La
tranquillità di Boso degli Azzi era svanita guardando Ippolita, la più bella tra le
giovani donne che ogni domenica accendevano un lume davanti alla statua della
Madonna, nella cripta dell’antica cattedrale.
Fino
ai primi anni del secolo che si avviava a finire, il duomo di Arezzo e
l’episcopio sorgevano all’interno d’una cittadella fortificata sul colle del
Pionta, fuori dalle mura cittadine. Poi il papa aveva costretto il vescovo a
trasferirsi in città, ma la fede popolare spingeva molti a frequentare ugualmente quello che da allora chiamavano il Duomo Vecchio.
Boso
seguiva Ippolita con lo sguardo perso.
Profilo
perfetto, portamento elegante, due occhi color della terra arata, schietti ma
non alteri. La bellezza di certe madonne bizantine, come le vergini in
processione che aveva visto da ragazzo in Sant’Apollinare Nuovo, accompagnando una
volta suo padre a Ravenna. Allora quelle figure vestite d’oro, sospese in fila
sugli archi del tempio, ebbero per lui un sorriso materno.
Abituata
all’ammirazione, Ippolita se ne compiaceva, ma aveva imparato a tenere a bada i
pretendenti.
Nelle
passeggiate devote fino al Pionta trovava sempre qualche amica che la
accompagnasse, e alla Vergine della cripta chiedeva la grazia d’un marito
rispettoso e una famiglia felice. Sapeva bene chi voleva sposare e pregava che
il suo sogno si avverasse. Un giorno di primavera seguì dietro un cespuglio
l’oggetto dei suoi desideri: un momento furtivo, un lungo bacio che non avrebbe
più dimenticato.
Notò
pure, tra gli altri, il rampollo di casa Azzi e le sue premure non le
dispiacquero.
Per
lungo tempo rimase incerta, combattuta tra la passione scatenata da quel bacio
e la corte discreta di Boso: il giovane dagli occhi color del cielo che le
aveva acceso le gote pareva ignorarla, mentre il nobile Azzi se lo trovava
sempre davanti, assiduo e paziente.
Fu
tra le sacre pietre del Pionta, in un afoso pomeriggio d’agosto, che Ippolita prese
l’iniziativa: «So che avete parlato con mio padre e mi avete chiesta in sposa»
«Col
vostro consenso, però»
«Mi
piacete, e la vostra proposta mi onora. Vorrei davvero contentarlo ed esser
vostra».
Restò
a mirarla incerto. “Ecco, basta questo: non dite altro e saremo felici” avrebbe
voluto dirle. Invece gli uscì un «ma?», e lei pronunciò la frase che gli fece
crollare il mondo addosso: «Ma ho Rinaldo nel cuore».
Rinaldo
dei Bostoli, maledetto, tanto diverso da risultargli odioso anche senza la rivalità
in amore. Alto e bello per quanto Boso era medio di fisico e statura; dagli
occhi chiari e freddi a misura che i suoi eran dimessi; allegro fino alla
trasgressione mentre lui era posato e ragionatore; loquace da far scomparire la
sua avarizia nel parlare; capo della fazione guelfa, con la casa nel Borgo
Maestro, quando quelle degli Azzi, ghibellini, eran vicine ma quasi nascoste; padrone
d’un piccolo castello tra i boschi del Casentino, dal nome sconosciuto di
Lorenzano, mentre degli Azzi tutti conoscevano le vaste proprietà poco fuori
Arezzo, sulla via di Roma. La ragione, insomma, opposta al cuore: poteva sperar
di vincere ogni contesa, Boso, contro un simile avversario, ma non la battaglia
per conquistare una donna.
Aveva
ritirato la richiesta di matrimonio e il padre di Ippolita s’era infuriato: sua
figlia avrebbe sposato chi voleva lui, e lui non voleva saperne di un nobile
che si fingeva popolano, di un aretino che, a dir suo, se la faceva coi fiorentini, di uno insomma che teneva il piede in due staffe. E donnaiolo, per
giunta. Le antiche origini degli Azzi lo convincevano molto di più, e le loro
ricche terre, ed anche il carattere misurato di Boso, la sua fierezza pacata,
la nobiltà priva d’alterigia.
Ippolita
era testarda, ma non ribelle. Aveva chiarito al padre i propri sentimenti, così
come le era parso onesto fare col pretendente, e aveva concluso: «Se insistete
farò come dite, sarò moglie fedele e non mi lamenterò d’una sorte generosa.
Boso avrà la mia devozione, ma non posso promettergli amore».
«Se
il nobile Azzi a questi patti non ti vorrà, andrai in convento, perché il
Bostoli non è uomo da famiglia»
«Sarà
quello che vorrete».
«Conosco
mia figlia» aveva poi detto a Boso, «se dice che vi sarà devota potete
crederci, e son convinto che col tempo imparerà ad amarvi: i grilli giovanili
passano anche alle donne cocciute. Però capisco il vostro disagio e rimetto a
voi ogni decisione, perché io posso obbligarla a sposarvi, ma non ho il potere
di correggere i suoi pensieri».
Il
giovane alla fine pensò che non poteva fare a meno di lei e che poi avrebbe trovato
il modo di far breccia nel suo cuore.
Le
nozze si fecero ma non funzionò.
Ippolita
era leale, sì, tranquilla ed anche sorridente. S’era ben adattata alla nuova
famiglia e con lui era un angelo. Non gli si negava mai ed era una gioia averla
vicino; non avevano più parlato del rivale, neanche una volta, ma l’ombra
restava, dissimulata e repressa, a turbare ogni loro notte.
Un
giorno lei salì al convento di San Marco al Murello, in cima alla Ruga Mastra,
e si confessò con fra Giacomo, un religioso alla mano che sapeva ascoltare.
Il
pingue frate la fece riflettere sui propri doveri: «Non segue matrimonio, che
non c’entri il demonio» sentenziò, e poi, con più confidenza: «E’ il diavolo
che ti tenta, figlia mia: a volte prende sembianze piacevoli, ma guarda che non
ti entri dentro».
La
ragione però non serve a cacciare le fantasie: dopo una di quelle notti agitate
ed insonni, all’alba svegliò bruscamente il suo sposo e gli disse: «Voglio un
figlio». Si amarono con passione, con furore quasi, e così per le notti
seguenti, finché non rimase incinta.
Ma
neppure la nascita del piccolo Azzolino servì a cacciare il fantasma dalla sua
casa.
Boso
prese allora a frequentar taverne, di rado all’inizio, poi sempre più spesso e
ultimamente quasi ogni sera.
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