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1285 fu nominato capitano del popolo e priore delle arti tal Guelfo Falconi da
Lucca, il quale arrivò ad Arezzo con l’idea di spazzar via il vecchio sistema
feudale.
Vedeva
la città bloccata dai privilegi delle antiche consorterie, dallo strapotere del vescovo e dai vasti possedimenti delle abbazie benedettine.
«Vi
rendete conto» disse nel suo discorso di insediamento davanti ai priori, «di quanto sia arretrato il vostro
sistema di governo? Siete ciechi per non vedere come Firenze, la mia Lucca e la
stessa Siena si fanno ogni giorno più ricche? Come potete ignorare l’influenza
crescente di cui godono in tutta Europa e come ricorrano a loro persino i più
grandi re?»
Promise
che avrebbe fatto di tutto per sostenere il popolo: «Guelfi e ghibellini son vecchie
distinzioni senza più significato. Solo chi produce e commercia può portare
ricchezza a questa città, e i nobili dovranno adeguarsi o andarsene!»
Qualcuno
tra i priori sorrise: non si chiamava forse Guelfo, il lucchese? Con quelle
idee, mai nome fu meno azzeccato.
Al
principio i Bostoli e gli esponenti più in vista delle altre casate lo
derisero, e lo stesso vescovo lo sottovalutò, considerandolo nient’altro che un
povero visionario.
Cosa
ne sapeva, il nuovo venuto, della realtà aretina? Dov’erano le arti che lui
intendeva favorire?
La
ricchezza di Arezzo veniva dal contado: dalle coltivazioni di guado, prezioso
per le tintorie, dalle vigne, dalle estensioni a grano delle pianure, dalle
foreste sui monti e dalle fabbriche di armi del Casentino. Le attività
economiche, in città, erano per lo più piccole botteghe artigiane o fondachi
utili al commercio locale. C’era, è vero, chi s’appoggiava ai mercanti
fiorentini arrivando a vendere nei grossi mercati di Pisa o di Genova, ma si
contavano sulle dita d’una mano ed erano troppo intenti al proprio guadagno per
occuparsi di politica. Per questo in città contavano le famiglie nobili, e le
abbazie con le loro estese proprietà nel contado.
Evidentemente,
pensavano tutti, era Guelfo che non si rendeva conto di dove fosse capitato.
Ma
lui tirò dritto, anche se presto dovette prendere atto che nessuno era disposto
a seguirlo.
Decise
di far da solo: se smuoveva le acque, il popolo, ne era certo, sarebbe stato
dalla sua parte.
Comprese
subito che il potere reale stava nelle mani vecchie e rugose del Vescovo.
Guglielmino
degli Ubertini era stato avviato alla carriera ecclesiastica fin da bambino,
per decisione familiare, col duplice scopo di non frazionare il patrimonio e di
metter le mani su una fetta dell’immenso potere della Chiesa. Contrariamente a
tanti, però, vi si era adattato bene.
Era
divenuto Vescovo nell’ormai lontano '48, in seguito ad un barbaro assassinio:
il suo predecessore, Marcellino, era stato trucidato dall’imperatore Federico
II.
Erano
tempi di grandi passioni e le famiglie ghibelline approfittarono del momento
per imporre l’elezione di uno di loro. La scelta cadde appunto sul giovane
Ubertini, che era allora, non ancora trentenne, arcidiacono della cattedrale.
Le
cose, all’inizio, non furono affatto facili, per il nuovo presule: il clero e
il comune, sobillati dalle famiglie guelfe, gli impedirono di entrare in città.
Guglielmino
cercò di pacificare gli animi, a cominciare dalla Chiesa, e propose l’unione
tra il capitolo della pieve e quello della cattedrale, protagonisti da sempre
di un’accesa rivalità.
Ciascuno
dei due collegi s’arrogava il diritto di rappresentare la Chiesa cittadina: i
canonici di cattedrale si stimavano consiglieri del vescovo, e quindi sede
della legittima autorità, titolari insomma della cattedra; quelli della pieve di Santa Maria, chiesa battesimale di città e quindi luogo principale
della devozione popolare, si reputavano i veri rappresentanti della comunità
dei credenti. La cattedrale custodiva il corpo del patrono san Donato, la pieve
ne conservava la testa.
I
due capitoli rifiutarono la mediazione e lui si rivolse al papa, che gli chiese
di favorire i guelfi. Lo fece, ma provocò la reazione violenta dei ghibellini,
che nel '52 assalirono e distrussero il suo castello di Civitella. Costretto a
rifugiarsi in Casentino, pensò allora di intraprendere trattative segrete con
Firenze.
Due
anni dopo s’arrivò alla stipula d’un patto che finalmente gli aprì le porte
della città. Il papa lo consacrò vescovo di Arezzo dopo sei anni di scontri e
di compromessi: sei lunghi e sofferti anni, ma da quel momento nessuno fu più
in grado di fare a meno di lui. Sfruttò abilmente gli odî atavici tra le fazioni
e divenne in breve l’ago della bilancia della politica cittadina.
Dopo
trent’anni, nel 1285 era ancora saldamente al potere, e dunque il lucchese cominciò proprio
da Guglielmino, cacciandolo di città.
Con
lui diede il bando al nobile Tarlato dei Tarlati di Pietramala, capo del partito
ghibellino, e a Rinaldo dei Bostoli, primo tra i guelfi aretini.
Una
lunga serie di leggi imposizioni gravami e tasse raggiunse gli altri nobili
che, per restare, dovettero rinunciare ad ogni privilegio e sottostare ad una
vera e propria persecuzione.
Due anni dopo, in
una tranquilla giornata di inizio giugno del 1287, Rinaldo de’ Bostoli stava uscendo a
cavallo dal suo castello di Lorenzano, posto a guardia sul fiume Arno e su chi
scendeva in riva destra dal Casentino verso Arezzo. Il fortilizio, rifugio per
quando aveva voglia di mollare gli intrighi cittadini, dopo il bando era diventato
il suo ritiro forzato e lui spesso dava sfogo ai malumori cavalcando lungo il
fiume e nei boschi.
Era
già in sella quando gli annunciarono l’arrivo d’un cavaliere con scorta e
vessillo dei Tarlati di Pietramala. Gli andò incontro, più che altro per non
esser costretto ad offrire ospitalità ad un ghibellino.
«Salute,
messere, state bene?» s’informò con freddezza.
«Starei
meglio» ribatté Tarlato spicciativo, «se non fossi esiliato e non udissi dei
provvedimenti presi dal priore contro di noi». Due occhi ostili si fissarono su
Rinaldo, quasi fosse il responsabile dei propri guai. «Ogni giorno un nuovo
bando, studiato per renderci la vita impossibile. L’ultima è di ieri: l’editto
che obbliga a mozzare le torri più alte di cinquanta braccia, proprio come a
Firenze!».
«Siamo
tutti nelle medesime condizioni»
«Già».
Tarlato sembrò ricordarsi che anche il Bostoli era esiliato. «Non si può dire
che Guelfo, a dispetto del proprio nome, mostri riguardi per la vostra parte
politica». Un risolino malevolo gli piegò gli angoli della bocca.
«Occorre
far ragionare il lucchese»
«Suvvia,
nobile Bostoli, come volete che il priore accetti di cambiare i suoi bandi? Vi
sembra forse persona accomodante? Conviene piuttosto agire con decisione».
Avvicinò il cavallo e si sporse dalla sella: «Dovremo farlo insieme. Guelfo
colpisce tutti i nobili e tocca all’intera nobiltà metterlo a tacere. Sapete
come si dice: chi a molti dà terrore, di molti abbia timore».
Rinaldo
buttò l’occhio verso la valle e assentì: «Quello che va fatto si farà».
Tarlato,
lavorando di briglia, voltò l’animale: «Siamo intesi, è per stanotte. Salute a
voi». S’allontanò al galoppo, seguito dai suoi, alzando un polverone sullo
stradello che scendeva all’Arno.
Era
l’ora che i contadini chiamavano del cumbrugliume, storpiando
l’espressione latina cum umbra et lumen, l’ora, insomma, che ha già visto tramontare il
sole ed aspetta che cali la notte. Il Bostoli arrivò al Duomo Vecchio del
Pionta al comando d’una trentina di cavalieri, e vi trovò decine di armati in
attesa.
Nella
cripta la riunione era già cominciata. L’ambiente era angusto, coperto da volte
ad arco ribassato rette da una selva di colonne in pietra. La fioca luce delle
candele dava al consesso un’aria di cospirazione. Il vescovo Guglielmino stava
assiso davanti al piccolo altare e i convenuti, in piedi, erano schierati ai
suoi lati, i guelfi di qua e i ghibellini di fronte.
La
statua della Madonna pareva a disagio.
Stava
parlando il Tarlati: «Siamo pronti. Si è provveduto a disporre armati nei punti
strategici, e si son presi accordi coi comandanti della milizia comunale perché
ci lascino campo libero. All’ora stabilita, ci verrà aperta la Porta Nova e
saliremo dritti al palazzo del popolo»
«Il
priore tenterà di scappare» obiettò una voce dal fondo.
Tarlato
sogghignò: «Ancora non lo sa, ma in pratica è già prigioniero e le masnade dei
nobili rimasti in città gli impediranno ogni fuga».
All’apparir
di Rinaldo la discussione s’interruppe. Tarlato l’osservò compiaciuto: il
ritardo del Bostoli gli aveva fatto temere un ripensamento, il suo arrivo
significava che quella notte si sarebbe tornati in città.
Guglielmino
pareva assorto in meditazione. Rinaldo chiese ad uno della parte guelfa: «Avete
già deciso chi sarà capitano del popolo, domattina?»
«Non
ancora. I ghibellini vogliono la carica per sé e ci lascerebbero il podestà.
S’aspettava giusto voi per dare risposta: molti dei nostri sembrano favorevoli
alla soluzione».
Quasi
avesse udito, Guglielmino osservò: «Non si può decider tutto ora: nei prossimi
giorni vi convocherò in Episcopio e vi sottoporrò le mie proposte».
Nessuno
in verità si fidava del vescovo, temendo che approfittasse del rivolgimento per
imporre una propria signoria personale. Questi però incalzò: «Stasera vi tocca
decidere se volete tornare alle vostre case o lasciarle, forse per sempre, al lucchese
e ai mercanti. Volete davvero» chiese guardando Rinaldo, «veder abbassate le
vostre orgogliose torri?»
Assecondando
il presule, ogni sguardo si fissò sul Bostoli, che alla fine mormorò: «E sia».
Uscirono
ad organizzar le masnade.
L’operazione
fu davvero ben orchestrata: la cattura di Guelfo Falconi risultò facile e quasi
incruenta. Denudato e gettato in una profonda cisterna, lo si lasciò morir di fame.
Qualche tempo dopo si raccontò pure che gli avessero cavato gli occhi e
qualcuno sostenne che la morte lo avesse raggiunto nelle umide prigioni di
Civitella. Comunque sia, fece una brutta fine.
Ci
fu molto rumore in città, nei giorni successivi, e nelle taverne si discuteva
con animazione, prendendo per lo più le parti del prigioniero. Chi sosteneva
che non si dovesse lasciar correre un così grave sopruso, chi malediceva i
nobili e la loro prepotenza, chi accusava il vescovo di esser l’ispiratore del
colpo di mano, e chi invece pensava che Guglielmino fosse l’unico in grado di
riportar la pace tra le mura aretine. Nessuno comunque s’azzardò a sfidar le
masnade dei nobili.
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