giovedì 19 marzo 2020

CAPITOLO 6 - NERONE DA PANTANETO


Ottima annata, per il grano, il 1500. Camminando di buon passo verso Monterchi, Nerone ammirava soddisfatto i suoi campi dorati, immobili sotto il sole, e considerava come il Santo Giubileo avesse benedetto i raccolti.
La domenica mattina non si può che andare a messa per ringraziare il Signore, portando due libbre d’ottima cera da candele.
Oddio, il suo ringraziamento più sincero, quello che viene dal cuore, andava tutto ai propri vecchi, al padre morto su quella stessa strada, e su su fino al nonno di suo nonno, che quei campi avevano creato bonificando con fatica e tenacia l’estensione acquitrinosa che dava nome al posto, e li avevano poi difesi dalle alluvioni del Cerfone con un efficace sistema d’argini. E un po’ anche a se stesso, che sulla terra si spaccava la schiena ogni giorno, quanto e forse più dei suoi braccianti.
Nerone non si sedeva mai, neanche per mangiare, e se avesse potuto, per far prima, avrebbe pure dormito in piedi. Non poteva star fermo, lui. Non gli bastava impartire ordini al fattore e controllare i conti che quello gli presentava. Doveva far da sé. La fatica non lo spaventava, anzi lo attirava, ne sentiva il bisogno. Il duro lavoro gli aveva sviluppato un fisico robusto e una forza tale da uccidere un uomo con un pugno, e più d’una volta c’era andato vicino. Al battesimo gli avevano messo nome Antonio, ma per tutti era Nerone: fisico imponente, carnagione brunita dal sole e modi spicci.
Amava la terra, al punto di sbriciolar le zolle tra le mani, dopo l’aratura, per saggiarne la consistenza, ed annusarla per sentirne la fertilità. Amava la terra, ma la sua vera passione eran le armi. Quelle tradizionali, d'una volta, da uomo, come diceva suo padre: custodiva gelosamente due spade, una lancia da parata, una vera collezione di pugnali e pure un arco lungo inglese capitato in casa sua quando era ancora piccolo. E di più quelle moderne, da fuoco, che lo attiravano per la loro potenza ma delle quali un po' si vergognava: suo padre le riteneva addirittura da vigliacchi perché il loro uso non richiede, diceva, forza o abilità, ma solo una mira precisa. Possedeva, Nerone, un archibugio ad avancarica, ultimo ritrovato nell’arte della guerra. «Il mio cannone a mano», lo chiamava, lisciandone la lunga canna o carezzando i contorni della serpentina. Ci andava a caccia spesso, nei fitti boschi del Ranco, dei quali conosceva ogni anfratto.
«Il tuo figliolo ci lascerà presto, vedrai» diceva suo padre alla moglie. «Il suo mestiere è la guerra»
«La terra va pur difesa» replicava lui.
Poi il vecchio Nicola era morto proprio per difender la terra, ammazzato da un fiorentino, e lui, figlio unico, s’era legato ancor più ai suoi campi.
Le famiglie che popolavano la tormentata valle del Cerfone, incassata tra i monti a levante d’Arezzo, tra i quali s’apre a forza uno sbocco tortuoso verso il Tevere, quelle famiglie, rustiche quale ne fosse il rango, erano solite radunarsi alla Pieve di Sant’Antimo, sull’antica via tifernate, la domenica mattina. Ci andavano a cavallo i nobili proprietari, sfoggiando gli abiti più eleganti. A piedi, e scalzi, i braccianti e i mezzadri, portando sulla spalla gli zoccoli da indossare in chiesa, per rispetto.
Nerone era nobile e proprietario, ma ci andava lo stesso a piedi. Gli piaceva camminare per godersi la vista delle sue terre e i profili rotondi delle colline, quasi seni prosperosi illuminati di sbieco dal sole mattutino.
Quella domenica, salito sull’argine maestro, spinse lo sguardo lontano, fino ai boschi del Ranco. C’era un castello, là in mezzo, teatro, quasi un secolo prima, delle gesta d’un famoso condottiero del posto, quel Baldo di Piero Bruni conosciuto da tutti come Baldaccio d’Anghiari. Nerone s’era appassionato fin da piccolo alle imprese che gli raccontava il nonno, e s’era figurato un eroe forte e puro, divenuto Capitano dal niente, coraggioso e refrattario ai compromessi. Anche ora, adulto, serrava i pugni rabbioso al pensiero di come i Fiorentini l’avessero ucciso a tradimento, gettandone poi il cadavere da una finestra del Palazzo Pubblico.
Nerone li odiava, i Fiorentini, e non solo per la sorte di Baldaccio. Istintivamente dall’argine guardò la via: poco più avanti riconobbe il punto dove era caduto suo padre, l’anno prima.
Rivide la scena. Una bella mattina d’estate anche quella. Anche allora domenica, e loro due, soli, camminavano verso la Pieve parlando del raccolto.
Poi tutto si svolse velocemente. Il drappello di sgherri gigliati sbucò dalla svolta, comandato dal Vicario fiorentino in Anghiari, che apostrofò il vecchio: «Domani verrà una squadra a mietere nei vostri campi. Sarete contento: non dovrete neanche faticare. Faranno tutto loro, per la metà del raccolto che spetta alla Repubblica».
La rabbia di Nicola da Pantaneto, tante altre volte repressa, a quelle parole scattò violenta e inattesa.
Si gettò contro il Vicario gridando: «Non avrete un bel niente!», e lo tirò giù dal cavallo. Gli fu sopra col pugnale e già calava il fendente. Il braccio però rimase a mezz’aria e la mano lasciò cadere il coltello. Stramazzò trafitto dalla lancia d’uno sgherro.
Con un urlo Nerone si lanciò al soccorso, ma fu spinto a terra dalla groppa d’un cavallo e bloccato da due lame puntate alla gola. Il Vicario s’era già rialzato: «Tu non morire», gli disse, «ché poi ci tocca confiscare i vostri poderi così ben tenuti». Rise, rimontò in sella, e sparirono da dove eran venuti, lasciandolo solo con suo padre, che pareva fissare il cielo sereno con gli occhi sgranati e la bocca aperta, insensibile a lui che lo scuoteva per rianimarlo.
Come tutte le altre domeniche dell’anno trascorso, Nerone scacciò con un gesto il brutto ricordo e tornò a guardare su verso il Ranco. C’era un’altra storia che legava quel luogo impervio alla sua infanzia, ed ancora tornava nei suoi pensieri: quella dell’Uomo Selvatico, misterioso e gigantesco abitatore dei boschi. Sua madre diceva che era buono. Era lui che mandava le prede ai cacciatori, guidava le vecchie sapienti nella ricerca delle erbe che guariscono, e ai taglialegna mostrava gli alberi migliori. Lui aveva donato la castagna alla fame dei poveri, e insegnato loro come si fa il formaggio e come si separa la cera dal miele. Ma sapeva pure diventar feroce, quando c’era da proteggere la valle del Cerfone e i suoi abitanti da nemici e malintenzionati.
Scendendo dall’argine, Nerone rivolse una muta invocazione a quel nume tutelare perché liberasse le sue terre dai Fiorentini. Poi riprese il cammino, lasciando sedimentare nel suo animo pesante un’altra dose del rancore di cui era già pieno: l’indomani avrebbe cominciato a mietere e si sarebbe sfogato abbattendo con la falce gli steli, colpevoli solo di star ritti a sostener le spighe.
Prima di arrivare alla Pieve, fece un’altra sosta alla chiesetta del Parto, come la chiamavano tutti dopo che il maestro Piero dal Borgo vi aveva dipinto a fresco una stupenda Madonna gravida.
Da piccolo c’era andato tante volte, con sua madre, a ringraziare la Madre di Dio che li aveva protetti quando era venuto al mondo, in un parto difficile e doloroso. Portato in braccio i primi mesi, condotto per mano appena le sue gambe avevan preso sicurezza. Già durante la gravidanza lei s’era inginocchiata su quei gradini quasi ogni giorno, a chieder la grazia d’un parto sereno, salute per il nascituro e latte per le sue mammelle. Si umettava l’indice con la saliva e se lo poggiava sul pancione proprio come la Madonna di Piero, per disegnarvi un segno di croce. Poi si alzava e andava a toccare quel ventre divino.
«Tu ci sei passata prima di me», le diceva con una confidenza che la pratica quotidiana aveva reso naturale, «e sai cosa vuol dire. Fa’ che nasca sano, proteggilo dalle malie degl’invidiosi e dammi il latte che mi serve; e io te lo porterò ogni giorno, perché tu possa vederlo crescere».
E così era stato finché Antonio non ebbe compiuto dieci anni, ché poi suo padre disse basta.
Ogni domenica, però, quando andavano a messa alla Pieve, era suo padre stesso che deviava quei pochi passi dalla via e lo conduceva alla chiesetta per una frettolosa preghiera di ringraziamento.
Anche quella mattina, quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, Nerone li fissò in quelli semichiusi della Madonna: gli parevano rassegnati ai dolori della vita, ma insieme sicuri di poterli affrontare e vincere.
«Se hai permesso che nascessi», le disse a voce bassa, «non sarà per lasciarmi strapazzare da questi assassini prepotenti. Tu mantienimi la salute, e penserò io a ricacciarli a casa loro».
«Te lo prometto», concluse, e non si capiva se stesse parlando alla Vergine oppure a sua madre, o a suo padre morto.
Entrò una donna col ventre grosso, e Nerone si ritirò: in fondo quella era la Madonna delle partorienti.
Finalmente s’avviò alla Pieve, con le due libbre di cera da candele.

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