Le
difficoltà cominciarono subito dopo la morte del lucchese: ogni parte voleva prevalere sull’altra,
e il vescovo su tutti; ognuno sospettava dell’avversario, ma pure dell’amico, e
trovare un accordo si faceva ogni giorno più arduo, a riprova che è più
semplice mettersi insieme contro qualcuno che collaborare a costruir qualcosa.
Passava il tempo e la città non aveva ancora un Podestà né un Capitano. Il
popolo rumoreggiava.
Intorno
all’ora nona di una domenica che Rinaldo aveva trascorso nella quiete di
Lorenzano, lo avvertirono che dei messi fiorentini in incognito lo aspettavano
in una locanda al ponte di Buriano, sulla Cassia Antica, vicino al castello di
Rondine. Sospettando intrighi e tuttavia curioso, decise di andare a sentirli.
Giunse
all’appuntamento quasi a vespro e si trovò di fronte due uomini elegantemente
vestiti, con lunghe guarnacche alla moda dei notai.
«I priori di Firenze vi salutano, nobile Bostoli»
«Salve
a voi e a loro. C’è qualche motivo, oltre ai saluti, per trovarci qui stasera?»
«Ci
incaricano di portarvi i complimenti per la brillante operazione dell’altra
notte».
Colse
nelle loro parole una sgradevole ambiguità: nei due anni che Guelfo era stato
priore i fiorentini non avevano mosso un dito contro di lui, sperando che la
sua riuscita portasse Arezzo nella loro sfera d’influenza. Per quello che ne
sapeva, comunque, non si erano spesi neanche per sostenerlo, forse prevedendo
il suo fallimento.
«In Arezzo
è tornata la pace tra guelfi e ghibellini, che ora governano insieme» replicò
prudente.
«Suvvia,
messer Bostoli, ci reputate forse stupidi? Fino ad oggi in verità nessuno
governa».
Rinaldo
attese di vedere dove andavano a parare i due ambasciatori, il secondo dei
quali, scambiata un’occhiata col compare, proseguì a voce più bassa: «I
reggitori di Firenze, vedete, non hanno mai avuto simpatia per il vostro vescovo,
e potete capire da voi quanto li preoccupi l’idea d’una Arezzo ghibellina».
I
modi falsamente cortesi dei due davano sui nervi a Rinaldo: «In Firenze si
sbagliano di grosso, se pensano che i guelfi aretini lasceranno mano libera a
Guglielmino»
«Ecco,
proprio quello che hanno detto i priori»
«E
però dovete convenire» insisté calmo il primo «che non è facile fidarsi di
codesta gente». Stavolta il messo aveva colto nel vivo e gli occhi dell’aretino
tradirono la sua preoccupazione. «Credete davvero, messere, che i Pietramala e
quelli della loro parte manterranno fede agli accordi?»
“Ahimé
no” pensò Rinaldo.
«Cosa
proponete, dunque?» chiese nervoso.
«Mettiamola
così: voi fate vostra la città, e da Firenze non vi mancheranno né i fiorini né
gli uomini che vi occorressero».
«Non
mi pare impresa possibile. Anche se volessi, non vedo come potrei ridurre al
silenzio casate tanto potenti»
«Questo
è affar vostro, ma pensate alla nostra offerta e fateci sapere: noi resteremo a
Buriano per altri due giorni».
Quella
sera Rinaldo non tornò a Lorenzano, ma andò a chiudersi nel suo palazzo di
città, rinunciando pure al solito giro delle taverne.
Quella
notte non riuscì a prender sonno, come capita quando ci sono in ballo decisioni
importanti. Si sentiva in una scomoda posizione, senza risolversi quale partito
fosse il migliore. Era avvezzo per indole a cercare in ogni circostanza il lato
buono, ma in quell’impiccio non riusciva proprio a trovarne.
Quando
gli arrivò l’eco dei rintocchi di mattutino scanditi dalla pieve di Santa Maria,
concluse che fosse giusto parlarne con gli altri maggiori della sua parte.
Se
si vuol mantenere una corrispondenza segreta e ci si affida ad un servo fidato
che riferisca a voce ad altri servi fidati, quasi sempre si trova uno che
fidato non è. Così la discussione interna alla parte guelfa giunse alle
orecchie di Guglielmino, che colse al volo l’opportunità di dichiarare i guelfi
traditori.
Fece
venire il Tarlati in episcopio, lo ragguagliò sulla situazione e gli chiese di
portare armati verso la città dalla sua rocca di Pietramala. Mandò poi
ambasciate alle altre consorterie ghibelline e alle masnade di Buonconte da
Montefeltro, da tempo accampate fuori le mura, al prato della Giustizia. Nel
giro di poche ore tutto era pronto.
I
movimenti delle Compagnie non sfuggirono alle genti del contado e se ne ebbe
notizia anche nella locanda di Buriano, dove i due ambasciatori, mangiata la
foglia, abbandonarono il campo tornando di corsa ai loro priori.
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