Tutto cominciò nel
mese di settembre del 1499. A quel tempo non si può dire che fossi una signora, e
infatti mi trovavo tra i soldati del campo fiorentino che assediava Pisa.
Un’estate infinita
stendeva la sua cappa opprimente sulla piana, affogando nell’afa l’accampamento
assalito dagli insetti. Mosche e zanzare avevan portato le febbri insieme ai
miasmi delle paludi, il sudore appiccicava le vesti alla pelle e la canicola
piegava le ginocchia anche ai più forti. Non c’era ombra che offrisse
refrigerio né acqua sufficiente a placare l’arsura. Prima della fine d’agosto
parecchi soldati eran già morti e in tanti giacevano malati. Molti chiedevano
di levare l’inutile assedio e che si portassero al sicuro gli uomini sconfitti
dalla calura.
Gli occhi sbarrati
di Vitellozzo Vitelli fissavano le inerti velature del padiglione, e non
giungeva ad animarle brezza marina; il volto, già brutto di suo, era stravolto
dai ripetuti attacchi di quartana, incorniciato da un intrico di capelli
untuosi e sormontato da un naso imponente e sporco; un filo di bava scendeva
dal suo labbro anche quando la febbre gli dava tregua; la pelle, solitamente
bianca, aveva preso un color marcio e mostrava i segni di mille punzecchiature;
luride grinze percorrevano il collo taurino, e le sue gambe penzolavano molli
dal saccone su cui era disteso con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Solo
le dita parevano aver forza, impegnate a tormentare le nostre carni pazienti.
Eravamo in due,
nude, sedute al bordo di quel letto sfatto, e lo lasciavamo fare, incapaci
d’ingoiare il ribrezzo per le sue brache sudice e puzzolenti.
Spesso delirava.
“Dove sei andata,
fortuna fottuta!? Che t’abbiamo fatto, volubile donnaccia, per abbandonarci
così di botto, dopo averci ubriacato per anni coi tuoi sorrisi? A che è servito
prendere Stampace?”
Ormai non sapeva
più neanche dare un senso alla domanda che lo assillava da giorni. Ci sono
imprese maledette e in nessun’altra il demonio aveva messo la sua zampa di
caprone più che in quella di Pisa. Eppure era cominciata nel migliore dei modi.
Ai primi di agosto s’erano impadroniti del forte di Stampace, di faccia alle
mura.
“Volete un esempio
più chiaro di assedio ben fatto?” ci diceva come fossimo suoi compagni d’arme o
giudici del suo operato. “Stampace cade subito, all’alba della notte di San
Lorenzo. Nell’assalto d’un giorno di coraggio e di gloria siamo padroni del
forte che difende la città, e tutto sembra facile: un gioco piazzarvi sopra
falconetti e passavolanti a tirar sulle mura, che van giù come fossero di
carta, quasi senza difesa. Facile. Troppo, per esser vero”.
S’interrompeva
spesso, ansimava, tossiva, sputava.
“I Pisani eran
venuti in fama d’eroici difensori. Ci voleva un indovino per creder che fossero
fuggiti dalla città al primo assalto. Così ci fermammo, e i pisani tornarono”.
Un brivido freddo
gli corse per il corpo grande e sgraziato e dalle sue dita si trasmise alle
nostre sciagurate schiene.
“Dicono siano state
le donne a spingerli a riprender la difesa: per prime s’erano accorte della
nostra esitazione. Prudenza, calcolo, strategia. Che fine han fatto le migliori
virtù militari, sulle quali per anni abbiamo costruito la nostra fama? Dissolte
anch’esse al caldo, nell’aria marcia si son mutate di colpo in viltà e
sospetto. I commissari fiorentini insistevano a chieder ragione del perché non
s’era presa la città, e come mai ci s’era fermati, e quali intenzioni s’avesse”.
Un’orrenda
bestemmia si dissolse in un rantolo.
“Pisa sarebbe
caduta lo stesso, non lo vedevano da sé? Non capivano che era questione di
giorni? Le mura andavan giù braccio dopo braccio, e a poco valevano comunque le
difese. Forse la partita si poteva aver già chiusa, ma ad ogni modo sarebbe
stata nostra. Per qual motivo sacrificare decine o centinaia di uomini in un
assalto cieco, se il tempo era nostro amico?”
Guardai muta
l’Adele e poi tornai a fissare il malato, cercando d’interpretare la smorfia
che gli aveva piegato le labbra rinsecchite.
“Firenze ha
richiesto i servigi dei Vitelli perché siamo i migliori, e dunque di che teme?
Ci ha pagati cari, è vero, ma dove trovano, in Italia, compagnia o capitano
alla nostra altezza? A che pro punzecchiarci ogni giorno, più noiosi delle
zanzare? Alla fine non se ne poteva più. Quando al campo è arrivata voce che
nei palazzi di Firenze si rincorreva la parola tradimento, mio fratello Paolo
disse va bene, attacchiamo”.
S’acquetò, e anche
le sue mani mollarono la presa. Pareva dormisse, ma poi il soliloquio riprese.
“La fortuna però
aveva altri progetti. Chissà da quanto covava, il morbo. Son bastati due
giorni, e s’era di più nel letto che in piedi. Arrivarono i rincalzi, tanti, ma
appena giunti il contagio se li prendeva. Se i pisani si fossero accorti… L’unica
era portare il campo in un posto più sicuro, sulla via della marina, ad
aspettar che le piogge lavino via queste maledette febbri”.
Seguivamo il vagare
delle sue orbite lucide, e le frasi sconnesse. Le cose che diceva erano
risapute, nel campo. Che ci potevamo fare, noi? Oltretutto nessuno ci avrebbe
pagate per quel servizio ributtante.
Biascicò:
“Maledetta fortuna, quando si mette al brutto non è mai sazia! Imbarcammo le
artiglierie per mandarle in salvo a Livorno, ma sono andate a fondo, e con loro
quel che rimaneva delle nostre speranze. Non basta: una sortita pisana ci ha
tolto la torre di guardia alla foce dell’Arno e insieme ha recuperato dai bassi
fondali i nostri cannoni. Non vorrei esser nei panni di mio fratello Paolo,
chiamato in Càscina dai fiorentini, a render conto dell’incredibile rovescio”.
Una mosca
insistente si nutriva all’unto del suo sudore. Lo commiserai: ancora non sapeva
che il fratello era stato condotto a Firenze in ceppi con l’accusa di alto
tradimento.
“Messer Vitelli,
dovete venir con noi”.
I Commissari non
chiedono mai permesso quando entrano nelle tende o nei padiglioni, e non ne
chiese Antonio Canigiani, che apparve all’improvviso e si piantò dritto a piè
del letto. Con un cenno ci scacciò, e non ci parve vero d’interrompere quel
supplizio. Andammo a rannicchiarci per terra, nell’angolo più lontano. Accanto
al Commissario quattro soldati, e un passo dietro la faccia nota di Tarlatino
da Città di Castello, fido compagno di Vitellozzo, che tante sere ci aveva
tenuto compagnia nel padiglione del suo capitano.
Il rimontar della
febbre non impedì al malato d’intender le parole del fiorentino: «Non fate
storie, siete richiesto anche voi in Càscina». La debolezza gli permise di
muover gli occhi quel tanto che occorreva per cogliere i gesti disperati
dell’amico là dietro, che gli faceva cenno di no, non doveva andare, e incrociava
i polsi ad indicar la sorte del fratello Paolo, la stessa che sarebbe toccata a
lui se si lasciava prendere.
E’ incredibile la
forza che ti può dare la percezione del pericolo. Vitellozzo chiese aiuto per
tirarsi a sedere, asciugò con la coperta la bava rafferma intorno alla bocca,
sputò per terra catarro e umori, e infine disse con un fil di voce: «Vedete da
voi come la quartana m’ha ridotto».
Davvero non era
bello da guardare ma il Canigiani non cedette al ribrezzo: «C’è un carro
pronto».
Con un’occhiata
Vitellozzo tentò di rassicurare l’amico, mentre replicava al fiorentino: «Va
bene, vengo. Ma cavalcherò, dovessi morire. Lasciate solo che mi vesta»
«Fatelo»
«Da solo. Sono il
capitano di questo campo»
«E sia. Son qui
fuori. Sbrigatevi, però».
Uscito il
commissario, Tarlatino si portò l’indice alla bocca, a gesti sollecitò
Vitellozzo a lasciar perdere i vestiti, spinse gli attendenti a prenderlo di
peso, si slanciò verso il fondo del padiglione e ne tranciò col coltello la
robusta tela.
Uno sguardo per
assicurarsi che non ci fosse nessuno in giro e sparì fuori. La via era libera e
fece uscir gli altri. Dalla parte opposta arrivarono rumori concitati. Le
guardie del Canigiani erano alle prese con un gruppo di soldati ubriachi che li
invitavano a bere, in verità bloccandoli sul posto, commissario compreso, che
in breve sospettò e poi capì: rientrò nell’alloggio, vide il varco, corse e vi
penetrò, ma uscì sullo spiazzo deserto.
Un po’ più in là un
folto gruppo di cavalieri al galoppo scappava dal campo in direzione di Pisa.
Buttato di traverso alla sella del suo cavallo condotto da Tarlatino,
Vitellozzo si sottraeva nudo all’ira dei signori del giglio e alla fortuna
nemica.
Le bestemmie del commissario perdevano rabbia e fantasia man mano che si allontanava verso il
padiglione di comando.
Nella tenda di
Vitellozzo rimanemmo solo noi due, strette in un abbraccio.
Poi l’Adele, più
vecchia e fredda di me, che non doveva avere più di trenta o trentacinque anni
ma pareva sfiorita e portava nella carne i segni d’innumerevoli percosse,
strisciò a recuperare le nostre vesti. Mentre s’infilava la sua, sporca e
lacera, mi toccò piano la spalla.
Io tremavo, le
braccia intorno alle ginocchia.
Senza parlare m’invitò
a seguirla. Era ora di tornare alla tenda delle donne, ai margini del campo,
prima che qualche armigero ci scoprisse lì e decidesse di approfittar
dell’occasione: eran sempre pronti, quei maledetti, a prendersi una donna, con
le buone o con le cattive. Dicono sia la guerra e la paura di morire, o il
bisogno di sentirsi forti, o magari l'ossessione di sottomettere qualsiasi cosa
animale o persona si dimostri debole.
Comunque era meglio
andarsene in fretta.
Ma io non mi mossi.
Mi toccò di nuovo. Scrollai le spalle. Mi tirò per un braccio, guardandomi
implorante. Alzai la testa, la guardai a mia volta e le feci cenno di no, che
non l’avrei seguita. Insistette e io mi levai, ma non per andarle dietro.
M’avvicinai invece allo squarcio per il quale era fuggito Vitellozzo, la veste
in mano. Mi voltai un attimo e muta le dissi basta, me ne vado, scappo anch’io,
non ne posso più. Poi corsi via.
«Maria!…»
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