la città, intenti a seminare discordia tra la gente.
Mandò frate Silvestro alla Porta del Borgo con l’incarico di cacciarli. Quello
così fece e in Arezzo tornò la pace.
Gli
espulsi seguirono il suo braccio teso, ma videro solo il fumo nero che saliva
dalle loro case bruciate. Uno lo sollevò: «Venite, andiamo a chiedere aiuto a
Firenze».
Boso
lasciò i suoi soccorritori e tornò a capo basso verso casa. Quasi al portone,
alzando lo sguardo incontrò quello di Ippolita, insolitamente affacciata. Si
guardarono tristi e poi lei chiuse piano l’imposta, lasciandolo in compagnia
del suo mal di testa.
In
fondo alla contrada di San Piero, il marito di donna Vigna assicurò la spranga
all’uscio della taverna ormai deserta, mentre gli studenti arrancavano sulla
salita verso i loro alloggi, sostenendosi a vicenda e declamando con voce roca:
Tam pro papa quam pro rege,
bibunt omnes sine lege.
Nessun commento:
Posta un commento