Mentre in Firenze il Machiavelli dava libero sfogo
al proprio pessimismo, un drappello armato accompagnava un altro fiorentino per
i vicoli di Roma. Le vie della Città Eterna non erano sicure,
nell’anno giubilare 1500, neanche di giorno e neppure per un giovane Cardinale
di Santa Romana Chiesa e per la sua familia,
e così Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico, si faceva sempre scortare.
Seguito da una mezza dozzina di chierici, tornava verso casa discorrendo col
suo segretario personale, il brillante Bernardo Dovizi da Bibbiena, di poco più
anziano di lui. Erano stati in San Pietro, e non per vedere il Papa o altri
della sua corte, ma per ammirare un gruppo marmoreo che li aveva affascinati
fin dal loro arrivo a Roma. Nella cappella di Santa Petronilla destava stupore,
dall’anno prima, una Pietà scolpita nel bianco marmo di Carrara da un giovane
delle loro parti, tal Michelagniolo da Caprese, fiorentino di famiglia e
d’adozione, se non proprio di nascita.
Ne parlavano ancora entrando nel portone di palazzo
Sant’Eustachio, edificato di recente dal vescovo di Chiusi Ottieri, tesoriere
del Re di Francia, e preso in affitto dal Cardinal Giovanni per farne la
propria residenza.
Poco dopo sedevano a tavola con alcuni ospiti
illustri.
«Desidero informarvi, amici miei, che qualche giorno
fa ho avuto un colloquio col signore di Città di Castello. Come sapete,
Vitellozzo ha molto sofferto per l’ingiusta morte di suo fratello Paolo».
Nella calda estate romana, le imposte socchiuse mantenevano
una fresca penombra. Gli ospiti ascoltavano il Cardinal Giovanni mangiando, o
meglio abbuffandosi di cacciagione.
L’unico che pareva interessato al discorso era
Piero, suo fratello maggiore: «Che ne pensi, il Vitelli ci riporterà davvero in
Firenze? Potremo usare il suo odio verso la Repubblica per i nostri scopi?»
Il Bibbiena conosceva bene l’impazienza di Piero, e
in fondo la condivideva. Lui c’era cresciuto, al servizio dei Medici, e da anni
lavorava, anzi viveva per ridar loro il potere perduto.
Il Cardinale invece non apprezzò l’interruzione; al
contrario, la fretta e la superficialità del fratello lo infastidivano parecchio.
Primogenito, più grande di lui di quasi quattro anni, Piero era stato allevato
con l’unico scopo di prendere il posto del padre Lorenzo alla guida di Firenze
e del Banco di famiglia. I migliori precettori si eran presi cura di lui e non
si era badato a spese nella sua educazione, con esiti però imprevedibilmente
disastrosi. Prepotente e capriccioso, era cresciuto cullandosi negli agi che le
ricchezze di famiglia gli consentivano, attento solo a farsi bello e alle vesti
eleganti, amante delle feste, del riso e delle burle. Quando nel ’92, alla
morte di Lorenzo, si trovò nelle mani le sorti della città, il popolino avvezzo
ai soprannomi lo aveva già bollato come Piero il Fatuo. Eccolo lì, ora, seduto
di sghimbescio alla mensa di suo fratello, a giocare con la mollica del pane avanzato,
facendone palline da lanciare ai cani, che se le contendevano lottando intorno
alla tavola.
Giovanni non poteva dimenticare quella drammatica
notte di novembre del ’94, quando sotto un diluvio di pioggia era dovuto
scappare da Firenze travestito da frate minore, lui che era già allora il più
giovane e brillante tra i Cardinali. E chi l’aveva obbligato a quella fuga, se
non Piero con la sua arrendevolezza verso Carlo VIII, con la sua codardia, che
aveva fatto infuriare il popolo fiorentino e gli aveva scagliato contro le
prediche infiammate del Savonarola? Di chi la colpa della cacciata dei Medici e
delle traversie che Giovanni aveva dovuto sopportare negli ultimi sei anni? Di
Piero, solo di Piero. Quanti sbagli! Quanti consigli aveva cercato di dargli,
inutilmente. Ah, se soltanto non fosse stato lui il primogenito, se il loro
Magnifico padre avesse capito chi dei figli era veramente capace di
succedergli! Che merito c’è, in fondo, a nascere prima? Sì, certo, glielo
riconosceva, Lorenzo, che lui era il più savio
tra i suoi figlioli, ma aveva altri piani: già all’età di quattro anni a
Giovanni fu imposta la tonsura, e quando ne aveva otto fu nominato Abate di
Montecassino e Morimondo; divenne Cardinale neanche tredicenne, anche se
dovette attendere altri tre anni prima di vestire le insegne del rango, cosa
che avvenne nel marzo del ’92, meno di due mesi prima che suo padre morisse.
Piero, il primogenito, doveva governare Firenze, e Giovanni sarebbe diventato
la longa manus dei Medici in Vaticano. Ma la
morte scombina anche i piani perfetti.
«Allora, fratello, si torna a casa o no?»
L’insistenza di Piero lo scosse dai ricordi.
«Dammi tregua, ti prego. Sono appena tornato a Roma,
lo sai, e devo ancora rendermi conto di come stanno le cose. D’altra parte»
proseguì rivolto agli altri due ospiti, «sapete che i miei rapporti con Papa
Alessandro non sono dei migliori, e questo mi impone prudenza. Conoscete le
ambizioni del Borgia e le sue gelosie nei miei confronti. Non son tempi da
poter prendere decisioni avventate, questi. Si respira un’aria avvelenata, e
non solo a Roma».
La risata di Piero sorprese sia il Cardinale che gli
altri ospiti, le cui mascelle si fermarono un attimo.
«Perdonate» si giustificò, «credevo fosse una battuta».
In effetti nella famiglia Borgia l’uso del veleno
per spianare vie politiche impervie era divenuto consuetudine, ma Giovanni non
capiva come suo fratello potesse riderne. Si rammentò d’essere un religioso,
che facevano giusto mille e cinquecento anni, un millennio e mezzo dalla
nascita di Nostro Signore, che stavano parlando del Sommo Pontefice, il suo
rappresentante in terra, e si sentì assalito dalla tristezza.
«Non ci sono limiti all’ambizione dei potenti. Che
reggano uno Stato o Santa Romana Chiesa poco importa: lasciati gli imperativi
morali a noi gente comune, se ne sentono superiori e tutto giustificano in nome
del potere, della ricchezza e della propria lussuria».
I suoi occhi s’incupirono. «Non mi piace» proseguì
dopo un attimo d’incertezza, «ma è qui e oggi che ci è toccato vivere, e il
nostro ruolo c’impone di tenerne conto».
«E però, Giovanni, non dobbiamo rassegnarci al
disfacimento della Chiesa e dei suoi valori, né allo scandalo d’un Papa dissoluto».
Giovan Battista Orsini, rimasto fin lì in silenzio,
era anch’egli Cardinale, oltre che esponente d’una grande casata romana,
imparentata con i Medici da quando il Magnifico era convolato a nozze con la
bella Clarice.
«Rodrigo considera la Chiesa come sua proprietà privata,
ha portato l’incesto in Castel Sant’Angelo e si sta facendo costruire dal
figlio Cesare uno Stato di famiglia, con la scusa di restituire alla Chiesa le
terre della Marca e della Romagna. Come legato della Marca Anconetana…»
«Abbiate pazienza, Giovan Battista, non dovete
credere che intenda adattarmi a questa situazione o peggio prender le parti dei
Borgia. Vi ho convocato qui, anzi, per capire cosa si possa fare»
«Davvero il Vitelli attaccherebbe Firenze per voi?»
La domanda venne dall’ultimo ospite della riunione,
il Duca di Gravina Francesco Orsini, parente del cardinal Giovan Battista, ma
d’un ramo diverso della casata. «Ho sentito invece che s’è messo al soldo del
Valentino».
«Così pare. E so per certo che prima è stato a
Milano, a chiedere a Re Luigi soddisfazione dei torti subiti dalla Repubblica
Fiorentina. Ho seguito attentamente le sue mosse. Lo spinge il desiderio di
vendetta, ma anche l’ambizione, o forse l’illusione, di farsi uno Stato intorno
alla sua Città di Castello. Per raggiungere i suoi scopi è pronto a servirsi
del Re, del Valentino e anche di noi. Immagino però che alla fine sarà lui a
venir usato»
«Ah, questo è sicuro per quel che riguarda il
Valentino». Il Duca di Gravina si mostrò scettico: «Mi pare che il vostro Vitellozzo
dovrebbe guardarsi piuttosto dalle mire dei Borgia che dagli inconcludenti
signori di Firenze»
«Vitellozzo non è un ingenuo. Sa bene che da solo
rimarrà stritolato nella morsa degli astuti potenti. Ha offerto le sue Compagnie
al Valentino e al Papa, sperando di convincerli ad agire contro Firenze, ma poi
è venuto anche da noi»
«Come?» Il Cardinal Orsini scattò in piedi. «E noi,
per riportarvi a Firenze e compiacere i piani del Vitelli, dovremmo partecipare
ad una lega col Papa Borgia? È per questo che ci avete convocato?»
«Calmatevi, vi prego. Certo che no. Vi ho già detto
che occorre prudenza. Non è il momento di far leghe con chicchessia. Ma
riflettete a quali sarebbero le conseguenze se il Valentino si accordasse con i
Fiorentini per aver via libera verso la Romagna, magari con la benedizione di
Re Luigi. Il Vitelli verrebbe spazzato via, la Repubblica Fiorentina ne sarebbe
rafforzata ed è vero che le speranze della mia famiglia di rientrare in patria
si allontanerebbero chissà per quanto tempo, ma anche per voi, qui a Roma,
accadrebbe la stessa cosa: chi infatti potrebbe più contrastare lo strapotere
dei Borgia?»
Il Bibbiena ammirò l’abilità del Cardinal Giovanni.
Il Duca di Gravina, invece, aveva da porre un’altra
domanda: «E perché mai, secondo voi, il Valentino dovrebbe intendersi col
Vitelli invece che con i Dieci di Balia?»
«Per ambizione, amico mio, smisurata e cieca. Perché
contentarsi di Città di Castello e del suo modesto territorio se può avere la
stessa Firenze? Il Borgia, statene certo, ragionerà più o meno così: lasciamo
fare il lavoro sporco a Vitellozzo, e se dovesse riuscire vedremo poi come
sistemarlo; se invece fallisse faremo sempre in tempo ad allearci con la
Dominante».
Il Cardinal Orsini s’era fatto riflessivo: «Certo,
se riuscisse, voi riavreste il posto che vi spetta in patria, ma sempre al
prezzo di un’ingombrante alleanza coi Borgia»
«Che non abbiamo contratto noi e che quindi non
saremo tenuti ad onorare, mentre gli Orsini, e lo stesso Vitelli, godrebbero
dell’amicizia d’una ritrovata signoria fiorentina, stavolta forte abbastanza
per opporsi alle mire di questa dissennata famiglia spagnola»
«E Re Luigi?»
«Mi dicono che ha trattato freddamente il Vitelli e
rinsaldato l’amicizia con Firenze, e ci credo. Il re vuole Napoli e sa tessere
le sue alleanze. Non muoverà un dito per rovesciare la Repubblica, ma di fronte
al fatto compiuto non potrà non valutare i vantaggi d’avere i Medici al suo
fianco. Mio fratello non vede l’ora di offrire al Re i nostri servigi».
Piero, impegnato con le sue molliche, non colse il
sarcasmo nelle ultime parole del fratello.
«E insomma cosa ci chiedete di fare?» cercò di
stringere il Duca di Gravina.
«Sostenere il tentativo di Vitellozzo non ci
compromette più di quanto non lo siamo già. Troviamogli alleati e soldi. Voi
siete condottieri, oltre che i capi d’una grande famiglia, e i mezzi non vi
mancano»
«E voi cosa farete?»
«Personalmente, niente. Per ora mi sto occupando di
questo palazzo: vi ho trasferito la mia biblioteca ed ho avviato trattative per
acquistarlo. Ho intenzione di farne una dimora degna della nostra famiglia. Mi
dedicherò agli studi trascurati nel mio vagare per l’Europa. Casomai sarà Piero
a fare un viaggetto».
Chiamato in causa in quel modo inatteso, Piero alzò
di scatto la testa: «Che dovrei fare?»
«Recarti a Perugia»
«E per qual motivo?»
«Vitellozzo si trova là, ospite di Giampaolo
Baglioni».
Il Bibbiena si grattò la testa: ancora una volta gli
sarebbe toccato seguir Piero in una missione diplomatica, per veder che riuscisse.
Alla fine di luglio Giampaolo Baglioni accolse nel suo palazzo la delegazione dei Medici.
Amante della bellezza,
Piero il Fatuo restò in adorazione degli azzurri, dei bianchi e dei chiarissimi
rosa che illuminavano la decorazione pittorica del salone d’onore, opera di un
ancor giovane Domenico di Bartolommeo, detto il Veneziano.
«Stupendi colori!»
commentò a voce alta. «Diffondono un senso di pace e di serenità. Quasi non
sembra che…» S’interruppe, temendo d’aver offeso la sensibilità del suo ospite.
Il Bibbiena gli lanciò un’occhiataccia. In effetti la visita si svolgeva ad
appena una decina di giorni dalla tragica notte delle nozze rosse e
neanche una settimana dal rientro del Baglioni in Perugia.
«Avete ragione, Piero. In
verità la pace di cui parlate serve più a noi che ai nostri visitatori. Vengo
spesso qui, anche quando non ho ospiti, nella speranza di dimenticare, ma le ferite
sono ancora troppo fresche. L’unguento della vendetta non è bastato a lenirne
il bruciore».
Lo sguardo cupo e
accigliato del Baglioni raccontava le sciagure della sua casata meglio di ogni
parola. In disparte, ritto allo strombo d’una delle finestre che affacciavano
sulla via principale, Vitellozzo guardava fuori con un’espressione altrettanto
dura, ma più determinata, di chi ha già un piano per tirarsi fuori dalle
disgrazie.
Nel giro di un mese,
palazzo Baglioni era passato dal massimo dello sfarzo e della gioia alla più
sanguinosa ferocia di cui sia capace la belva che chiamano uomo.
«Famiglia infelice»
mormorò Piero il Fatuo, alzando gli occhi al chiaro cielo dei dipinti del
Veneziano, «colpita da tanto dolore, da far impallidire la memoria delle faide
fiorentine».
Se c’era una cosa che il
carattere di Giampaolo mal sopportava era la commiserazione.
Tagliò corto: «Ogni
famiglia ha i suoi guai e i suoi figli scellerati, ma ora il governo cittadino
è saldamente nelle mie mani. Parliamo piuttosto del motivo della vostra visita.
Vitellozzo ha aiutato me a riprendere Perugia e so che intende aiutare i Medici
a rientrare in patria, ma non mi pare altrettanto facile».
Il Tifernate, abbandonata
la finestra, si avvicinò. «Proprio per questo sono in cerca di alleati.
Immagino che possiamo contare su di voi»
«Vi sono debitore e il
mio appoggio non vi mancherà. Spero solo che abbiate un piano»
«Certo che ce l’ho, e si
riassume in una sola mossa: prendere Arezzo. Far leva sullo spirito ribelle
degli Aretini e sulla loro voglia di scrollarsi di dosso il giogo fiorentino»
«A dire il vero, non mi
pare che gli Aretini possano contare su mezzi o denari»
«Per quelli ci siamo noi
e c’è qui il nostro Piero, il quale ci porta, credo, anche le Compagnie degli
Orsini, che unite alle nostre fanno una forza notevole»
«E col Valentino, come la
mettete? Non possiamo muover guerra a Firenze senza il consenso del Borgia, o
almeno la sua benevola neutralità, non credete?»
«Sicuro, ed è per questo
che mi sono messo al suo servizio, e penso che dovrete fare altrettanto, voi e
gli Orsini: presto gli saremo così indispensabili che dovrà darci retta per
forza. Ma ci serve anche un ultimo alleato».
Il Baglioni capì: «Ci
serve l’appoggio di Siena»
«Proprio così»
«Era giusto mia
intenzione prendere un abboccamento col Petrucci. So che anche lui va in cerca
di alleati per tenere a bada le mire della Dominante. Non credo però che si
lascerà convincere a mettersi al soldo del Valentino»
«Certo che no, accidenti!
Il Petrucci ha signoria e come signore ci serve. Chissà, forse un giorno
potremmo averne bisogno per difenderci dallo stesso Valentino. Possiamo rimaner
d’accordo così: voi tirate dentro il Petrucci, mentre io prenderò accordi con
alcuni amici di Arezzo».
Il Bibbiena seguiva
soddisfatto gli sviluppi della conversazione, mentre il Fatuo non ne capiva
molto, di tutti quegli intrighi, e però non stava nella pelle. S’attaccò
all’ultima frase udita: «Dunque è cosa di poche settimane!»
I due lo guardarono con
un filo di commiserazione.
«Quanta fretta, nobile
Piero! Dovreste sapere che queste cose richiedono tempo» lo apostrofò il
Vitelli.
«Anche dei mesi?» Sul
volto del fiorentino la delusione si fece palese.
«Pure degli anni, se
necessario. Ma intanto potete riferire al Cardinal Giovanni che la vostra
missione a Perugia ha sortito il suo scopo e che può cominciare a mettere
insieme i fondi per assoldar gli armati»
«Lo farò».
Un dubbio corrugò la
fronte di Vitellozzo.
«Non credo occorra
ricordarvi che i nostri piani devono rimaner segreti. Vi saluto» aggiunse
ignorando l’espressione offesa sul volto di Piero e il passo avanti del
Bibbiena che intendeva farsi garante per il Medici.
«Quanto a voi, Giampaolo,
tutta la mia amicizia e la mia solidarietà». Abbozzò un goffo inchino e uscì.
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