«Non c’è Ranuccio, mi
pare, in Modigliana».
Tarlatino aveva
ragione, ma Vitellozzo accolse la sua osservazione con un’alzata di spalle,
infastidito: «Ci sono i suoi parenti, però».
Tarlatino inarcò le
sopracciglia. Da tanti anni serviva il suo signore, legando alla sua la propria
sorte, fiducioso in un glorioso futuro per lui, per sé e per l’amata Città di
Castello, ma gli eccessi di ferocia di Vitellozzo lo lasciavano ancora senza
fiato.
Anche Tarlatino era un combattente, e con gli anni ne aveva messo, di
pelo sullo stomaco! Aveva visto e provocato così tante morti che il sangue gli
era divenuto familiare quanto l’acqua. Ma non conosceva l’ebbrezza e il
desiderio di violenza che invece facevano fremere il corpo di Vitellozzo: forse
per questo non sarebbe mai diventato un Capitano.
L’aria di gennaio,
pungente e tersa, arrossava il viso dei due cavalieri e trasformava in sbuffi
di vapore il respiro degli animali portati al piccolo trotto.
Se da più di un anno la
bile di Vitellozzo s’era nutrita a odio e rancore, il cibo che più spesso
l’aveva ingrossata, tornando a destarla quasi tutte le notti, aveva il nome e
il volto di Ranuccio da Marciano, Capitano anch’egli, ma di tutt’altra pasta.
Traditore infido e
stratega incapace: era questa l’opinione che aveva di lui il povero Paolo
Vitelli, che infinite volte se l’era ritrovato al fianco, e più spesso tra i
piedi.
Intendiamoci, non che
gli disconoscesse il diritto di cambiar padrone: in fondo, le Compagnie
esistevano apposta per servire chi dava loro condotta, ed era giusto pure
trattare sul soldo ed offrirsi a chi pagava meglio. Ma lo si dice chiaro,
perdio, e non si passa all’avversario nel pieno d’una campagna o d’un incarico,
non si intessono trattative col nemico mentre lo si combatte, non si pestano i
piedi ai Capitani alleati per invidia o meschine ripicche. Per anni Ranuccio
s’era invece comportato così.
La valle di San Regolo,
nel pisano, vide nel maggio del ’98 cominciare le liti tra Paolo e Ranuccio.
Dopo aver attaccato con successo truppe veneziane che facevano razzia di
bestiame, quell’incapace lasciò che i suoi uomini si dessero a far bottino per
la campagna, senza curarsi del nemico in ritirata. Quelli se ne accorsero e
invece di tornarsene a Pisa li attaccarono di sorpresa, facendone strage. Il
vile riuscì a scappare, ma sul campo rimasero più di 400 fanti fiorentini.
Paolo andò su tutte le
furie, lo affrontò trattandolo come meritava, e riferì a Firenze. Quel giorno
il comando generale delle truppe fiorentine che assediavano Pisa fu tolto a
Ranuccio ed affidato a Paolo.
Lo scorno fu grande e
Ranuccio da allora tentò con ogni mezzo di ostacolare il rivale, rendendogli la
vita difficile e tramando alle sue spalle, fino allo sciagurato epilogo
dell’assedio di Pisa del ’99.
Gli ci volle del tempo,
ma alla fine Vitellozzo scoprì come s’erano svolti esattamente i fatti: fu
Ranuccio ad arrestare Paolo in Cascina e a condurlo a Firenze, e sempre lui convinse
i Fiorentini della necessità di giustiziarlo.
Ma lo sciagurato trionfo
durò poco. Licenziato dagli stessi Fiorentini, che tardi ne avevano scoperto la
malafede, cominciò a sentirsi braccato dall’ira di Vitellozzo e fuggì a
Bologna, poi tornò a Firenze ed infine riparò a Napoli, dove Federico d’Aragona
assumeva chiunque pur di difendersi dai Francesi.
«Ma lo prenderò, puoi
starne certo. E intanto altri della sua maledetta stirpe sono laggiù che ci
aspettano».
La testa della colonna
aveva appena scollinato l’ennesimo poggio e davanti a loro, lontano e in basso,
tra i rami quasi spogli delle querce, comparve la cortina di Modigliana, dominata
dalla rocca dei Guidi svettante sul borgo.
«Non faremo
prigionieri» gridò Vitellozzo spronando impaziente il cavallo.
«Come sempre» mormorò
Tarlatino, in modo però da non esser udito, e spronò a sua volta per tenergli
dietro.
C’è assedio e assedio,
e pochi, nonostante il potere distruttivo delle nuove artiglierie, finivano
rapidamente con successo. Quello di Modigliana si risolse in pochi giorni,
durante i quali pareva che l’impeto furibondo del Vitelli facesse tremare le
mura incomplete del borgo e i massicci paramenti della rocca più dei colpi di
bombarda. La triste fama del condottiero incuteva maggior terrore negli
sventurati abitanti dell’imponenza del suo stesso apparato offensivo.
Se prometteva strage,
Vitellozzo era di parola: fatta irruzione nel castello, nessuno trovò scampo.
Ai parenti di Ranuccio, ai suoi amici ed ai soldati fiorentini che tenevano la
rocca toccò una morte violenta sotto i colpi implacabili dei vitelleschi. Solo le
poche donne e i loro bambini, secondo il rigido codice d’onore del Capitano,
ebbero salva la vita, anche se, ovviamente, nella licenza di saccheggio era
compreso anche il libero stupro. Per gli uomini invece non ci fu pietà.
«Che ne facciamo, di
questo?»
Quando ormai sembrava
tutto finito, Tarlatino, passando in mezzo ai cadaveri, trascinò davanti a
Vitellozzo un uomo non più giovane, legato stretto e malconcio per le botte ricevute.
Non ferito, però, solo impaurito, o per meglio dire terrorizzato.
«L’abbiamo tirato fuori
da una cantina mentre tentava d’infilarsi in una botte. Dice d’essere aretino».
Vitellozzo stava per
ordinare spazientito che gli si facesse fare la stessa fine degli altri, ma
alla parola aretino si bloccò, alto
sulla sella. Rimase a pensare un attimo e poi si rivolse direttamente al
prigioniero: «Chi sei?»
«Bernardino dei
Camaiani d’Arezzo» gli rispose quello.
Non riuscì a nascondere
il tremito che gli incrinava la voce. «Possiamo pagare, sapete», proseguì
lamentoso. «La mia famiglia…»
«Guelfi, vero?»
«Ma io no, credete.
Anzi…»
«Al soldo dei
Fiorentini, vero?»
«No, no! Giuro!»
«E che ci facevi in
questo covo di vipere?»
«Mercatura, solo
mercatura».
In effetti l’aspetto
grassoccio e ben pasciuto dell’uomo, evidente nonostante i maltrattamenti
subiti, l’avrebbe reso credibile come mercante, non fosse stato per l’armatura
che indossava.
«Il tuo addobbo…»
«Solo per difesa,
vedete. L’abito, sapete, non fa il monaco».
Un pensiero stava
facendosi strada nella mente del Vitelli: il prigioniero poteva tornargli
utile, e non solo per il riscatto.
«Voglio crederti e ti
risparmierò la vita. Per oggi abbiamo fatto pulizia abbastanza».
Un ghigno cattivo gli
piegò la bocca: «Dategli da bere e portatelo a Città di Castello».
Combattuto tra il
sollievo per quelle parole e il terrore che gli ispirava il Vitelli, l’aretino
sentì cedergli le gambe e cadde in ginocchio. Lo trascinarono via in malo modo,
e fu l’unico sopravvissuto all’orrore di quella giornata.
Anno di sangue, il
1501. La frenesia di vendetta spingeva Vitellozzo in un crescendo di orrori. In
marzo, dopo un inverno speso nell’inutile tentativo di prendere Faenza e dopo
la feroce impresa di Modigliana, andò alla conquista di Solarolo. Catturò il
bombardiere del castello, gli fece cavare un occhio e tagliare una mano. Entrò
nel borgo di Russi con 600 cavalli e 300 fanti e lasciò che i suoi uomini
facessero razzia di bestiame nel ravennate, territorio di Venezia, dove
ammazzarono alcuni contadini. Per ritorsione i Veneziani sospesero l’invio
delle armi ordinate da Vitellozzo agli armaioli di Brescia. Allora impiccò due
dei razziatori, e le armi gli arrivarono subito.
Ad aprile Faenza cadde
e lui, non pago, andò a saccheggiare Castel San Pietro Terme, poi Fiumicino e
Castel Guelfo di Bologna, e infine Castel Bolognese. A questo punto lo stesso
Papa, preoccupato da tanta furia, gli intimò di fermarsi.
Ma ai primi di maggio,
con l’appoggio del Valentino, si mise di nuovo in caccia, spinto dalla propria
ossessione. Nel borgo detto Medicina, nella piana bolognese, catturò Pirro da
Marciano, un fratello di Ranuccio. Lo fece decapitare e dispose che il corpo
venisse gettato nel fossato del castello con un sasso al posto della testa.
Quello che non ottenne
il Papa, lo fecero i piani del Valentino. La sua avanzata in Romagna mise in
allarme il Re di Francia e l’attenta diplomazia del Bibbiena ne approfittò
subito, proponendo al Re la candidatura di Piero il Fatuo a Governatore di
Cassino. Re Luigi accettò perché di piccioni, con quella fava, ne prendeva tre:
allontanava il Medici da Firenze, creava un contraltare al Borgia sui confini
meridionali dello Stato della Chiesa, e costringeva il Valentino a darsi una calmata.
Il figlio del Papa,
allora, rivolse altrove le sue mire, chiamò Vitellozzo e gli Orsini, divenuti
nel frattempo suoi Capitani, e comunicò loro che si andava alla conquista di
Piombino.
“Grandioso!” gongolò
tra sé il Vitelli, senza star lì a chieder ragione d’un simile cambio di
programma.
C’era infatti una sola
via che dalla Romagna portasse fino a Piombino, e passava giusto per le terre
fiorentine!
Il tempo d’un ultima
scorreria, tra Varignana e l’Idice, e poi sarebbero partiti.
Ma una lettera li
fermò, una lettera del Papa in persona. S’era ammattito, il suo figliolo
prediletto? Non si rendeva conto che il suo ingresso in Toscana favoriva i
piani dei Medici? Se Re Luigi pareva tenere i piedi in due staffe, lui stesso,
il Papa suo padre, non poteva certo permettere il ritorno dei Medici a Firenze,
perché così se li sarebbe trovati scomodi vicini a tramontana e a mezzogiorno.
«Mi dispiace, a
Piombino non si va».
Il mondo può crollarti
addosso quando meno te lo aspetti: «E perché mai, Duca?»
«Leggete voi stessi».
La lettera era breve e
chiara. Vitellozzo cercò di pensare in fretta: un’occasione così non si sarebbe
ripresentata facilmente.
«Niente Medici,allora.
Prendetela per voi, Firenze».
Il Valentino non era
uomo paziente: «Non sapete leggere!?»
Aggrediva, il Duca, ma
il fisico, la stazza e l’indole di Vitellozzo non si lasciarono scalfire: la
riconosceva, lui, la boria.
«Restiamo qui, dunque?
Passiamo l’estate a far niente? Non volete più farvi uno Stato?»
Adesso era il Borgia a
fare un passo indietro. Portò la mano al mento, stuzzicò le cicatrici che gli
deturpavano il volto, frutto della sua vita sregolata, mal nascoste dalla barba
e dallo strato di biacca.
«Però… Però non è detto
che si debba rinunciare. Ai Fiorentini si può metter paura, almeno. A Re Luigi
non dispiacerà e le manovre militari dei Medici possono tornarci utili. Scriverò
al Papa che può star tranquillo»
«Allora si va!»
«Ma si fa a modo mio,
chiaro!?»
Il Mugello era
un’esplosione di verde, sul quale si stagliava il serpentone giallo cremisi
delle bluse militari.
Le insegne del
Valentino scivolavano verso Firenze.
Quando furono a Campi, due
passi dalla città, il Duca fece chiamare Vitellozzo: «Ci fermiamo. Aspetto
risposta».
Il faccione del
tifernate assunse un’aria interrogativa.
«Ho chiesto condotta ai
Fiorentini: trentaseimila ducati l’anno per trecento uomini».
La sorpresa fu tale da provocare
in Vitellozzo un accesso di tosse. Diavolo d’un Borgia, a che gioco giocava?
Chi mai avrebbe pagato tanto una compagnia di soli trecento uomini?
«A che pro? E pensate
davvero che ve li diano?»
«No, ma potete
scommettere che li prometteranno, pur che mi allontani. E così avranno un
debito anche con me, oltre che col Re. Non vi sembra una buona idea?»
In effetti…
«Nel frattempo, però,
voi dovrete andare avanti. Arrivate a Pisa, spiegate la situazione e
confortateli a resistere. Appena sbrigata questa faccenda, ce ne andremo
insieme all’assedio di Piombino».
Una pacca sulla
massiccia spalla di Vitellozzo suggellò quella che doveva essere un’intesa ed
invece era un ordine, mal digerito e non gradito. Accidenti a lui, credeva che
non capisse perché lo allontanava? Perché non lo voleva tra i piedi troppo
vicino a Firenze? Lui e la sua politica! Andava perché non poteva fare
altrimenti, ma sarebbe venuta anche la sua ora, se lo aspettasse,
quell’elegante spagnolo!
Il frutto di tutto quel
ragionamento fu un prolungato mugugno, che seguitò finché non fu lontano.
Il 15 maggio, mentre il
Duca riceveva dai messi fiorentini formale promessa di trentaseimila ducati per
un anno di condotta, Vitellozzo entrava in Pisa, e qualche giorno dopo si diede
a far scorrerie tra borghi e campagne, per ingrassare i soldati e le proprie
casse.
Nessun commento:
Posta un commento