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La lunga storia dell'Abbazia di Campoleone subì una drammatica svolta alla fine di settembre dell’anno
del Signore 1214. Da oltre un secolo le istituzioni comunali cercavano di prendere
il potere attaccando i ricchi feudi ecclesiastici: pur senza raggiungere i
recenti eccessi di Guelfo da Lucca, s’erano tuttavia moltiplicate delibere e ingiunzioni,
e non erano mancate neppure scaramucce e battaglie.
Due
episodi avevano fatto precipitare la situazione: diciotto anni prima le milizie
del Comune avevano distrutto la Badia di Santa Flora, e ai primi del secolo il
Papa aveva costretto il Vescovo di Arezzo a lasciare l’Episcopio sul colle
fortificato del Pionta, e a risiedere in città. Due colpi mortali per i difensori
del vecchio ordine di cose.
Da
allora i monaci di Campoleone vivevano sulle spine, continuamente provocati e
punzecchiati dai podestà di turno, finché accadde l’inevitabile: le masnade
comunali cinsero d’assedio il piccolo castello che sorgeva di fianco all’Abbazia
e la difendeva, intimando la resa.
L’Abate
Rinaldo fece serrar le porte e incaricò frate Meo di radunar le donne e i
ragazzi nella chiesa abbaziale.
Da
giorni si viveva così, ammassati nel tempio, pregando di giorno e passando le
notti sdraiati sul pavimento, con l’orecchio sempre teso ai rumori che
arrivavano dal castello. Frate Meo teneva buoni i bambini raccontando storie
della Bibbia.
Quella
notte Vanni era di guardia sul lato orientale del muro, che affacciava su un
ripido burrone: difficile che da lì potesse salire qualcuno. Pur rimanendo
sveglio, si sentiva abbastanza tranquillo e osservava le stelle appoggiato alla
merlatura. In gioventù un amico che era stato per mare gli aveva insegnato a
riconoscere la Stella del Nord, e il grande e il piccolo Carro: era arrivato
fino alla Terra Santa, il suo amico, ed aveva visto il deserto degli Arabi,
dove aveva incontrato mercanti che davano un nome a tutte le formazioni
luminose che popolano il cielo.
Gli
era compagno Funuccio, che abitava come lui un manso nel piano prima dell’Arno.
Da tanti anni lavoravano e sudavano insieme, per l’Abbazia e per sfamare le loro
famiglie.
«Quante
sono!»
«Cosa?»
«Le
stelle. Si dice che se ne accenda una ogni volta che un’anima buona sale in
cielo»
«Saranno
sicuramente anime di nobili o di chierici»
«Frate
Meo sostiene che anche un poveraccio può diventare una stella, se è timorato di
Dio»
«Lo
dice di sicuro per tenerci buoni»
Vanni
guardò storto l’amico: «Non siamo più ragazzi, Funuccio. I discorsi non ci
sfamano»
«Zitto!
Ascolta!»
Si
acquattarono, intenti ad alcuni rumori. Sul lato che confinava con l’Abbazia,
una piccola porta dava direttamente all’esterno, solitamente usata dai servi e
dai contadini, non ammessi all’entrata grande: proprio lì si sentivano passi,
tramestio, sussurri perfino.
Tesero
l’orecchio. La campana piccola suonò l’inizio della quarta veglia, tre ore dopo
la mezzanotte.
«Forse
cambiano il turno di guardia»
«Non
prima di mattutino, m’hanno detto»
«Ma
chi vuoi che pensi ad attaccar di notte»
«Shhh!
Senti? Son qui, nella corte grande. Accidenti alle tue stelle che non fanno
punta luce! Ci fosse almeno un po’ di luna!»
«Ma
perché dal mastio non si muovono? E dall’antiporta?»
«Chi
è laggiù! Fatevi vedere!»
In
risposta una torcia illuminò la notte, e subito un’altra, e una terza. Il
movimento si fece corsa, il parlottio vociare, il tramestio sferragliar d’armi.
«Avanti!
Avanti!» dalla porticina aperta, armati colle insegne del Comune invadevano la
corte.
«All’armi!
All’armi!»
«Siamo
traditi! Correte!»
Dagli
spalti i difensori si volsero verso l’interno del castello all’inatteso
pericolo, ma da quel lato nessun merlo li riparava dal lancio di dardi che li
prese di mira. Da fuori frattanto le balestre miravano alle loro sagome
illuminate ora dalle torce.
Nella
corte si accesero i primi duelli. In un angolo si dette fuoco alla paglia e i bagliori
si levarono alti.
«La
porta dei servi va richiusa, prima che entrino tutti! Funuccio, con me!»
Scesero
a salti dalla cinta, le spade sulla destra, e corsero verso le stalle, la via
più breve per la postierla. Qui però infuriava la battaglia. Le masnade
comunali tentavano di metter fuoco alle mangiatoie allo strame al legno delle
travi e far fuggire i cavalli.
I
nostri vennero stretti nel corpo a corpo. Funuccio scansò due fendenti, affondò
il suo ferro nel fianco d’un giovinetto e poi scattò in avanti, chiamando
l’amico: «Vanni, andiamo!»
«Eccomi!»
ferì ad un braccio un pedone del Comune e seguì l’amico, rasente alcune
capanne.
D’improvviso
una di queste prese fuoco, come da sola, ma loro sgusciarono via fino alla
porta e presero alla gola i due che la tenevano aperta. Atterrarono un omone
che voleva entrare e non s’aspettava d’essere attaccato, usando poi quel corpo
caduto di traverso per tener fuori gli altri quanto bastava per chiudere il
battente e rimettere la spranga al suo posto.
Avvertirono
i compagni d’armi: «Son chiusi! Chi è dentro è nostro! La porta è serrata!»
Nello stesso momento la campana piccola suonò mattutino.
Ma
un colpo, forte sordo tremendo, al portone grosso del castello, lo abbatté di
schianto sollevando un turbinio di scintille in quell’inferno di fuochi. Apparve
la testa dell’ariete e le due schiere ammutolirono insieme. Ma fu solo un
attimo. L’urlo dell’orda che dilagava dal nuovo grande varco gelò il sangue ai
difensori e disse che non c’era più nulla da difendere.
Nella
chiesa le donne strinsero al petto i loro figli.
«Attaccano!»
«Com’è
possibile?»
«Li
respingeranno, vero?»
«Verranno
anche qui?»
L’angoscia
si mescolava al pianto dei bambini e si alimentava nei loro occhi impauriti. Le
mamme piangevano anch’esse.
«Venite
qui. Preghiamo» le invitò frate Meo, e il brusio d’una litania si mescolò ai
pianti.
Dalla
sacrestia apparve l’Abate: «Non abbiate paura. Non oseranno profanare la casa
del Signore» tentò di consolarli, ma il tono della sua voce era incerto, e poco
dopo venne smentito da un colpo violento. La porta della chiesa, non certo
robusta come quella del castello, cedette all’ariete.
Frate
Meo aveva acceso i ceri sull’altare maggiore rischiarando una scena da
catacomba. I primi armati, entrati di slancio dietro all’ariete, s’arrestarono
incerti, soggiogati dall’odore d’incenso che il buon frate diffondeva agitando
a pendolo il turibolo. Davanti all’altare l’Abate era circondato dagli altri
monaci, avvolti nelle casule rosse dei giorni di passione.
Chi
aveva cuore di profanar la chiesa? Pur ebbri di vino ed esaltati dalla
battaglia, i vincitori s’interrogavano dubbiosi l’un l’altro. Poi abbassarono lentamente
le armi.
L’Abate
alzò una teca che custodiva una reliquia di San Gennaro ed intonò con voce
profonda: Dies Iræ, Dies Illa!
Solvet
Sæclum in Favilla!
gli fece eco il coro dei monaci.
Rex
tremendæ maiestatis…
L’Abate si mosse, discese gli scalini dell’altare e avanzò verso la porta,
incontro ai nemici. Dietro di lui si formò una processione di teste chine e
passi strascicati, come nel giorno dei morti.
I
Capitani di guerra si fecero da parte.
Fuori,
il chiarore del nuovo giorno sbiadiva le stelle ad oriente e i bagliori
dell’incendio che stava consumando il castello spingevano a quel cielo volute
di fumo acre.
Appoggiati alla postierla ancora chiusa, le spade
in pugno ma abbandonate lungo i fianchi, Vanni e Funuccio riposavano vinti, uno
di fianco all’altro, i petti squarciati dalle lance nemiche e gli sguardi morti
persi nel vuoto.
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