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La
storia della nuova Cattedrale era cominciata tredici anni prima, nell’anno del
Signore 1275, nel mese di dicembre, nel giorno ventesimo che cadeva di venerdì. Intorno
all’ora terza la notizia dell’arrivo in città di Papa Gregorio X rimbalzò tra
vicoli e contrade, venne annunciata sui portoni e dalle finestre, gridata nelle
piazze, ripetuta nelle botteghe, proclamata dai tamburi degli araldi.
Quella
mattina il sole s’era levato su un cielo limpido, promettendo una giornata
fredda ma serena. Nella piana di Arezzo i campi erano coperti di neve, che
nelle vie cittadine si trasformava in fanghiglia, disperazione dei passanti ma
occasione di gioco per i ragazzi. L’agitazione era al massimo, specie nelle
chiese e nei conventi. Le campane della città dondolavano festose.
Il
convento di San Marco sorgeva di lato al Murello, un basso resto delle vecchie
mura, fondate a loro volta sui ruderi dell’antica cinta etrusca, in cima alla
Ruga Mastra. Fra Giacomo s’era affacciato all’uscio, badile in mano per spalare
la neve, e si godeva lo scampanio.
«Fra
Giacomo, il Padre Guardiano vi cerca!»
Il
frate, dal faccione bonario e la pancia rotonda che riempiva il saio fino a
tirarne le fibre, si diresse agitato verso lo studiolo del superiore.
«State
tranquillo, non ho da rimproverarvi! Voglio solo comandarvi in trasferta. Il
vescovado ci ha chiesto un frate per aiuto durante la permanenza del Pontefice:
andate e mettetevi a disposizione del cerimoniere».
Il
Papa tornava a Roma dopo aver presieduto il Concilio di Lione, ma durante il
viaggio s’era ammalato. Da alcuni giorni era ospite della Badia di Campoleone,
poche miglia da Arezzo. Guglielmino, che aveva partecipato al Concilio guadagnandosi
la stima del Pontefice, era andato a rendergli visita, e visto il suo stato di
salute aveva insistito perché si trasferisse in città.
«Il
mio medico vi curerà», gli aveva detto.
Arrivò
in un pomeriggio chiaro e freddo. Gran folla di popolo lo accolse alla Porta
del Foro e lo accompagnò, in processione solenne, fino alla Pieve di Santa Maria.
Il
cerimoniale prevedeva una sosta e Gregorio, malato o no, venne messo di peso su
di un tronetto e portato a braccia dentro al tempio, fino in cima alla
scalinata del presbiterio, dove assistette ai Vespri solennemente cantati.
Alla
fine Gregorio raccolse le poche forze, impartì la benedizione e poi la sedia
tornò a farsi strada tra la calca. Tra i viva!
gli alleluia! e gli osanna! lo portarono fin sul colle di
San Pietro.
Arrivò
all’Episcopio così stremato che lo misero subito a letto, e non poté partecipare
alla cena imbandita in suo onore.
Intorno
alla tavola si parlò naturalmente della sua salute.
«Questi viaggi, alla sua età!» diceva un Cardinale.
E un
altro: «Ne ha di tempra, però!»
Il
terzo, l’anziano Pietro di Tarentaise, era il più preoccupato: «Ma il freddo,
la stagione: Gregorio deve aver più cura di sé».
Tutti
lo guardarono con deferenza. Frate dell’ordine di San Domenico e per due volte
provinciale di Francia, insegnava teologia all’università di Parigi nella cattedra
che era stata di Tommaso d’Aquino. Aveva fama di dottore e di santo.
Intervenne
Guglielmino: «E’ vero, eminenza, e soprattutto ora, dopo il Concilio. A Lione ha
imposto al clero una disciplina che molti non accettano».
Tebaldo
Visconti da Piacenza era arcidiacono di Liegi e legato pontificio in Terra
Santa quando, dopo più di tre anni di liti tra i Cardinali, fu chiamato al
Soglio di Pietro per risolvere una situazione divenuta drammatica.
Viterbo
fu teatro del più lungo concistoro che la storia della Chiesa ricordi.
Dopo
infinite discussioni a vuoto, un giorno di marzo del 1270 gli abitanti di
Viterbo, col Podestà in testa, persero la pazienza e chiusero a chiave i
porporati nel salone del palazzo papale. Non contenti, arrivarono poi a murare
le porte e fecero scoperchiare il tetto dello stesso salone, per far scendere
su di loro lo Spirito Santo, come disse qualche maligno.
Dopo
altri mesi inutili, i testardi viterbesi razionarono il cibo ai cardinali,
finché qualcuno si ammalò e due addirittura morirono. Fu a quel punto che
s’impose il consiglio di Bonaventura da Bagnoregio: eleggere uno che non fosse
cardinale.
E
spuntò il nome del Visconti.
Neanche
la mattina dopo il Papa fu in grado di alzarsi. Fra Giacomo gli portò in camera
un decotto di mele cotogne per abbassare la febbre, ed un bicchiere di vino
speziato.
Stava
sistemando sulla augusta fronte un panno imbevuto in aceto rosato, per
alleviare la forte emicrania che lo affliggeva, quando entrò Guglielmino.
«Come
state, Santità?»
«Dio
ti benedica, caro Ubertini. La stanza è calda e il letto comodo, ma la febbre
resta e mi sento sempre più debole».
«I
medici dicono che il riposo vi gioverà e stanno già preparando gli infusi che
vi scioglieranno gli umori cattivi»
«Sarebbe
ben triste non portare a termine l’opera cominciata a Lione»
«Il
Concilio è stato un successo: siete riuscito a far venire anche i cristiani
separati d’oriente!»
«Certo,
certo. Ma come possiamo chieder loro unità se le divisioni devastano il corpo
stesso della Chiesa?»
«Lo
so, purtroppo. Ho dovuto lottare anch’io, per mettere ordine nella mia diocesi»
«Mi
pare, caro Ubertini, che la nostra Chiesa sia ridotta come la vostra misera
Cattedrale». Tossì di nuovo, guardando, oltre la finestra, la facciata del vecchio
duomo di San Pietro.
Il
Vescovo abbassò la testa, colto nel vivo d’una antica ferita.
«E’
il mio cruccio, Santità».
S’avvicinò
alla finestra: «Ne sogno al suo posto una nuova, grande, nello stile dei Goti!»
«Mio
caro Ubertini, hai proprio ragione ed io voglio ricompensare la tua calda
accoglienza».
Allungò
la mano alla campanella sul comodino per chiamare il suo segretario: «Disponi
per un lascito di venti, anzi no, di trenta mila fiorini d’oro perché si faccia
una nuova Cattedrale in Arezzo»
“Trenta
mila!?” non si può dire se fosse maggiore la sorpresa dipinta sul volto di
Guglielmino o lo stupore di fra Giacomo. Trenta mila! Ma quanti sono? Il frate
non riusciva neppure ad immaginarli.
Mentre
il segretario scriveva, il Vescovo si riprese: «Santità, questo è un grande Natale,
per Arezzo!»
«Pregate
e fate pregare per il Papa».
La
tosse lo scosse ancora e l’affanno gli rendeva penoso il parlare: «E usate i
denari per la gloria di Dio!»
Le
campane di Arezzo suonarono per ringraziare il Signore e il Papa del grande
annuncio: la popolarità del Vescovo Guglielmino era alle stelle.
Si
pregò perché Gregorio guarisse, e si fecero processioni e digiuni e penitenze e
offerte e voti, ma la salute del Pontefice non migliorò. S’aggravò anzi, di
giorno in giorno, fino al venerdì dieci di gennaio, tre settimane esatte dopo
il suo arrivo.
Poco
prima di vespro le campane di Arezzo cominciarono a suonare a morto.
La
Salma fu vegliata tutta la notte e poi, di buon mattino, rivestita del solenne
abito pontificale, fu composta su una nuda tavola di legno d’abete e traslata
in Cattedrale.
Quindi
il Vescovo uscì a cavallo sul sagrato e parlò al popolo: «Nobili, signori e
popolo tutto! Come sapete Papa Gregorio ha voluto donarci i mezzi per costruire
una nuova Cattedrale. Ora che è tornato alla Casa del Padre, ci carica di un
altro onore e chiede alla nostra città un grande sforzo: l’assemblea dei Cardinali
che dovrà eleggere il nuovo Papa si terrà in Arezzo!»
Ai
tre Cardinali che erano al seguito del Papa se ne aggiunsero in pochi giorni
altri dieci, fatti avvertire in fretta.
Secondo
le nuove regole, dettate a Lione dallo stesso Gregorio per evitare che si
ripetesse l’indegno spettacolo di Viterbo, il ventuno di gennaio furono chiusi
a chiave nel salone dell’Episcopio e iniziò il primo Conclave ufficiale della Storia.
Durò
poco, stavolta. Quello stesso pomeriggio fra Giacomo, che vegliava dietro la
porta sbarrata per sopperire ad ogni bisogno dei prelati, udì battere
all’uscio: «Aprite,
Habemus Papam! Abbiamo il nuovo Pontefice!»
Fuori,
la folla corse di nuovo al colle di San Pietro, e si aprì la finestra di mezzo
del salone. Il Cardinal Decano s’affacciò a dare l’annuncio con voce
tremolante:
«Habemus Papam! Innocentium Papam Quintum! Sanctae Romanae Ecclesiae
Cardinalem Petrus Tarantasiae!»
I Cardinali avevano eletto il nuovo pontefice alla
prima votazione, confermando nei fatti la bontà delle nuove regole.
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