mercoledì 11 marzo 2020

EPISODIO 2 - UNA BRUTTA FINE


N
el 1285 fu nominato capitano del popolo e priore delle arti tal Guelfo Falconi da Lucca, il quale arrivò ad Arezzo con l’idea di spazzar via il vecchio sistema feudale.

Vedeva la città bloccata dai privilegi delle antiche consorterie, dallo strapotere del vescovo e dai vasti possedimenti delle abbazie benedettine.
«Vi rendete conto» disse nel suo discorso di insediamento davanti ai priori, «di quanto sia arretrato il vostro sistema di governo? Siete ciechi per non vedere come Firenze, la mia Lucca e la stessa Siena si fanno ogni giorno più ricche? Come potete ignorare l’influenza crescente di cui godono in tutta Europa e come ricorrano a loro persino i più grandi re?»
Promise che avrebbe fatto di tutto per sostenere il popolo: «Guelfi e ghibellini son vecchie distinzioni senza più significato. Solo chi produce e commercia può portare ricchezza a questa città, e i nobili dovranno adeguarsi o andarsene!»
Qualcuno tra i priori sorrise: non si chiamava forse Guelfo, il lucchese? Con quelle idee, mai nome fu meno azzeccato.
Al principio i Bostoli e gli esponenti più in vista delle altre casate lo derisero, e lo stesso vescovo lo sottovalutò, considerandolo nient’altro che un povero visionario.
Cosa ne sapeva, il nuovo venuto, della realtà aretina? Dov’erano le arti che lui intendeva favorire?
La ricchezza di Arezzo veniva dal contado: dalle coltivazioni di guado, prezioso per le tintorie, dalle vigne, dalle estensioni a grano delle pianure, dalle foreste sui monti e dalle fabbriche di armi del Casentino. Le attività economiche, in città, erano per lo più piccole botteghe artigiane o fondachi utili al commercio locale. C’era, è vero, chi s’appoggiava ai mercanti fiorentini arrivando a vendere nei grossi mercati di Pisa o di Genova, ma si contavano sulle dita d’una mano ed erano troppo intenti al proprio guadagno per occuparsi di politica. Per questo in città contavano le famiglie nobili, e le abbazie con le loro estese proprietà nel contado.
Evidentemente, pensavano tutti, era Guelfo che non si rendeva conto di dove fosse capitato.
Ma lui tirò dritto, anche se presto dovette prendere atto che nessuno era disposto a seguirlo.
Decise di far da solo: se smuoveva le acque, il popolo, ne era certo, sarebbe stato dalla sua parte.
Comprese subito che il potere reale stava nelle mani vecchie e rugose del Vescovo.
Guglielmino degli Ubertini era stato avviato alla carriera ecclesiastica fin da bambino, per decisione familiare, col duplice scopo di non frazionare il patrimonio e di metter le mani su una fetta dell’immenso potere della Chiesa. Contrariamente a tanti, però, vi si era adattato bene.
Era divenuto Vescovo nell’ormai lontano '48, in seguito ad un barbaro assassinio: il suo predecessore, Marcellino, era stato trucidato dall’imperatore Federico II.
Erano tempi di grandi passioni e le famiglie ghibelline approfittarono del momento per imporre l’elezione di uno di loro. La scelta cadde appunto sul giovane Ubertini, che era allora, non ancora trentenne, arcidiacono della cattedrale.
Le cose, all’inizio, non furono affatto facili, per il nuovo presule: il clero e il comune, sobillati dalle famiglie guelfe, gli impedirono di entrare in città.
Guglielmino cercò di pacificare gli animi, a cominciare dalla Chiesa, e propose l’unione tra il capitolo della pieve e quello della cattedrale, protagonisti da sempre di un’accesa rivalità.
Ciascuno dei due collegi s’arrogava il diritto di rappresentare la Chiesa cittadina: i canonici di cattedrale si stimavano consiglieri del vescovo, e quindi sede della legittima autorità, titolari insomma della cattedra; quelli della pieve di Santa Maria, chiesa battesimale di città e quindi luogo principale della devozione popolare, si reputavano i veri rappresentanti della comunità dei credenti. La cattedrale custodiva il corpo del patrono san Donato, la pieve ne conservava la testa.
I due capitoli rifiutarono la mediazione e lui si rivolse al papa, che gli chiese di favorire i guelfi. Lo fece, ma provocò la reazione violenta dei ghibellini, che nel '52 assalirono e distrussero il suo castello di Civitella. Costretto a rifugiarsi in Casentino, pensò allora di intraprendere trattative segrete con Firenze.
Due anni dopo s’arrivò alla stipula d’un patto che finalmente gli aprì le porte della città. Il papa lo consacrò vescovo di Arezzo dopo sei anni di scontri e di compromessi: sei lunghi e sofferti anni, ma da quel momento nessuno fu più in grado di fare a meno di lui. Sfruttò abilmente gli odî atavici tra le fazioni e divenne in breve l’ago della bilancia della politica cittadina.
Dopo trent’anni, nel 1285 era ancora saldamente al potere, e dunque il lucchese cominciò proprio da Guglielmino, cacciandolo di città.
Con lui diede il bando al nobile Tarlato dei Tarlati di Pietramala, capo del partito ghibellino, e a Rinaldo dei Bostoli, primo tra i guelfi aretini.
Una lunga serie di leggi imposizioni gravami e tasse raggiunse gli altri nobili che, per restare, dovettero rinunciare ad ogni privilegio e sottostare ad una vera e propria persecuzione.

Due anni dopo, in una tranquilla giornata di inizio giugno del 1287, Rinaldo de’ Bostoli stava uscendo a cavallo dal suo castello di Lorenzano, posto a guardia sul fiume Arno e su chi scendeva in riva destra dal Casentino verso Arezzo. Il fortilizio, rifugio per quando aveva voglia di mollare gli intrighi cittadini, dopo il bando era diventato il suo ritiro forzato e lui spesso dava sfogo ai malumori cavalcando lungo il fiume e nei boschi.
Era già in sella quando gli annunciarono l’arrivo d’un cavaliere con scorta e vessillo dei Tarlati di Pietramala. Gli andò incontro, più che altro per non esser costretto ad offrire ospitalità ad un ghibellino.
«Salute, messere, state bene?» s’informò con freddezza.
«Starei meglio» ribatté Tarlato spicciativo, «se non fossi esiliato e non udissi dei provvedimenti presi dal priore contro di noi». Due occhi ostili si fissarono su Rinaldo, quasi fosse il responsabile dei propri guai. «Ogni giorno un nuovo bando, studiato per renderci la vita impossibile. L’ultima è di ieri: l’editto che obbliga a mozzare le torri più alte di cinquanta braccia, proprio come a Firenze!».
«Siamo tutti nelle medesime condizioni»
«Già». Tarlato sembrò ricordarsi che anche il Bostoli era esiliato. «Non si può dire che Guelfo, a dispetto del proprio nome, mostri riguardi per la vostra parte politica». Un risolino malevolo gli piegò gli angoli della bocca.
«Occorre far ragionare il lucchese»
«Suvvia, nobile Bostoli, come volete che il priore accetti di cambiare i suoi bandi? Vi sembra forse persona accomodante? Conviene piuttosto agire con decisione». Avvicinò il cavallo e si sporse dalla sella: «Dovremo farlo insieme. Guelfo colpisce tutti i nobili e tocca all’intera nobiltà metterlo a tacere. Sapete come si dice: chi a molti dà terrore, di molti abbia timore».
Rinaldo buttò l’occhio verso la valle e assentì: «Quello che va fatto si farà».
Tarlato, lavorando di briglia, voltò l’animale: «Siamo intesi, è per stanotte. Salute a voi». S’allontanò al galoppo, seguito dai suoi, alzando un polverone sullo stradello che scendeva all’Arno.

Era l’ora che i contadini chiamavano del cumbrugliume, storpiando l’espressione latina cum umbra et lumen, l’ora, insomma, che ha già visto tramontare il sole ed aspetta che cali la notte. Il Bostoli arrivò al Duomo Vecchio del Pionta al comando d’una trentina di cavalieri, e vi trovò decine di armati in attesa.
Nella cripta la riunione era già cominciata. L’ambiente era angusto, coperto da volte ad arco ribassato rette da una selva di colonne in pietra. La fioca luce delle candele dava al consesso un’aria di cospirazione. Il vescovo Guglielmino stava assiso davanti al piccolo altare e i convenuti, in piedi, erano schierati ai suoi lati, i guelfi di qua e i ghibellini di fronte.
La statua della Madonna pareva a disagio.
Stava parlando il Tarlati: «Siamo pronti. Si è provveduto a disporre armati nei punti strategici, e si son presi accordi coi comandanti della milizia comunale perché ci lascino campo libero. All’ora stabilita, ci verrà aperta la Porta Nova e saliremo dritti al palazzo del popolo»
«Il priore tenterà di scappare» obiettò una voce dal fondo.
Tarlato sogghignò: «Ancora non lo sa, ma in pratica è già prigioniero e le masnade dei nobili rimasti in città gli impediranno ogni fuga».
All’apparir di Rinaldo la discussione s’interruppe. Tarlato l’osservò compiaciuto: il ritardo del Bostoli gli aveva fatto temere un ripensamento, il suo arrivo significava che quella notte si sarebbe tornati in città.
Guglielmino pareva assorto in meditazione. Rinaldo chiese ad uno della parte guelfa: «Avete già deciso chi sarà capitano del popolo, domattina?»
«Non ancora. I ghibellini vogliono la carica per sé e ci lascerebbero il podestà. S’aspettava giusto voi per dare risposta: molti dei nostri sembrano favorevoli alla soluzione».
Quasi avesse udito, Guglielmino osservò: «Non si può decider tutto ora: nei prossimi giorni vi convocherò in Episcopio e vi sottoporrò le mie proposte».
Nessuno in verità si fidava del vescovo, temendo che approfittasse del rivolgimento per imporre una propria signoria personale. Questi però incalzò: «Stasera vi tocca decidere se volete tornare alle vostre case o lasciarle, forse per sempre, al lucchese e ai mercanti. Volete davvero» chiese guardando Rinaldo, «veder abbassate le vostre orgogliose torri?»
Assecondando il presule, ogni sguardo si fissò sul Bostoli, che alla fine mormorò: «E sia».
Uscirono ad organizzar le masnade.
L’operazione fu davvero ben orchestrata: la cattura di Guelfo Falconi risultò facile e quasi incruenta. Denudato e gettato in una profonda cisterna, lo si lasciò morir di fame. Qualche tempo dopo si raccontò pure che gli avessero cavato gli occhi e qualcuno sostenne che la morte lo avesse raggiunto nelle umide prigioni di Civitella. Comunque sia, fece una brutta fine.
Ci fu molto rumore in città, nei giorni successivi, e nelle taverne si discuteva con animazione, prendendo per lo più le parti del prigioniero. Chi sosteneva che non si dovesse lasciar correre un così grave sopruso, chi malediceva i nobili e la loro prepotenza, chi accusava il vescovo di esser l’ispiratore del colpo di mano, e chi invece pensava che Guglielmino fosse l’unico in grado di riportar la pace tra le mura aretine. Nessuno comunque s’azzardò a sfidar le masnade dei nobili.

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