giovedì 26 marzo 2020

CAPITOLO 14 - AREZZO, FEBBRAIO 1502

Nerone non si sedeva mai, tranne quando entrava nella basilica di San Francesco.
Lo davano per uomo brusco e pratico, rozzo quasi, ma quando si recava in città, qualunque fosse il motivo che ve lo portava, prima ancora di raggiungere casa sua, immancabilmente si dirigeva alla chiesa dei Francescani, e questo da quando vi aveva scoperto le pitture a fresco di Piero dal Borgo, lo stesso della sua Madonna gravida. Seduto sulla panca, ogni volta al medesimo posto, si fissava a contemplare i grandi quadri con la storia della Vera Croce.

All’inizio gli riusciva incomprensibile la complessa logica della composizione: nell’immobile solennità delle scene, si beava della visione di quei corpi, mirabilmente resi in pose drammatiche eppur composte, che quasi pareva uscissero dal muro e gli venissero incontro, tanto eran veri. Lo abbacinava la vivezza dei colori, lo stupiva la ricchezza dei panneggi e si lasciava incuriosire da un’infinita varietà di particolari. Poi tornava a soggiogarlo la vastità dell’opera.
Chi lo conosceva si sarebbe stupito nel vederlo là, eppure la curiosità era parte del carattere di Nerone, come un’intensa, involontaria attrazione per il bello.
La prima volta vi era entrato per caso, fuggendo un violento acquazzone, ed aveva conosciuto Baccio dei Bacci, un ragazzo che s’era messo a fissarlo con interesse.
«E’ stato mio nonno» gli disse dopo un po’, avvicinandosi.
«Cosa?»
«Mio nonno. È lui che fece dipingere gli affreschi, coi denari lasciati dal padre di suo padre. Sulla cappella, vedete, la mia famiglia ha patronato da sempre, e il mio avo…»
Si sedettero e sul racconto del ragazzo nacque un’amicizia. Altre volte poi si ritrovarono, rimanendo insieme a fissar l’opera di Piero.
Li notò un vecchietto affabile, frate minore, perennemente indaffarato a mantener pulita la chiesa, che prese a raccontar loro la storia del Legno di Cristo, oggetto degli affreschi, dimenticando per un po’ le sue faccende e sedendo anche lui sulla panca. Il fraticello aveva imparato a memoria la Legenda Aurea del beato Jacopo da Varagine, e dava soddisfazione alle mille curiosità dei giovani. Nell’estate del 1464, lasciata al mondo una giovane vita insulsa, s’era messo a servire l’Ordine di San Francesco, e quando era entrato per la prima volta nella chiesa si stavano smontando i ponteggi che per anni avevano ingombrato la cappella e sostenuto l’immane lavoro di Piero e dei suoi aiutanti. A quasi quarant’anni da quel giorno, l’arzillo frate ricordava bene la gran festa che s’era fatta intorno al pittore e l’interminabile processione di chierici di nobili e di curiosi d’ogni ordine sociale che era sfilata sotto quelle pareti dipinte, col naso all’insù e la bocca aperta.
«Ma fin d’allora» ripeteva con orgoglio, «quando la sera dopo compieta anche i monaci si ritirano nelle loro celle, la Regina di Saba e Salomone e Adamo diventano solo miei, che mi trattengo a rassettare la cappella e preparare il leggio per la funzione di mattutino».
Ben presto l’interesse di Nerone si era circoscritto ai due grandi quadri di battaglia che campeggiano uno di fronte all’altro sulle pareti laterali del coro.
Costantino contro Massenzio per liberare Roma usurpata. Storia antica, ma così viva e attuale nel dipinto. La nobiltà dei cavalieri, la selva di lance elevate al cielo e la forza decisiva di una piccola croce quasi invisibile. Ma soprattutto il vessillo dei vincitori, l’aquila nera dispiegata in campo d’oro, simbolo ghibellino dietro cui si era schierato l’onore d’Arezzo nei secoli gloriosi. E la possanza dei cavalli, evocatrice del cavallo nero inalberato delle insegne cittadine.
Eraclio contro Cosroe per riconquistare Gerusalemme invasa. Battaglia più vera, drammatica, combattuta. Mischia furiosa, spietati corpo a corpo, sangue feriti e moribondi. Il terrore che dilata gli occhi dei combattenti. Ma al centro, alto e solenne, lo stesso vittorioso vessillo, e i medesimi cavalli, scomposti nella zuffa al par dei cavalieri, con loro protagonisti dello scontro.
Eraclio e Costantino. Due storie. Luoghi e tempi diversi, ma lo stesso identico scopo: liberare la propria terra e cacciarne i prevaricatori.
E Nerone sognava. Entrava nel quadro cavalcando il nero cavallo aretino, si gettava nella zuffa a dar man forte ai soldati di Eraclio, a menar fendenti e spaccar le zucche dei Persiani. Anzi, era lui stesso Eraclio: ordinava, incitava combatteva per la sua Gerusalemme. Poi balzava nel quadro di fronte a godersi la gloria di Costantino vittorioso e la fuga di Massenzio, marciava alla testa dei suoi cavalieri portando l’aquila ghibellina. Ma Nerone non era un visionario che si perde in fantasie, e tornava subito al presente della sua città.
Arezzo, nel 1502, non era bella a vedersi. Cent’anni di dominio fiorentino avevano ridotto allo stremo la maggior parte dei suoi abitanti, le nobili abitazioni delle famiglie cadute in disgrazia erano ormai scheletri fatiscenti di pietre annerite, mentre la fame e il puzzo tenevano compagnia a chi abitava le misere catapecchie dei quartieri popolari. Agli angoli delle vie le fila dei mendicanti ingrossavano ogni giorno, la popolazione diminuiva a vista d’occhio e chi aveva potuto se n’era già andato. Solo la Chiesa riusciva a mantenere i privilegi di una volta e insieme a dare un poco di sollievo alle miserie degli straccioni. Alcune casate, di antica origine guelfa o di recente conversione, che stavano dalla parte della Dominante e si facevano forti della protezione fiorentina, eran le uniche ad ingrassare.
Perché, Dio, non fai sorgere anche per Arezzo un Eraclio o un Costantino? D’accordo, Arezzo non è Roma, e meno ancora Gerusalemme, ma perché, allora, Padreterno, hai lasciato che Piero dipingesse questi sacri muri? Perché ricordare agli sciagurati che per loro non c’è battaglia né condottiero?
«Quello è mio nonno, vedete! Quello a capo scoperto, con la veste chiara, in mezzo al gruppo che circonda lo sconfitto re dei Persiani». L’indice di Baccio si protese a guidar l’occhio di Nerone. «E poi guardate il profilo del giovane a cavallo, lì accanto. Quello trafitto alla gola, col fiore di melograno sul cappello d’arme. È curioso: il frate dice che maestro Piero vi ha raffigurato il figlio di Cosroe, ma non vi pare che assomigli curiosamente a Francesco degli Albergotti?»
Perdio! Possibile? Il sogno s’avverava? Piero dal Borgo aveva visioni profetiche?
«Ma no, che dici!? Ai tempi di Piero l’Albergotti non era neanche nato!»
«Oh, Nerone, finalmente ti trovo!» Bernardino dei Burali accennò un frettoloso segno di croce verso l’altar maggiore e sedette accanto a Nerone, interrompendo così la strana conversazione sui ritratti veri o presunti.
«Speravo che saresti venuto in città e ti cercavo. Ho da raccontarti: ci sono nuove! Non ci crederai, ma c’è movimento!»
«Che genere di movimento? Di che stai parlando?»
Bernardino guardò il ragazzo, ma Nerone lo rassicurò: di Baccio c’era da fidarsi più di tanti adulti.
In chiesa, però, c’erano altri fedeli.
«Usciamo. Camminando daremo meno nell’occhio».
Sul sagrato la pioggia fine, insistente, e fredda per la neve che ancora imbiancava le cime dei monti, li costrinse a chiudersi nel mantello e calarsi il cappuccio sulla testa.
«Tempaccio» constatò Nerone, senza però traccia di lamentela nel tono di voce.
«Meglio. C’è meno gente in giro»
«Allora? Queste novità?»
I Burali avevano sofferto molto la perdita d’indipendenza della città. I loro commerci, un tempo floridi, s’eran ridotti all’osso. Gran parte della famiglia s’era dispersa, per lo più verso Siena o Perugia, e chi era rimasto sopravviveva trattando piccole partite di generi alimentari. Qualche giovane parente di Bernardino s’era dato alle armi, arruolandosi in Compagnie di ventura e combattendo in giro per l’Italia: per fortuna loro e disgrazia delle popolazioni, un tal genere di lavoro non mancava.
«Per ora niente di preciso, ma son pronto a scommettere che la primavera porterà tumulti. Accompagnami al fondaco e rimedieremo qualcosa da mettere sotto i denti»
«Cosa te lo fa pensare?»
«C’è del movimento, ti dico. In settimana sono stato a Perugia a ritirare della merce»
«Grano?»
Bernardino si guardò intorno: «Anche, ma non farti sentire. Ormai i cereali viaggiano nel sottofondo dei carri e si vendono al mercato nero».
Nerone gli lanciò uno sguardo interrogativo.
«E’ l’unico modo per evitare che i Fiorentini requisiscano tutto. Ci affamano, lo sai. Voi in campagna ve la cavate meglio, ma dentro queste maledette mura…»
«Lo so anch’io, come funziona. La settimana passata ho dovuto pagare al Commissario 42 lire d’argento, l’altro ieri un ducato d’oro, e ieri ancora un ducato d’argento. E tre giorni fa mi hanno requisito un carro di grano. Drappelli d’armati mi fan visita quasi ogni giorno, e non so più dove nasconder la roba, per salvarne almeno un po’. Lo sai, ora faccio parte del Consiglio, ma non serve a niente: tutte le cause e le perorazioni vengono sistematicamente ignorate, e quasi forniscono idee ai Fiorentini per nuovi balzelli, accidenti a loro!»
Al Canto dei Bacci Nerone si fermò e fece un cenno al ragazzo: «Vai a casa, adesso»
«No. Sono dei vostri e voglio venir con voi. Anche mio padre si lamenta delle stesse cose».
S’avviarono giù per il Borgo di Strada. Due bambini, sporchi e seminudi, rovistavano in un cumulo di immondizia, incuranti della pioggia. Un drappello di armati a cavallo, col giglio dipinto sugli scudi, risaliva verso la Cittadella.
«Ti dicevo di Perugia. Senti qua: al nostro arrivo i venditori ci hanno accolto con insolito entusiasmo e ci hanno offerto perfino un pasto in una delle migliori locande. “Oste, trattali bene, questi nostri amici” dicevano “vengono da Arezzo”. Per la via ci indicavano ai passanti e ripetevano “sono aretini”, e tutti ci facevano dei gran saluti»
«Strano»
«Già, lo sanno tutti che tra Aretini e Perugini non c’è grande simpatia. Ma la cosa più strana è che ci hanno riempito il carro della merce migliore, ed hanno insistito per farla caricare ai loro lavoranti. Mai successo prima. Eppure sapevano che anche stavolta avremmo pagato solo dopo aver rivenduto le derrate e averne incassato il prezzo»
«E non hai cercato di scoprire il motivo di tanta gentilezza?»
«E bravo! Che gli chiedevo? Scusate, ma perché oggi siete così buoni con noi? E’ una festa particolare o san Donato ha fatto qualche miracolo anche qui da voi?»
Un gruppetto di ragazzi li sorpassò di corsa, ignorando le pozzanghere e infilandoci regolarmente i piedi ignudi. Uno di loro stringeva sotto l’ascella un pane nero. Dopo un attimo sbucò dalla piazzetta di San Michele un secondo gruppo, lanciato all’inseguimento di quella povera preda.
Nei pressi della porta di Santo Spirito, Bernardino, Nerone e il giovane Baccio s’infilarono nel vicolo dove s’apriva il fondaco di Bernardino, non distante dalla chiesa di Sant’Antonio e dalla casa di Nerone.
«Entrate, su».
Mentre il Burali richiudeva la porticina ricavata nel massiccio portone del magazzino, Nerone gettò uno sguardo al vasto ambiente, troppo grande per la poca merce che vi era stivata; la voce di Bernardino rimandava strani echi tra le basse volte a mattoni che una volta conservavano ricche partite di tessuti: «Cecca! Vieni a prendere i mantelli e portaci qualcosa da mangiare!».
Da una porta in fondo al locale s’affacciò una donna non più giovane ma neppur vecchia, vestita decorosamente e ben pettinata, a giudicare dall’unica ciocca castana che le usciva dalla cuffia. Abbozzò un sorriso e ritirò i mantelli degli ospiti ancora gocciolanti di pioggia, mentre loro si sedevano all’unico tavolo, in un angolo del fondaco vicino all’uscio.
«Ma la cosa più divertente» riprese a raccontare Bernardino, «è che al ritorno ne ho parlato con diversi amici, e parecchi di loro avevano avuto esperienze simili, nelle ultime settimane. Uno era stato a Siena, un altro a Città di Castello, e dappertutto avevano ricevuto accoglienze stranamente amichevoli, ed ognuno tesseva le lodi della nostra città e delle sue glorie passate»
«E tu? Ti sarai fatto un’opinione!»
«Pensa e ripensa, ecco l’unica spiegazione possibile: si sta tramando qualcosa, e riguarda proprio Arezzo»
«Qualcuno ha interesse a sobillare una ribellione?»
«Ecco! Pare proprio di sì. L’altro ieri, alla locanda, trovai Presentino, il prete dei Visdomini. Disse che cercava un suo parrocchiano, ma mi parve che lo cercasse dentro un boccale colmo di quello buono!»
Tornò la Cecca e presentò loro un pane nero e del cacio duro.
«Comunque sia, mi raccontò d’aver saputo dallo Sfregiato dei Lambardi, quel Pierantonio tanto malvisto dai Fiorentini, che il Vitelli sta raccogliendo soldati e tessendo alleanze»
«Il Vitelli?»
«Non dirmi che non ne sai niente! Caro Nerone, tu stai troppo nei campi! Vitellozzo Vitelli…»
«Vuoi che non conosca la triste fama di Vitellozzo? Le mie terre non distano che poche miglia da quelle del signore di Città di Castello! Ma il suo obiettivo è Firenze, per quel che ne so»
«E credi che se Vitellozzo si muove contro la Dominante, Arezzo resti fuori della partita?»
La domanda rimase senza risposta. Il giovane Baccio affondò i denti nel cacio.

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