La
Ruga Mastra era una ripida contrada che dalla Porta di San Lorentino conduceva
al colle di San Pietro; dall’alto appariva incassata tra le case-torri, proprio
come una profonda ruga sul volto antico della città.
Su
quella via, accanto alla famosa fonderia del Campanella, i Mauri stavano
costruendo la loro casa di città, e giusto davanti al cantiere Mauro aspettava
suo padre battendo la terra coi piedi nel tentativo di scaldarli.
La
notte era davvero gelida. Un brivido percorse il corpo robusto del giovane e lo
spinse ad avvolgersi più stretto nel mantello di buona lana foderato d’una
pelliccia di vaio.
Era
una sera speciale: ogni contrada brulicava di lumi in movimento, alla cui luce
tremolante si muovevano gli uomini e le loro ombre.
«Inverno
duro, quest’anno!» Due donne gli passarono vicino parlando fitto tra loro,
curve a proteggere dal freddo le mani che reggevano i lumi.
Una
pacca sulla spalla lo fece trasalire: «Eccoci qua!»
«Oh,
babbo. Siete arrivato? M’era preso freddo. Salute, messer Giunta».
Giunta
dei Ricoveri abitava una casa-torre poco più in basso. La sua famiglia, una
delle più in vista in città, era consorte e vicina di casa dei Gamurrini. Avevano
pure un identico stemma, d’azzurro ai tre scacchi d’oro in forma di losanga, ma
i Ricoveri militavano nel campo ghibellino, mentre i Gamurrini, guelfi, erano
esuli insieme a Rinaldo dei Bostoli.
Quella
sera Giunta aveva concesso ai Mauri l’alloggio dei cavalli nella sua stalla ed
ora salivano insieme alla nuova Cattedrale, che il Vescovo Guglielmino avrebbe
consacrato a mezzanotte. Un servo li accompagnava con la torcia.
«Su,
figliolo, ché si fa tardi»
Oltre
il cantiere, la Ruga Mastra era chiusa a destra da un muro che nascondeva campi
e orti, mentre a mancina le fiaccole illuminavano i ruderi di un’antica villa
romana. Più in alto, addossata al muro, si trovava una fonte e il gruppetto si
fermò per riprendere fiato.
Un’ombra
senza lume, incappucciata e avvolta nel mantello, li raggiunse e accennò un
saluto.
«Oh,
Iacomuccio».
Riconobbero
Iacopo, il Campanella, loro prossimo vicino di casa e proprietario appunto
della più famosa fonderia di campane della città: si vantava di regolare la
vita degli Aretini col suono dei suoi capolavori, di farli levare la mattina e
di spedirli a chiudersi in casa a vespro.
I
quattro ripresero insieme a salire, parlando della cerimonia che li aspettava e
chiedendosi cosa avrebbe detto il Vescovo.
In
breve arrivarono al Murello.
La
folla s’infilava nella contrada del Foro, detta del Lastrico per essere stata
la prima via lastricata di Arezzo.
Mauro
si tuffò entusiasta in mezzo a quello sfavillio brulicante di vita. Lo avvolse
il vociare animato, il rumore di ruote, lo scalpiccio dei cavalli.
«Attento,
maledizione!»
Pietro
scattò verso il figlio quando un cavallo imbizzarrito fece roteare le zampe
anteriori sulla sua testa, e lo spinse di lato giusto in tempo. Cadendo, Mauro
travolse i vicini, e diversi vennero atterrati da chi tentava di scansarsi.
Altri cavalli s’impennarono nitrendo. Alle grida si sommarono i richiami dei
cavalieri ai loro animali.
Giunta
e Pietro riconobbero gli artigli del leone rosso sulla gualdrappa gialla:
«Misericordia! L’Ubertini!»
Una frusta
sibilò sulle loro teste ma, anticipando lo schiocco, Pietro l’afferrò al volo
con tutte e due le mani: una presa formidabile nonostante la mutilazione della
destra frutto dello scontro del Toppo. I suoi occhi si fissarono su quelli d’un
giovane addobbato con gli stessi colori del Vescovo. Calcolò freddamente: uno
strattone deciso e il pivello sarebbe finito per terra. Avanzò il piede
sinistro.
«Fermo!»
Guglielmino nel frattempo aveva calmato il suo cavallo e bloccò il parente.
La
piccola testa scoperta da un’estesa calvizie, il volto dominato dal naso prominente
e incorniciato dalla barba bianca ben curata, occhi scuri da cui partiva uno
sguardo duro, il settantenne condottiero si manteneva dritto in sella: «Lascialo,
è solo un ragazzo! E voi, messer Pietro, tenetelo a bada il vostro rampollo!» Dette
di sprone al cavallo: «Ci servirà contro Firenze!» e proseguì verso il Duomo.
Pietro
lasciò la frusta e il cavaliere, rabbioso, la ritirò.
Un
gruppetto fece capannello sul giovane ancora frastornato, e partirono le
recriminazioni: «L’Ubertini e il suo seguito!» «A cavallo, con tutta questa
gente!» «E a noi tocca scansare i loro zoccoli!» «Ma vi sembra un Vescovo?»
«Sempre con l’elmo e la spada, anche alla messa di Natale!»
«Largo!
Largo!»
Una
squillante voce femminile interruppe quel coro di proteste tardive: «Fatemi
passare, porto acqua!» Il gruppo si aprì.
Su
Mauro si chinò un bel volto dall’incarnato roseo acceso da due grandi occhi
neri; ciocche di capelli corvini spuntavano dal cappuccio mal trattenute dal
nastro che le decorava la fronte; il suo sorriso lo riconciliò con la vita.
«Ecco,
bevete».
Mauro
si drizzò sul gomito e sorseggiò dalla brocca senza staccare gli occhi dalla
ragazza: la mano gli tremava e si sentì in imbarazzo.
«Su,
alzatevi». All’invito di Giunta, restituì la brocca alla soccorritrice, che si
voltò e sparì tra la folla.
«Dai!
E’ passata!» lo incoraggiò Pietro, cui non erano sfuggite le occhiate corse tra
i due giovani. S’avviarono verso la Cattedrale con gli ultimi ritardatari.
La
contrada del Lastrico si apriva direttamente sulla spianata del colle di San
Pietro, stracolma di popolo affluito da ogni parte.
Si
dovettero fermare, stretti dalla folla contro le pietre d’angolo del palazzo
vescovile, fatto costruire trent’anni prima dallo stesso Guglielmino. Da
quell’incomodo punto di osservazione, sopra il mare ondeggiante delle teste, il
giovane riusciva a vedere solo l’insolito spettacolo delle due cattedrali: più
vicina l’antica e malridotta chiesa di San Pietro Maggiore. Dietro, la fabbrica
del Duomo nuovo, che il potente Vescovo aveva voluto a gloria di Dio, della Beata Vergine e del patrono San Donato.
Mastro
Campanella si lamentò del fatto che quella gloria non l’avrebbero cantata le
sue nuove campane, dato che il tempio non aveva ancora campanile.
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Il
popolo sopportava paziente le raffiche di tramontano.
Mauro
osservò dubbioso l’incastellatura di legno che sostituiva la facciata mancante.
Pensò
che non s’era mai sentito d’una chiesa consacrata prima del suo completamento.
In
quel momento lì vicino, tra la gente, gli arrivò una voce nota: «Fatemi
passare! Voglio vedere anch’io! E toglietevi!»
Ritto
sulle punte dei piedi e allungando il collo, intravide la ragazza che lo aveva
soccorso mezzora prima. Dimenticò d’essere in compagnia e si dette a sgomitare
per raggiungerla.
Fecero
prima di lui alcuni giovinastri, che l’avvicinarono a forza di spintoni.
«Oh,
bella, vuoi la festa?» «Vieni, ché te la facciamo noi!» «Ah! Ah!» Si ritrovò
addosso facce malcurate, barbe incolte, sudice capigliature. Uno era guercio, e
per maggior bruttura aveva lo zigomo tumefatto, segno d’una lite; un altro era
sdentato e, come spesso avviene che si mettano in mostra i difetti che più si
vorrebbe celare, era proprio quello che sghignazzava maggiormente; il terzo
infine aveva la guancia percorsa da un’oscena cicatrice. Tutti puzzavano di
vino, frutto d’una serata trascorsa a visitar taverne.
L’afferrarono
e la trascinarono via tra l’indifferenza d’una folla che continuava ad
accalcarsi ai piedi del sagrato.
Mauro
sentì le sue grida allontanarsi verso l’angolo opposto del palazzo vescovile e
moltiplicò gli sforzi per raggiungerla. Quando era quasi a metà della facciata,
uno squillo di chiarine annunciò l’uscita del Vescovo dal palazzo. Al rullo dei
tamburi due schiere di armati aprirono un corridoio nella folla, bloccando il
giovane al di qua del portone. Sopra le teste si stagliarono le lance coi
vessilli, le celate dei cavalieri, i musi bardati dei palafreni: nella
variopinta processione si riconoscevano i colori delle nobili casate aretine.
Davanti a tutti Percivalle dei Fieschi inalberava l’insegna imperiale, per
ricordare l’appartenenza della città al campo ghibellino. E difatti ghibelline
erano tutte le insegne che lo seguivano, dopo la cacciata dei guelfi l’anno
prima. A Mauro non restò che seguire impaziente l’avanzare dei pennoni, primi
fra tutti i sei quadri d’oro in campo azzurro dei Tarlati di Pietramala.
Spinse
col pensiero il corteggio di prelati che seguivano a piedi, gravati di
paramenti ricchi di ori e pietre preziose, opera del paziente lavoro di oscure monache.
Volute
d’incenso avvolgevano il portale e avanzavano sulle teste, prima che il vento
ne spandesse il profumo fino agli angoli più lontani della piazza.
Apparve
il Vescovo, e si soffermò sugli scalini ad osservare il suo popolo. Adesso
vestiva i paramenti sacri: posata la spada, impugnava il pastorale; smesso
l’elmo, la sua testa sorreggeva una mitria ricca di gemme. Ma il piglio era lo
stesso.
Mauro
scalpitava. Quando l’Ubertini avanzò, lo seguirono altri Vescovi, convenuti
dalle città amiche, e poi l’Abate di Santa Flora e Lucilla, quello di
Campoleone, quello di Agnano e di altre abbazie minori, ognuno col suo seguito.
Indi uscirono i Canonici della Cattedrale e quelli di Pieve, e infine i pievani
delle chiese battesimali dell’intera diocesi.
Come
Dio volle la processione finì, e Mauro sgusciò lungo il muro del palazzo
voltando l’angolo e infilandosi nella stretta contrada di San Gregorio, sgombra
di gente. Della ragazza neanche l’ombra. Avanzò di qualche passo, ristette,
niente. Fece per rituffarsi nella folla, quando un urlo risuonò nella via.
Allora si slanciò di corsa, l’occhio agli usci a destra e a manca. Ne vide uno
aperto: la sgangherata chiusura d’una stalla, dalla quale provenivano grida e
rumori di lotta. Entrò di slancio.
All’incerta
luce d’una torcia, la scena che si trovò davanti era tutt’altro dal presepe che
vi si poteva rappresentare in quella notte di Natale.
Sulla
paglia lo sdentato teneva ferma la ragazza, lo sfregiato le era sopra e lottava
con lei mentre il guercio, in disparte, imprecava tenendosi la mano
sanguinante, segno della furiosa difesa della loro vittima, che l’aveva
azzannato con un morso. Lei, discinta, combatteva con una forza che gli
sciagurati non s’aspettavano. Lo sdentato, affondandole nei capelli una manaccia
ossuta, continuava a ridere d’un riso isterico. Quello che la teneva sotto,
incapace a domarla, alzava il braccio per colpirla.
In un balzo Mauro gli fu addosso e gli bloccò
la mano. Con uno strattone lo allontanò da lei e con un pugno lo mandò lungo
disteso in mezzo al letame, tra i cavalli già nervosi, che reagirono nitrendo.
Gli altri restarono immobili, sorpresi dall’attacco: il vile coraggio dei
prepotenti svanì come la condensa dei fiati nella notte fredda.
La
più lesta ad approfittare di quell’aiuto fu la ragazza: si liberò dalla presa
dello sdentato, brandì un forcone appoggiato al muro e glielo piantò nel piede.
Quello indietreggiò urlando. I due giovani gli consentirono di guadagnare
l’uscio e di allontanarsi nella contrada insieme ai suoi degni compari.
Ora
non avevano occhi che l’uno per l’altra. In quelli di lei un muto
ringraziamento, mentre lo sguardo di Mauro tradiva premura e preoccupazione.
«Come
state?»
«Mauro,
io...»
«Come
sapete il mio nome?»
«Ma
come? Non ricordate, prima, al Murello?»
«Sì,
certo, già! Io però non lo so, come ti chiami. Sei scappata subito»
«Hai
ragione: io sono Berta». Erano passati al tu
naturalmente, complici le disavventure della serata.
Pronunciando il proprio nome, lei se n’avvide
e s’accorse pure che non s’era ancora ricomposta. Chinò il capo per nascondere
un leggero rossore, mentre cercava di aggiustarsi addosso la tunica. Non le
capitava spesso, di arrossire, e si sentiva a disagio.
Reagì
parlando, mentre riannodava con mano incerta la cintura di cuoio: «Sarebbe
Gualberta, perché sono stata concepita dopo un pellegrinaggio a Vallombrosa e
mio padre s’aspettava un maschio, ma per tutti, da sempre, sono la Berta.
Succede così, dalle nostre parti: i nomi si storpiano, si abbreviano, si
cambiano addirittura. Alla gente piace appiccicare nomignoli o soprannomi. Oh,
ma la cosa non mi dispiace: brutto, Gualberta, e troppo importante. Io sono
pratica. Lavoro, io, e vado fiera di non dipendere da nessuno, tranne che da
mio padre!»
«Berta»
Mauro non le aveva staccato gli occhi di dosso e si fissò in mente quel nome,
ma per lei il sentirlo suonò come un richiamo a chetarsi. «Venite, andiamo a
messa»
«Ma
non posso, in queste condizioni»
«Chi
volete che se n’accorga. Su, datevi una sistemata».
S’affacciarono sulla via: era sgombra e si
diressero insieme verso la Cattedrale.
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