Avevo più o meno
diciott’anni. Nessuno mai m’ha detto di preciso in quale anno son venuta al
mondo. Quando mi
maritarono, tre anni prima, i miei dissero allo sposo che ero una quindicenne.
I registri parrocchiali erano bruciati nell’incendio della sacrestia, e la
memoria non aveva tenuto il conto delle quaresime e delle battiture trascorse dalla mia nascita. Troppi figli, tutti morti piccoli oppure nati morti.
All’epoca delle nozze ero rimasta l’unica, e rammentavano solo che ero nata in
una gelida domenica di gennaio d’uno degli inverni più freddi che ricordassero.
D’altronde, gli
dissero, il marito poteva contare su una ragazza sana, robusta e di fianchi
larghi, che gli avrebbe dato tutti i figli che avesse voluto, senza dote di
denari ma con un corredo di tutto rispetto. La vista delle lenzuola, di canapa
piuttosto grezza ma pur sempre lenzuola, e l’argomento salute convinsero l’uomo
a non sottilizzare sulla mia età. Lui stesso, del resto, assai più vecchio di
me, non sapeva quanti anni avesse.
Erano altre le cose
importanti, soprattutto per chi lavorava un podere piccolo e maledettamente
sassoso, su una collina brulla e senz’acqua. A stento ci ricavava di che tirare
avanti e sperava, sposandosi e facendo dei figli, di convincere i monaci
padroni di quelle terre ad assegnargli un podere più grande e redditizio.
Inoltre la sua
salute negli ultimi tempi s’era guastata e un valido aiuto gli era
indispensabile.
Ovviamente nessuno
s’era preoccupato della complessione di chi mi chiedeva in moglie. M’avevano maritata,
m’ero trasferita sulla collina arida, e avevo conosciuto la fame.
Presi la decisione
subito, durante quel primo, interminabile inverno, col consenso di mio marito.
Sarei andata al mercatale, giù al piano, una volta alla settimana, a vendere
l’unica cosa che avessi: il mio corpo.
Mi aveva convinta
una vecchia che viveva sola in una capanna poco distante. “Lo fanno in tante”
m’aveva detto incontrandomi al fiume. “Lo farei anch’io, se avessi la tua età.
L’onestà è un lusso, cara mia. Se non vuoi andare al mercatale, vai dal prete
che t’ha maritata: ne sfama diverse, quello!”
Del prete avevo
soggezione e perciò andai al mercatale.
Fu lì che conobbi
l’Adele, e diventammo amiche. In qualche occasione lavorammo pure in coppia.
Sopravvissi
all’inverno, cosa che non riuscì a mio marito, morto di polmonite prima di
Pasqua e prima di riuscire a ingravidarmi.
“Meglio così” mi
dissi.
A tornare dai miei
mi vergognavo e quindi rimasi sulla collina. Nessuno richiese quella terra
sassosa ai monaci, che mi lasciarono lì come atto di carità. Per parte mia
presi a frequentare l’abbazia, pagando con i miei servigi l’affitto del podere.
Nel chiuso delle
loro celle, i monaci non erano molto diversi dai contadini o dai braccianti che
mi prendevano nei fienili o sugli argini dei fossi. In genere erano meno virili
e più delicati, le mani meno callose e i modi più gentili, ma le richieste e le
voglie si assomigliavano. Presto imparai a tenere a bada le une e le altre,
limitando i danni. Sceglievo, quando possibile, i più giovani e inesperti,
conversi del monastero o garzoni al mercatale, ragazzi della mia età coi quali
mi pareva quasi di giocare.
Solo da un paio
d’amplessi uscii malconcia, piena di lividi e graffi. E un’altra volta, per
difender la mia verginità posteriore, mancò poco che restassi uccisa dalla
violenza scatenata nell’uomo dal mio rifiuto. Me lo strapparono di dosso un
attimo prima che mi affondasse il coltello nella schiena.
Nel complesso non
mi lamentavo. Non era quella, certo, la vita sognata da bambina, ma non ero cieca.
Vedevo come venivano trattate molte donne oneste. Io, almeno, ero più libera di
loro. A lasciarmi montare avevo presto fatto l’abitudine e non mi importava
più. Del resto, prima o poi, me ne sarei andata via.
E un giorno del ’99
dovetti andarmene davvero. Era cambiato l’abate e quello nuovo, un eunuco
grasso e viscido, mi cacciò dall’abbazia e dal podere, allontanando con me
tutte le altre donne che allietavano la noiosa vita dei monaci. Sarebbe stato
per poco, lo sapevo, ma intanto dovevo trovare dove vivere, e così mi ritrovai
nel campo fiorentino che assediava Pisa.
L’Adele venne con
me, pensando entrambe ad un breve e redditizio diversivo. Ma non andò così.
La brutalità dei
soldati e l’odiosa disciplina d’una mezzana acida lasciarono il segno. La fottuta
cortigiana requisiva tutto quello che le sottoposte riuscivano a guadagnare,
soldi o regali che fossero, facendo frustare chi tentava di sottrarle qualcosa.
Per di più dovevamo ingoiare la stessa brodaglia della truppa, perfino quando
scoppiò la pestilenza.
L’assistenza coatta
a Vitellozzo fece traboccare il vaso della mia sopportazione. Quando lo vidi
fuggire pensai che quello era, anche per me, l’unico modo di tornare a vivere.
Quando poi lo stesso Vitellozzo mi riprese sul Lungarno, il mondo mi crollò addosso.
Maria è bella, pensò Tarlatino guardandola
pettinarsi alla finestra dell’alloggio di Vitellozzo, nella cittadella di Pisa,
con una punta d’invidia per il suo signore. Un viso regolare, occhi grandi e
neri, un seno generoso, piedi eleganti e caviglie ben tornite. Trovava
irresistibile il suo sorriso triste, attraenti i suoi fianchi rotondi e
soprattutto l’incarnato candido, chiaro come la luna.
Una cortigiana perfetta, con un po’ d’esperienza in
più, se non fosse per quello sguardo indomito che non riusciva a dissimulare.
Non altero, no, né provocante: semplicemente libero. Nessun uomo avrebbe mai
avuto la certezza di soggiogarla. Nessuno, Tarlatino ne era certo. Neppure
Vitellozzo. Ci si poteva divertire, sfogare su di lei le sue voglie, ma non
sarebbe riuscito a diventarne padrone.
Si possono comprare le prestazioni di Maria, ma non
si può comprare Maria. Maria non sarà mai una cortigiana. Tarlatino sorrise:
c’erano cose che nemmeno Vitellozzo poteva avere, e quella donna gli sarebbe
sfuggita.
Bastarono meno di due mesi perché la sua profezia si
avverasse.
Non era ancora
l’alba quando entrai di soppiatto nella tenda delle donne, al campo fiorentino.
L’Adele intingeva il lembo della veste in un bacile d’acqua, passandolo sui
graffi ancora freschi che le arrossavano la parte interna delle cosce, lascito
dell’ultimo incontro con uno dei marrani all’assedio di Pisa. Le striature
sanguinavano e l’acqua bruciava, facendola rabbrividire ad ogni passaggio.
Chissà perché con lei erano sempre più cattivi che con le altre? Forse perché
non era più giovane e attraente, o per lo scarso entusiasmo con cui li lasciava
fare, pensando ad altro mentre lo sconosciuto di turno si affannava su di lei.
Quasi tutti s’arrabbiavano, offesi dalla sua indifferenza, e diventavano
violenti. Lei lo sapeva, ma non poteva farne a meno. Estraniarsi era l’unica
difesa della sua mente dall’abbrutimento.
Alzò gli occhi
quando mi frapposi tra lei e la fioca luce dell’unico lume che rischiarava il
padiglione delle donne. Ero completamente nuda. Strabuzzò gli occhi: “Maria!”
Mi accucciai
accanto a lei: “Non gridare, per favore. Nessuno mi ha vista. Non voglio
restare, ma mi serve qualcosa da mettermi addosso”.
Ero fradicia e
coperta di fango. La pioggia, come capita, s’era fatta prima desiderare ed ora
continuava ininterrotta da settimane.
“Sono scappata da
Pisa. M’aveva ripresa Vitellozzo ma l’avevo giurato: piuttosto morta che
schiava d’un simile animale”.
Ero scossa dai
brividi. Mi porse un telo.
“Tieni, asciugati o
ti prenderai un malanno. So io dove trovare una veste: la mezzana è fuori a far
compagnia a qualche pezzo grosso e neppure s’accorgerà se manca un indumento
dal suo deposito”.
Tornò quasi subito.
M’infilai la veste, la strinsi in un abbraccio e cominciai a piangere. Lei mi
cinse le spalle, mi adagiò nel suo giaciglio e cominciò a carezzarmi, riuscendo
a farmi ritrovare un po’ di calma.
Allora mi alzai:
“Devo andare, prima che faccia giorno. Se torna la mezzana son persa”
“Ma dove andrai?”
“Torno a casa”.
Mi sorprese l’assurdità
della frase. Avevo una casa? No che non ce l’avevo, ma pensavo sempre al
piccolo podere sulla collina ed ero sicura che i monaci mi avrebbero accolta.
Era l’unica casa che avevo avuta ed era lì che volevo tornare.
“Torno a casa”,
ripetei.
L’Adele mi fissò a
lungo. Poi decise.
“Vengo con te”.
Fece un fagotto
delle sue misere cose e sgusciammo fuori.
Il buio era appena
attenuato da un vago chiarore, verso levante, e non pioveva più.
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