giovedì 19 marzo 2020

EPISODIO 8: NOTTE DI NATALE DEL 1288

La Ruga Mastra era una ripida contrada che dalla Porta di San Lorentino conduceva al colle di San Pietro; dall’alto appariva incassata tra le case-torri, proprio come una profonda ruga sul volto antico della città.

Su quella via, accanto alla famosa fonderia del Campanella, i Mauri stavano costruendo la loro casa di città, e giusto davanti al cantiere Mauro aspettava suo padre battendo la terra coi piedi nel tentativo di scaldarli.
La notte era davvero gelida. Un brivido percorse il corpo robusto del giovane e lo spinse ad avvolgersi più stretto nel mantello di buona lana foderato d’una pelliccia di vaio.
Era una sera speciale: ogni contrada brulicava di lumi in movimento, alla cui luce tremolante si muovevano gli uomini e le loro ombre.
«Inverno duro, quest’anno!» Due donne gli passarono vicino parlando fitto tra loro, curve a proteggere dal freddo le mani che reggevano i lumi.
Una pacca sulla spalla lo fece trasalire: «Eccoci qua!»
«Oh, babbo. Siete arrivato? M’era preso freddo. Salute, messer Giunta».
Giunta dei Ricoveri abitava una casa-torre poco più in basso. La sua famiglia, una delle più in vista in città, era consorte e vicina di casa dei Gamurrini. Avevano pure un identico stemma, d’azzurro ai tre scacchi d’oro in forma di losanga, ma i Ricoveri militavano nel campo ghibellino, mentre i Gamurrini, guelfi, erano esuli insieme a Rinaldo dei Bostoli.
Quella sera Giunta aveva concesso ai Mauri l’alloggio dei cavalli nella sua stalla ed ora salivano insieme alla nuova Cattedrale, che il Vescovo Guglielmino avrebbe consacrato a mezzanotte. Un servo li accompagnava con la torcia.
«Su, figliolo, ché si fa tardi»
Oltre il cantiere, la Ruga Mastra era chiusa a destra da un muro che nascondeva campi e orti, mentre a mancina le fiaccole illuminavano i ruderi di un’antica villa romana. Più in alto, addossata al muro, si trovava una fonte e il gruppetto si fermò per riprendere fiato.
Un’ombra senza lume, incappucciata e avvolta nel mantello, li raggiunse e accennò un saluto.
«Oh, Iacomuccio».
Riconobbero Iacopo, il Campanella, loro prossimo vicino di casa e proprietario appunto della più famosa fonderia di campane della città: si vantava di regolare la vita degli Aretini col suono dei suoi capolavori, di farli levare la mattina e di spedirli a chiudersi in casa a vespro.
I quattro ripresero insieme a salire, parlando della cerimonia che li aspettava e chiedendosi cosa avrebbe detto il Vescovo.
In breve arrivarono al Murello.
La folla s’infilava nella contrada del Foro, detta del Lastrico per essere stata la prima via lastricata di Arezzo.
Mauro si tuffò entusiasta in mezzo a quello sfavillio brulicante di vita. Lo avvolse il vociare animato, il rumore di ruote, lo scalpiccio dei cavalli.
«Attento, maledizione!»
Pietro scattò verso il figlio quando un cavallo imbizzarrito fece roteare le zampe anteriori sulla sua testa, e lo spinse di lato giusto in tempo. Cadendo, Mauro travolse i vicini, e diversi vennero atterrati da chi tentava di scansarsi. Altri cavalli s’impennarono nitrendo. Alle grida si sommarono i richiami dei cavalieri ai loro animali.
Giunta e Pietro riconobbero gli artigli del leone rosso sulla gualdrappa gialla: «Misericordia! L’Ubertini!»
Una frusta sibilò sulle loro teste ma, anticipando lo schiocco, Pietro l’afferrò al volo con tutte e due le mani: una presa formidabile nonostante la mutilazione della destra frutto dello scontro del Toppo. I suoi occhi si fissarono su quelli d’un giovane addobbato con gli stessi colori del Vescovo. Calcolò freddamente: uno strattone deciso e il pivello sarebbe finito per terra. Avanzò il piede sinistro.
«Fermo!» Guglielmino nel frattempo aveva calmato il suo cavallo e bloccò il parente.
La piccola testa scoperta da un’estesa calvizie, il volto dominato dal naso prominente e incorniciato dalla barba bianca ben curata, occhi scuri da cui partiva uno sguardo duro, il settantenne condottiero si manteneva dritto in sella: «Lascialo, è solo un ragazzo! E voi, messer Pietro, tenetelo a bada il vostro rampollo!» Dette di sprone al cavallo: «Ci servirà contro Firenze!» e proseguì verso il Duomo.
Pietro lasciò la frusta e il cavaliere, rabbioso, la ritirò.
Un gruppetto fece capannello sul giovane ancora frastornato, e partirono le recriminazioni: «L’Ubertini e il suo seguito!» «A cavallo, con tutta questa gente!» «E a noi tocca scansare i loro zoccoli!» «Ma vi sembra un Vescovo?» «Sempre con l’elmo e la spada, anche alla messa di Natale!»
«Largo! Largo!»
Una squillante voce femminile interruppe quel coro di proteste tardive: «Fatemi passare, porto acqua!» Il gruppo si aprì.
Su Mauro si chinò un bel volto dall’incarnato roseo acceso da due grandi occhi neri; ciocche di capelli corvini spuntavano dal cappuccio mal trattenute dal nastro che le decorava la fronte; il suo sorriso lo riconciliò con la vita.
«Ecco, bevete».
Mauro si drizzò sul gomito e sorseggiò dalla brocca senza staccare gli occhi dalla ragazza: la mano gli tremava e si sentì in imbarazzo.
«Su, alzatevi». All’invito di Giunta, restituì la brocca alla soccorritrice, che si voltò e sparì tra la folla.
«Dai! E’ passata!» lo incoraggiò Pietro, cui non erano sfuggite le occhiate corse tra i due giovani. S’avviarono verso la Cattedrale con gli ultimi ritardatari.
La contrada del Lastrico si apriva direttamente sulla spianata del colle di San Pietro, stracolma di popolo affluito da ogni parte.
Si dovettero fermare, stretti dalla folla contro le pietre d’angolo del palazzo vescovile, fatto costruire trent’anni prima dallo stesso Guglielmino. Da quell’incomodo punto di osservazione, sopra il mare ondeggiante delle teste, il giovane riusciva a vedere solo l’insolito spettacolo delle due cattedrali: più vicina l’antica e malridotta chiesa di San Pietro Maggiore. Dietro, la fabbrica del Duomo nuovo, che il potente Vescovo aveva voluto a gloria di Dio, della Beata Vergine e del patrono San Donato.
Mastro Campanella si lamentò del fatto che quella gloria non l’avrebbero cantata le sue nuove campane, dato che il tempio non aveva ancora campanile.

Il popolo sopportava paziente le raffiche di tramontano.
Mauro osservò dubbioso l’incastellatura di legno che sostituiva la facciata mancante.
Pensò che non s’era mai sentito d’una chiesa consacrata prima del suo completamento.
In quel momento lì vicino, tra la gente, gli arrivò una voce nota: «Fatemi passare! Voglio vedere anch’io! E toglietevi!»
Ritto sulle punte dei piedi e allungando il collo, intravide la ragazza che lo aveva soccorso mezzora prima. Dimenticò d’essere in compagnia e si dette a sgomitare per raggiungerla.
Fecero prima di lui alcuni giovinastri, che l’avvicinarono a forza di spintoni.
«Oh, bella, vuoi la festa?» «Vieni, ché te la facciamo noi!» «Ah! Ah!» Si ritrovò addosso facce malcurate, barbe incolte, sudice capigliature. Uno era guercio, e per maggior bruttura aveva lo zigomo tumefatto, segno d’una lite; un altro era sdentato e, come spesso avviene che si mettano in mostra i difetti che più si vorrebbe celare, era proprio quello che sghignazzava maggiormente; il terzo infine aveva la guancia percorsa da un’oscena cicatrice. Tutti puzzavano di vino, frutto d’una serata trascorsa a visitar taverne.
L’afferrarono e la trascinarono via tra l’indifferenza d’una folla che continuava ad accalcarsi ai piedi del sagrato.
Mauro sentì le sue grida allontanarsi verso l’angolo opposto del palazzo vescovile e moltiplicò gli sforzi per raggiungerla. Quando era quasi a metà della facciata, uno squillo di chiarine annunciò l’uscita del Vescovo dal palazzo. Al rullo dei tamburi due schiere di armati aprirono un corridoio nella folla, bloccando il giovane al di qua del portone. Sopra le teste si stagliarono le lance coi vessilli, le celate dei cavalieri, i musi bardati dei palafreni: nella variopinta processione si riconoscevano i colori delle nobili casate aretine. Davanti a tutti Percivalle dei Fieschi inalberava l’insegna imperiale, per ricordare l’appartenenza della città al campo ghibellino. E difatti ghibelline erano tutte le insegne che lo seguivano, dopo la cacciata dei guelfi l’anno prima. A Mauro non restò che seguire impaziente l’avanzare dei pennoni, primi fra tutti i sei quadri d’oro in campo azzurro dei Tarlati di Pietramala.
Spinse col pensiero il corteggio di prelati che seguivano a piedi, gravati di paramenti ricchi di ori e pietre preziose, opera del paziente lavoro di oscure monache.
Volute d’incenso avvolgevano il portale e avanzavano sulle teste, prima che il vento ne spandesse il profumo fino agli angoli più lontani della piazza.
Apparve il Vescovo, e si soffermò sugli scalini ad osservare il suo popolo. Adesso vestiva i paramenti sacri: posata la spada, impugnava il pastorale; smesso l’elmo, la sua testa sorreggeva una mitria ricca di gemme. Ma il piglio era lo stesso.
Mauro scalpitava. Quando l’Ubertini avanzò, lo seguirono altri Vescovi, convenuti dalle città amiche, e poi l’Abate di Santa Flora e Lucilla, quello di Campoleone, quello di Agnano e di altre abbazie minori, ognuno col suo seguito. Indi uscirono i Canonici della Cattedrale e quelli di Pieve, e infine i pievani delle chiese battesimali dell’intera diocesi.
Come Dio volle la processione finì, e Mauro sgusciò lungo il muro del palazzo voltando l’angolo e infilandosi nella stretta contrada di San Gregorio, sgombra di gente. Della ragazza neanche l’ombra. Avanzò di qualche passo, ristette, niente. Fece per rituffarsi nella folla, quando un urlo risuonò nella via. Allora si slanciò di corsa, l’occhio agli usci a destra e a manca. Ne vide uno aperto: la sgangherata chiusura d’una stalla, dalla quale provenivano grida e rumori di lotta. Entrò di slancio.
All’incerta luce d’una torcia, la scena che si trovò davanti era tutt’altro dal presepe che vi si poteva rappresentare in quella notte di Natale.
Sulla paglia lo sdentato teneva ferma la ragazza, lo sfregiato le era sopra e lottava con lei mentre il guercio, in disparte, imprecava tenendosi la mano sanguinante, segno della furiosa difesa della loro vittima, che l’aveva azzannato con un morso. Lei, discinta, combatteva con una forza che gli sciagurati non s’aspettavano. Lo sdentato, affondandole nei capelli una manaccia ossuta, continuava a ridere d’un riso isterico. Quello che la teneva sotto, incapace a domarla, alzava il braccio per colpirla.
 In un balzo Mauro gli fu addosso e gli bloccò la mano. Con uno strattone lo allontanò da lei e con un pugno lo mandò lungo disteso in mezzo al letame, tra i cavalli già nervosi, che reagirono nitrendo. Gli altri restarono immobili, sorpresi dall’attacco: il vile coraggio dei prepotenti svanì come la condensa dei fiati nella notte fredda.
La più lesta ad approfittare di quell’aiuto fu la ragazza: si liberò dalla presa dello sdentato, brandì un forcone appoggiato al muro e glielo piantò nel piede. Quello indietreggiò urlando. I due giovani gli consentirono di guadagnare l’uscio e di allontanarsi nella contrada insieme ai suoi degni compari.
Ora non avevano occhi che l’uno per l’altra. In quelli di lei un muto ringraziamento, mentre lo sguardo di Mauro tradiva premura e preoccupazione.
«Come state?»
«Mauro, io...»
«Come sapete il mio nome?»
«Ma come? Non ricordate, prima, al Murello?»
«Sì, certo, già! Io però non lo so, come ti chiami. Sei scappata subito»
«Hai ragione: io sono Berta». Erano passati al tu naturalmente, complici le disavventure della serata.
 Pronunciando il proprio nome, lei se n’avvide e s’accorse pure che non s’era ancora ricomposta. Chinò il capo per nascondere un leggero rossore, mentre cercava di aggiustarsi addosso la tunica. Non le capitava spesso, di arrossire, e si sentiva a disagio.
Reagì parlando, mentre riannodava con mano incerta la cintura di cuoio: «Sarebbe Gualberta, perché sono stata concepita dopo un pellegrinaggio a Vallombrosa e mio padre s’aspettava un maschio, ma per tutti, da sempre, sono la Berta. Succede così, dalle nostre parti: i nomi si storpiano, si abbreviano, si cambiano addirittura. Alla gente piace appiccicare nomignoli o soprannomi. Oh, ma la cosa non mi dispiace: brutto, Gualberta, e troppo importante. Io sono pratica. Lavoro, io, e vado fiera di non dipendere da nessuno, tranne che da mio padre!»
«Berta» Mauro non le aveva staccato gli occhi di dosso e si fissò in mente quel nome, ma per lei il sentirlo suonò come un richiamo a chetarsi. «Venite, andiamo a messa»
«Ma non posso, in queste condizioni»
«Chi volete che se n’accorga. Su, datevi una sistemata».
S’affacciarono sulla via: era sgombra e si diressero insieme verso la Cattedrale.

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