giovedì 19 marzo 2020

CAPITOLO 9 - FIRENZE: NICCOLO' MACHIAVELLI SCRIVE

Siccome ogni potere ha sempre dei nemici e lascia scontenti quelli che ne rimangon fuori, non resta, a chi voglia attaccarlo, che cercar di mettere insieme chi ha le stesse mire, per i medesimi o sia pur diversi motivi. Tale era la situazione di Firenze e di chi vi aveva messo gli occhi sopra, nei tempi turbolenti che accompagnavano l’inizio del XVI secolo.
In città discussioni liti e intrighi erano il tarlo quotidiano d’una Repubblica determinata a disfarsi dei Medici, ma non abbastanza forte da imporsi sull’intera regione, dove il pane amaro degli esiliati, insieme alla fame dei soggiogati e alla paura dei vicini alimentavano propositi di rivolta, focolai di ribellioni e piani d’attacco.
I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere, e che ogni altra via sia pericolosissima.
Messer Niccolò Machiavelli meditò su questa frase mentre chiudeva il tomo con le Storie di Tito Livio. Poggiando i gomiti sul bordo del leggio e il largo mento sul dorso della mano, si godette il senso di appagamento che la lettura dei classici ogni volta gli trasmetteva. Un sorriso compiaciuto piegò all’insù la fessura sottile delle labbra, attenuando la sporgenza degli zigomi. Il pomo arrossato del naso gli conferiva un’aria beata, quasi avesse ecceduto nel bere.
Doveva scriverne ai Dieci di Balìa, pensò, perennemente incerti sul trattamento da riservare ai popoli di Toscana. Ma un’ombra passò sul suo viso, mentre posava gli occhi su una delle pergamene abbandonate sopra lo scrittoio. Lisciandosi sulla nuca i capelli tagliati all’ultima moda, si domandò se davvero sia possibile dar carattere e determinazione a chi non ne ha. Quanto eran lontani, per san Giovanni, i bei tempi di Lorenzo! Abile diplomatico all’estero, magnanimo ma deciso nel governo della città, il Magnifico s’era proprio meritato quell’epiteto. Ripercorse con la mente gli anni di lotte seguiti alla prematura scomparsa del grand’uomo, le trame e gli eccessi che stavano portando Firenze verso il baratro, e facevano rialzare la testa a nemici e sottomessi. Sospirò cacciando i ricordi: troppo triste rammentare nella disgrazia i momenti belli.
Preso il foglio di cartapecora, s’avvicinò alla finestra dello studiolo per rileggere la minuta del suo scritto di un anno prima sulle cose di Pisa. Quanto aveva dovuto penare per convincere il Consiglio della bontà dei propri argomenti. Che riavere Pisa sia necessario a volere mantenere la libertà parevano tutti persuasi, eppure alcuni di loro speravano che, trovandosi i Pisani deboli e abbandonati da tutti, si sarebbero sottomessi volontariamente. Ciechi, a non vedere la pervicacia e la durezza d’animo radicata sotto la Torre Pendente. Rassegnati infine all’inevitabile uso della forza, erano sorti altri a dire che si dovevano prender per fame, con l’assedio, senza riflettere ai lunghi mesi e forse agli anni necessari, e agli alti costi d’una simile impresa. Con pazienza aveva dimostrato loro che un assedio efficace avrebbe richiesto almeno tre campi, e il principale era da mettersi in quel di San Piero in Grado, ma lì è trista aria, dove per avventura, avendovi a stare un campo, si ammaleria.
Alzando gli occhi ai giochi di luce sulle formelle di vetro piombato della finestra, Niccolò considerò amaramente com’era stato facile profeta e quanto i fatti di settembre gli avevano dato ragione. Riportò poi lo sguardo sullo scritto e ne scorse le ultime righe, in cui fissava con chiarezza l’unica via possibile.
…Fare in un subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli, vecchi, ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani vôti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti sarìa impossibile che reggessero…
Com’era logico nessuno aveva trovato argomenti da opporre e così furono assoldate le compagnie dei Vitelli, il meglio che vi fosse in Italia. Ma la spedizione, nata con tante remore, non fu condotta con miglior determinazione.
Gettando di nuovo il foglio sullo scrittoio, il segretario crollò il capo: il destino dell’impresa era segnato, viste le premesse, e non fu certo giustizia addossare ogni colpa ai condottieri. A cos’era servita la decapitazione di Paolo Vitelli, se non a sviare su di lui l’ira del popolo, altrimenti diretta sul Consiglio e sulla sua inettitudine?

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