mercoledì 11 marzo 2020

EPISODIO 4 - LA TAVERNA DEL CALDERAIO


Bibit ille, bibit illa! declamò uno studente ubriaco alzando la coppa e fissandola con occhi lucidi.
Bibit servus cum ancilla! gli fece eco un coro di giovani suoi pari. In mezzo al gruppo una compiacente fanciulla li esortava a bere e li gratificava di carezze, mentre le rime si scioglievano in risate e libagioni.

Lo stanzone dalle volte in laterizio, posto tre scalini sotto il livello della via, era pieno di gente, in quella sera di giugno del 1287. Fuori l’aria fresca avrebbe reso piacevole il passeggio, mentre nel locale il fumo della legna bruciata nel camino si mescolava all’odore della zuppa di cavoli che bolliva nel calderone e ai fiati dei giocatori di carte. La luce delle candele agitava ombre sui muri ad ogni aprir dell’uscio.
Eppure nessuno pareva scontento o pensava ad uscire.
La taverna, una delle tante in Arezzo, esponeva una scolorita insegna di legno quasi in fondo alla contrada di San Piero, proprio accanto alle caldere che le davano il nome.
Era il ritrovo preferito della gente più varia, che apprezzava il vino quasi sempre genuino e la rozza cordialità della locandiera.
Donna Vigna, come la chiamavano per il vezzo di dire, mescendo, questo è di vigna!, era un donnone già oltre i quaranta, dai modi spicci e la voce roca, pronta a rimbeccare le battute scurrili degli ospiti più grezzi, ma paziente con loro più che non lo fosse col marito.
Costui, per parte sua, non era meno grosso, con due braccia che promettevano botte ai malintenzionati. La natura, però, gli aveva lesinato l’intelletto, facendolo docile servo degli ordini della moglie. L’accorta locandiera teneva a pigione tre o quattro puttane per attirar clienti, e lasciava che li adescassero nel locale, ma le spediva ad offrire i loro servigi in un vicino bordello per non aver noie coi preti o col capitano di giustizia.
Dava da dormire ai forestieri in due camere, una per gli uomini e l’altra per le donne, più che altro per aggirar le bolle comunali sull’orario di chiusura, e d’altronde bastava una botticella di vino mandata all’indirizzo giusto, per tener lontani i controlli.
«A chi non piace il vino, Dio gli tolga l’acqua» era solita dire ai pochi che chiedevano alloggio senza bere. Si faceva pagare prima di mescere e non prendeva parte alle discussioni, soprattutto a quelle, ed erano le più, dove si tirava in ballo il vescovo o si malediva la protervia dei nobili.
Del resto, esponenti del clero e del ceto nobiliare erano lì anche quella sera, a divertirsi mescolati a manovali e maestranze, ai capimastri e ai carpentieri, ai fabbri e ai numerosi studenti.
Mauro dei Mauri, un ragazzone robusto dalla pelle insolitamente scura, sedeva ad un tavolo vicino al camino con suo padre Pietro e l’amico di lui, Giunta dei Ricoveri, che bevevano discorrendo del caldo, dei raccolti e della guerra contro Firenze. Il giovane però non ascoltava i loro discorsi: la sua attenzione s’era rivolta da un po’ ad un altro avventore, che stava tutto solo in un angolo.
Gli occhi fissi alla punta delle pianelle, Boso degli Azzi cercava nel boccale la serenità perduta a causa dell'amore per Ippolita.
Stava lì a cercare nel boccale vuoto ragioni alla propria sconfitta, poi lo riempiva e tornava a guardarci dentro.
Il gruppo degli studenti ritmò burlesco: Bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille.
«Ippolita ama me» lesse Boso nel vino, «i suoi occhi son più sinceri delle sue parole».
Poi un pensiero improvviso gli aggrottò le ciglia: «E’ stregata, ecco, vittima d’un maleficio». Parlava a voce alta ma incerta, la lingua impastata dal bere: «Sono stati quegli occhi freddi come il marmo, a incatenarla».
Pietro dei Mauri e Giunta dei Ricoveri stavano discutendo delle liti continue fra guelfi e ghibellini, del recente rientro in città dei capi fazione e del comportamento non sempre trasparente del vescovo. Conoscevano, come tutti, la storia di Boso e interruppero il loro ragionare guardandolo comprensivi.
Lui si voltò ai giocatori di dadi: «E’ un demonio, ecco cos’è, e chissà quali streghe l’hanno aiutato. Ci si può aspettare di tutto, da un guelfo».
Non amava i guelfi, che erano in combutta coi fiorentini, pensava, per vender loro Arezzo. E per come la vedeva lui erano anche ladri di femmine.
«Tutti briganti, capite?» pontificò ai capimastri che giocavano a carte. «Non se ne salva uno. E il Bostoli, ve lo dico io, è il peggiore!»
La porta spalancata di colpo lo fece voltare e nell’aria greve riconobbe gli occhi azzurri del suo rivale.
Da quando era rientrato in città, tre settimane prima, Rinaldo ogni sera usciva in passeggiata, scortato da un drappello di soldati, e dalla sua casa nel canto di ser Cambio saliva invariabilmente per la contrada dove affacciavano le case degli Azzi. Già, perché neanche lui aveva scordato quel bacio dietro il cespuglio sulla via del Pionta, ed il sonno gli era rimasto sulle labbra di Ippolita. All’epoca pensò di averla facendosi desiderare, ma quando le ragioni di famiglia gliela tolsero per darla a Boso, giurò vendetta: la spiava nelle sue uscite e non perdeva occasione per passarle davanti e farsi notare.
"Salute a tutti!» esordì Rinaldo forzando il tono.
Boso si alzò a fatica e gli si fece incontro barcollando.
«Tu!» lo apostrofò con l’indice puntato. Poi ci ripensò: «Voi! Come osate venir qui, traditore d’un guelfo!?»
Il vociare dei giocatori divenne brusio, mentre gli avventori si facevano attenti e la compagnia di giovani interruppe i suoi carmina. Il braccio del Bostoli rimase alzato a mezzo saluto. Conosceva i sentimenti dell’Azzi e non s’aspettava di trovarlo lì, né di essere affrontato. Non provava astio per il rivale: il suo atteggiamento e i commenti che giravano in città sulle sue sbornie gli confermavano l’infelicità di quel matrimonio, trasmettendogli un sottile piacere e alimentando segrete speranze. Spesso aveva covato l’idea di sfidarlo e prendersi Ippolita. Se non lo aveva ancora fatto è perché sapeva che lei non lo avrebbe perdonato e perché era sicuro di aver partita vinta, prima o poi: già considerava suo il cuore dell’amata e la vita gli avrebbe offerto l’occasione giusta. Dunque niente propositi di vendetta: era entrato per bere e non per duellare. L’offesa lo mise in imbarazzo ma decise di ignorarla e si diresse verso l’oste.
«Ehi, guelfo, dico a voi. Siete sordo?» insisté Boso. «Oppure oltre che traditore siete pure vigliacco?»
Gli occhi di Giunta dei Ricoveri e dei suoi amici Mauri si spostarono da Boso a Rinaldo.
«Puzzate di vino, messer Azzi. Andate per la vostra strada e lasciatemi schiarir la gola con un buon boccale»
«Non volete ascoltarmi, eh? La verità vi disturba, vero? Eh, già! Preferite tramar nell’ombra, fingere amicizia per poi colpire, e aspettando di prendere Arezzo con l’intrigo, attentate alla virtù di donne che non son vostre»
«Non mi provocate, Boso. Io non ho niente contro di voi»
«Lo sentite?» cercò il sostegno degli astanti «Fa il superiore, si dà un’aria di distacco, ma noi sappiamo bene come agisce, il nobile Bostoli vendutosi a Firenze, e i cospiratori qui non li vogliamo, vero, donna Vigna?»
La locandiera, chiamata in causa, cercò di calmarlo: «Suvvia, signore, non fatevi sangue amaro. Bevete e divertitevi: ho giusto una donzella che farebbe la felicità di molti»
«Datela a costui, ché lo convinca a lasciare in pace le donne oneste. E dal momento che non volete cacciare questo demonio, lo farò io».
Esaltato dal suo stesso dire, avanzò verso il suo nemico, che estrasse il coltello e gli intimò: «Fermatevi, adesso basta!»
Inaspettatamente, una mano scura gli bloccò il braccio.
Il giovane Mauro dei Mauri, balzato alle sue spalle, lo immobilizzò: «Via le armi, non vedete che è ubriaco?»
«Levatemi le mani di dosso!»
«Via le armi» ripeté Mauro, e gli strinse il polso fino a costringerlo a mollare il coltello, che finì per terra.
Nel frattempo l’oste, ad un cenno della moglie, aveva afferrato Boso, che protestava, ma senza tentare di liberarsi: «Lasciatemi, ché ho da rendere un servizio a tutta la città. Aiutatemi, piuttosto. Morte ai guelfi!»
In quel momento l’uscio si spalancò di nuovo.
Un drappello di sgherri del Comune irruppe nel locale armi in pugno, e rapidamente prese posizione tra gli attoniti clienti.
«Chi di voi è messer Rinaldo dei Bostoli?» chiese il più grosso di loro, con evidenza il capo pattuglia.
Mauro lasciò la presa. I presenti guardarono il nobile chiamato in causa, di fatto indicandolo al soldato, che gli si rivolse con tono imperioso: «Abbiamo ordine di condurvi al capitano di Giustizia. Seguiteci senza opporre resistenza».
L’oste lasciò perdere Boso e seguendo un altro muto comando di donna Vigna si portò alle spalle di Rinaldo: c’era da far capire agli armati del Comune che i tavernieri stavano dalla loro parte. Ora nessuno curava più i dadi o le carte. Attendevano la reazione di Rinaldo, che si guardò intorno e poi con un guizzo saltò sul tavolo che aveva di fronte, a gridare: «Bostoli, a me!»
Il richiamo, lanciato ai suoi rimasti fuori dall’uscio, cadde nel vuoto: la masnada dalle sopravvesti rosso verdi aveva neutralizzato, prima d’entrare, la scorta di Rinaldo, che si ritrovò solo e circondato. L’oste si mosse di scatto, lo afferrò per le gambe e con uno strattone lo stese sul tavolo. Il volto sbatté con violenza e le corde prontamente gli fermarono le braccia dietro la schiena. La bocca sputò sangue e invettive: «Lasciatemi, cani! Sono un Bostoli! Pagherete caro l’affronto!»
Dal labbro spaccato un rivolo rosso macchiò l’elegante guarnacca foderata di seta. Mentre lo trascinavano via, si voltò allo stranito Boso: «Non riuscirete a liberarvi di me».
Avvezza a simili burrasche, donna Vigna non s’era lasciata turbare dal movimentato episodio ed incitò gli avventori a riprendere i giochi, mentre il marito ripuliva il locale dai resti della breve lotta.
Pietro dei Mauri rimproverò il figlio: «Che ti è preso? Era armato e poteva farti male»
«Può darsi, ma non era uno scontro alla pari e il Bostoli andava fermato. Guardate com’è ridotto il nobile Azzi».
Boso s’era buttato a sedere su un panchetto, la testa confusa. Gli effetti della sbornia e il vano tentativo di riordinare le idee gli stavano procurando un forte mal di testa. Accennò a chiedere ancora da bere, ma poi ci ripensò e decise di tornare a casa.
Appena fuori l’aria fresca lo fece rabbrividire. Improvvisi conati lo costrinsero ad appoggiarsi al muro, piegato a vomitare la cena e il vino tracannato. Si sollevò, poi, ma fu colto da vertigini. Aspettò un po’ prima di muovere qualche passo verso casa, le gambe molli. Trovò sostegno nelle braccia dei Mauri, usciti dietro a lui insieme a Giunta.
«Venite» lo incoraggiò Pietro, «vi accompagniamo noi».
Si udirono urla, sempre più forti e vicine, e al Canto di ser Cambio, sul Borgo Maestro, dovettero fermarsi: una folla agitata correva verso le mura. Rumori di battaglia arrivavano dalla parte della pieve e bagliori d’incendio creavano un alone infernale al di sopra dei tetti. Cavalieri in armi risalivano la via scompaginando chi scendeva impaurito. Sul colle bruciavano le case dei Sassoli e quelle vicine degli Albergotti, capi di parte guelfa. Boso s’aggrappò ad una delle campanelle per i cavalli infisse nel muro e alzò gli occhi al palazzo dei Bostoli, che gli stava proprio di fronte. Nessuno pareva assediarlo o presidiarne le porte: «Già» mormorò tra sé «il pesce grosso lo hanno già preso».
Si mossero per traversare l’incrocio, ma non trovarono un varco tra la folla. Un corteo di armati con le insegne del comune e della parte ghibellina scortava un gruppo di uomini.
Riconobbero i personaggi più in vista della parte guelfa, scalzi e con le vesti stracciate, esposti allo scherno di chi fino a ieri, conducendo una vita di stenti, ne invidiava gli agi e la pompa.
Tra di loro Rinaldo, seminudo scarmigliato sporco e sanguinante, camminava tuttavia a testa alta, ostentando una fierezza che Boso non s’immaginava potesse avere. Lo colse un involontario senso di pietà per l’avversario: l’epilogo della serata, che prima, da ubriaco, avrebbe salutato con entusiasmo, adesso che era quasi sobrio gli parve indegno e perfino vergognoso.
Si sciolse dall’appoggio dei Mauri drizzando a fatica la schiena. Intorno a loro si sprecavano i commenti: «Ben gli sta» sentenziò una donna. E un’altra, sicura: «Erano in combutta con Firenze». «Finalmente ci sarà pace, in città» disse un anziano.
«Viva Arezzo ghibellina!» si udì più lontano. «Viva, viva!»
Seguirono la folla e arrivarono con gli altri alla Porta del Borgo mentre il cigolio dei cardini ne annunciava l’apertura e l’argano con rumor di ferraglia sollevava la saracinesca.
L’araldo lesse il bando, emesso dal vescovo quale unica autorità legittima dopo l’uccisione del priore. Spiegò, con linguaggio legale, che i prigionieri erano stati scoperti a tramare con emissari della repubblica fiorentina e perciò condannati per tradimento al bando perpetuo da Arezzo e a non più tornarvi pena la morte per loro, le loro donne e i figli piccoli, trattenuti in città come ostaggi; le case e i beni venivano confiscati ad uso del comune e i loro nomi cancellati dai pubblici registri.
Un brusio accompagnò la lettura e si trasformò alla fine in un’ovazione. Spalleggiati dalla massa urlante, gli sgherri scaraventarono fuori i prigionieri, rincorsi dagli insulti, dagli sputi e dai sassi. Quindi la Porta venne richiusa alle loro spalle.
Rinaldo finì lungo disteso nella polvere. Lo soccorsero e qualcuno gli chiese se stesse bene. Lui si rialzò, ma sembrava sconvolto: «Lassù, guardate, i diavoli son tornati! Non li vedete anche voi?»
Indicò il cielo sopra le mura, dove volteggiavano ombre agitate, e gli pareva che avessero ghigni soddisfatti.
Si dice che un giorno del 1217 il santo Francesco, passando da Arezzo, avesse visto demoni ballare sopra la città, intenti a seminare discordia tra la gente. Mandò frate Silvestro alla Porta del Borgo con l’incarico di cacciarli. Quello così fece e in Arezzo tornò la pace.
Gli espulsi seguirono il suo braccio teso, ma videro solo il fumo nero che saliva dalle loro case bruciate. Uno lo sollevò: «Venite, andiamo a chiedere aiuto a Firenze».
Boso lasciò i suoi soccorritori e tornò a capo basso verso casa. Quasi al portone, alzando lo sguardo incontrò quello di Ippolita, insolitamente affacciata. Si guardarono tristi e poi lei chiuse piano l’imposta, lasciandolo in compagnia del suo mal di testa.
In fondo alla contrada di San Piero, il marito di donna Vigna assicurò la spranga all’uscio della taverna ormai deserta, mentre gli studenti arrancavano sulla salita verso i loro alloggi, sostenendosi a vicenda e declamando con voce roca: Tam pro papa quam pro rege, bibunt omnes sine lege.

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