mercoledì 11 marzo 2020

EPISODIO 1 - UNA STORIA D'AMORE



La tranquillità di Boso degli Azzi era svanita guardando Ippolita, la più bella tra le giovani donne che ogni domenica accendevano un lume davanti alla statua della Madonna, nella cripta dell’antica cattedrale.
Fino ai primi anni del secolo che si avviava a finire, il duomo di Arezzo e l’episcopio sorgevano all’interno d’una cittadella fortificata sul colle del Pionta, fuori dalle mura cittadine. Poi il papa aveva costretto il vescovo a trasferirsi in città, ma la fede popolare spingeva molti a frequentare ugualmente quello che da allora chiamavano il Duomo Vecchio.
Boso seguiva Ippolita con lo sguardo perso.
Profilo perfetto, portamento elegante, due occhi color della terra arata, schietti ma non alteri. La bellezza di certe madonne bizantine, come le vergini in processione che aveva visto da ragazzo in Sant’Apollinare Nuovo, accompagnando una volta suo padre a Ravenna. Allora quelle figure vestite d’oro, sospese in fila sugli archi del tempio, ebbero per lui un sorriso materno.
Abituata all’ammirazione, Ippolita se ne compiaceva, ma aveva imparato a tenere a bada i pretendenti.
Nelle passeggiate devote fino al Pionta trovava sempre qualche amica che la accompagnasse, e alla Vergine della cripta chiedeva la grazia d’un marito rispettoso e una famiglia felice. Sapeva bene chi voleva sposare e pregava che il suo sogno si avverasse. Un giorno di primavera seguì dietro un cespuglio l’oggetto dei suoi desideri: un momento furtivo, un lungo bacio che non avrebbe più dimenticato.
Notò pure, tra gli altri, il rampollo di casa Azzi e le sue premure non le dispiacquero.
Per lungo tempo rimase incerta, combattuta tra la passione scatenata da quel bacio e la corte discreta di Boso: il giovane dagli occhi color del cielo che le aveva acceso le gote pareva ignorarla, mentre il nobile Azzi se lo trovava sempre davanti, assiduo e paziente.
Fu tra le sacre pietre del Pionta, in un afoso pomeriggio d’agosto, che Ippolita prese l’iniziativa: «So che avete parlato con mio padre e mi avete chiesta in sposa»
«Col vostro consenso, però»
«Mi piacete, e la vostra proposta mi onora. Vorrei davvero contentarlo ed esser vostra».
Restò a mirarla incerto. “Ecco, basta questo: non dite altro e saremo felici” avrebbe voluto dirle. Invece gli uscì un «ma?», e lei pronunciò la frase che gli fece crollare il mondo addosso: «Ma ho Rinaldo nel cuore».
Rinaldo dei Bostoli, maledetto, tanto diverso da risultargli odioso anche senza la rivalità in amore. Alto e bello per quanto Boso era medio di fisico e statura; dagli occhi chiari e freddi a misura che i suoi eran dimessi; allegro fino alla trasgressione mentre lui era posato e ragionatore; loquace da far scomparire la sua avarizia nel parlare; capo della fazione guelfa, con la casa nel Borgo Maestro, quando quelle degli Azzi, ghibellini, eran vicine ma quasi nascoste; padrone d’un piccolo castello tra i boschi del Casentino, dal nome sconosciuto di Lorenzano, mentre degli Azzi tutti conoscevano le vaste proprietà poco fuori Arezzo, sulla via di Roma. La ragione, insomma, opposta al cuore: poteva sperar di vincere ogni contesa, Boso, contro un simile avversario, ma non la battaglia per conquistare una donna.
Aveva ritirato la richiesta di matrimonio e il padre di Ippolita s’era infuriato: sua figlia avrebbe sposato chi voleva lui, e lui non voleva saperne di un nobile che si fingeva popolano, di un aretino che, a dir suo, se la faceva coi fiorentini, di uno insomma che teneva il piede in due staffe. E donnaiolo, per giunta. Le antiche origini degli Azzi lo convincevano molto di più, e le loro ricche terre, ed anche il carattere misurato di Boso, la sua fierezza pacata, la nobiltà priva d’alterigia.
Ippolita era testarda, ma non ribelle. Aveva chiarito al padre i propri sentimenti, così come le era parso onesto fare col pretendente, e aveva concluso: «Se insistete farò come dite, sarò moglie fedele e non mi lamenterò d’una sorte generosa. Boso avrà la mia devozione, ma non posso promettergli amore».
«Se il nobile Azzi a questi patti non ti vorrà, andrai in convento, perché il Bostoli non è uomo da famiglia»
«Sarà quello che vorrete».
«Conosco mia figlia» aveva poi detto a Boso, «se dice che vi sarà devota potete crederci, e son convinto che col tempo imparerà ad amarvi: i grilli giovanili passano anche alle donne cocciute. Però capisco il vostro disagio e rimetto a voi ogni decisione, perché io posso obbligarla a sposarvi, ma non ho il potere di correggere i suoi pensieri».
Il giovane alla fine pensò che non poteva fare a meno di lei e che poi avrebbe trovato il modo di far breccia nel suo cuore.
Le nozze si fecero ma non funzionò.
Ippolita era leale, sì, tranquilla ed anche sorridente. S’era ben adattata alla nuova famiglia e con lui era un angelo. Non gli si negava mai ed era una gioia averla vicino; non avevano più parlato del rivale, neanche una volta, ma l’ombra restava, dissimulata e repressa, a turbare ogni loro notte.
Un giorno lei salì al convento di San Marco al Murello, in cima alla Ruga Mastra, e si confessò con fra Giacomo, un religioso alla mano che sapeva ascoltare.
Il pingue frate la fece riflettere sui propri doveri: «Non segue matrimonio, che non c’entri il demonio» sentenziò, e poi, con più confidenza: «E’ il diavolo che ti tenta, figlia mia: a volte prende sembianze piacevoli, ma guarda che non ti entri dentro».
La ragione però non serve a cacciare le fantasie: dopo una di quelle notti agitate ed insonni, all’alba svegliò bruscamente il suo sposo e gli disse: «Voglio un figlio». Si amarono con passione, con furore quasi, e così per le notti seguenti, finché non rimase incinta.
Ma neppure la nascita del piccolo Azzolino servì a cacciare il fantasma dalla sua casa.
Boso prese allora a frequentar taverne, di rado all’inizio, poi sempre più spesso e ultimamente quasi ogni sera.

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