Una teoria di statue edicole fregi tabernacoli
adorna il fianco di Santa Maria de Pontenovo, o della Spina, come han preso a
chiamarla i pisani per via d’una venerata reliquia, doloroso frammento della
crudele corona imposta al Cristo flagellato.
Ma lo sguardo ancora debole di
Vitellozzo era fisso sulla lunga barba d’un evangelista dall’aria sofferente e
quasi disperata.
Faceva impressione vedere il guerriero dal fisico
massiccio appoggiarsi sul bastone, le spalle curve e il collo proteso verso i
marmi bicromi della chiesetta. Pareva che la fila di apostoli scolpiti e lo
stesso Messia si stupissero della sua presenza lì.
«Capitano! Vi trovo, alla fine!»
Sbucato dall’angolo di contrada Sant’Antonio,
Tarlatino s’arrestò tirando il fiato: «Che ci fate qui? Siete ancora troppo
debole per andarvene in giro da solo».
Vitellozzo non staccò gli occhi dal volto di pietra.
Ripetendo un gesto abitudinario, il suo pollice massaggiava il grosso neo che
gli troneggiava sullo zigomo destro. Quando rispose, fu come parlasse tra sé:
«Non voglio ridurmi come questo qui. Sono ancora giovane e non sarà qualche
giorno di febbre a fiaccarmi».
«Venite, su, ché sta per piovere»
«Dio lo volesse!»
Il cielo era gonfio di nubi basse, nere come possono
esserlo solo d’estate, e l’Arno in secca aspettava con ansia la pioggia.
«Secondo te, perché l’han fatto?»
«Cosa?»
«Paolo. Perché me l’hanno ammazzato?»
Tarlatino colse un tremito nelle mani di Vitellozzo
strette sul bastone. Paolo Vitelli, dopo un sommario processo, era stato sottoposto
a tortura ed infine decapitato.
«Mossi dal sospetto, credo, ma più ancora dalla
paura. Avranno pensato che volevate Pisa per voi, e tramite Pisa arrivare forse
al governo della stessa Firenze. Ho l’impressione che non sentano i loro
scranni troppo sicuri. Un potere minacciato vede nemici dappertutto».
Finalmente Vitellozzo si voltò. Dopo i giorni del
morbo, la pelle del suo viso s’era rifatta bianca, d’un bianco però ancora
malato; il dolore e la rabbia gli contraevano la mascella senza riuscire a dar
colore alle guance; le pupille sporgenti apparivano venate di rosso.
«Se temevano di avere due nemici, adesso di sicuro
uno ce l’hanno. Pagheranno cara la loro ingiusta giustizia».
Strascicando i piedi s’avvicinò al tempio, salì i
due gradini del portale ed appoggiò la mano sulla barba dell’evangelista.
«Lo giuro sulla testa di questo vecchio e sulla
memoria di Paolo: combatterò i fiorentini finché avrò fiato, fino a bruciare la
loro superba città!»
Il rombo d’un tuono li raggiunse dalla parte del
mare, sottolineando le sue parole.
«Venite, capitano, è tempo di tornare alla cittadella, prima che si scateni il temporale»
«No, Tarlatino. È tempo piuttosto di tornare a Città
di Castello e preparare la nostra vendetta»
«E Pisa?»
«Tranquillo. Non la lasceremo senza difese. I fiorentini non l’avranno. Anzi, è bene per i nostri piani che restino a lungo impegnati
nell’assedio. Quanta gente ci ha seguito nella fuga?»
«Intorno a duecento uomini, tra soldati e ingegneri»
«Bene. I pisani han dimostrato di sapersi difendere,
ma lasceremo con loro anche la nostra gente. Di più: arrivati a casa metteremo
insieme una compagnia di soldati vecchi, d’esperienza provata. Tu stesso li
condurrai qui».
Tarlatino rimase perplesso mentre offriva la spalla
al suo capitano. Gli era di molto inferiore di statura e il fisico minuto, che
giustificava il suo nomignolo, appariva ancor più gracile al cospetto della
mole di Vitellozzo, ma la non comune perspicacia e insospettate doti di
resistenza fisica ne avevano fatto un compagno prezioso in parecchie battaglie
e un fidato consigliere nei momenti più incerti. Non disse niente, ma il
Vitelli interpretò quel silenzio.
«Che c’è? Non ti vedo convinto»
«E’ che, non avendo più condotta…»
«Ah, ti preoccupi per le paghe, vecchio mercenario!
Ed hai ragione, per il dio della guerra! Chi combatterebbe, senza soldo? Ma lo
puoi dire, ai nostri: presto ci daranno condotta i nemici di Firenze. Il Borgia
non chiede di meglio. E per ora pagherò io quanto occorre. Contento?»
Con un cenno del capo, il luogotenente manifestò il
proprio assenso e insieme altre perplessità. Aveva sempre ammirato il coraggio
e la determinazione del suo capitano e del povero Paolo, e tuttavia lo stato di
salute di Vitellozzo non giustificava entusiasmi. Per di più attaccar Firenze
non era uno scherzo: i priori e i Dieci di Balia non saranno stati quanto di
meglio in fatto di governo, ma la città del Giglio aveva superato momenti forse
più difficili di quello, e se la sua potenza militare non era il massimo, lo
era di certo quella economica, che le procurava alleanze solide. Avrebbe
davvero il Valentino sfidato la repubblica? E cosa ne pensavano il papa e il re
di Francia? Insomma, non era un po’ troppo ambizioso il progetto di Vitellozzo?
Azzardò: «E voi che farete?»
«Me ne starò a casa, no?» Un lampo astuto accese il
viso smunto. «Non hai detto che sono ancora malato?»
Tarlatino s’arrese. Inutile cercar di saperne di
più: quando Vitellozzo faceva così non c’era verso di cavargli altre confidenze.
Ancora un tuono gli fece alzare gli occhi al cielo sempre più cupo. Non avevan
fatto che pochi passi.
«E tu chi sei?»
Di botto il capitano si piantò davanti ad una
giovane donna che gli stava passando a fianco. La puntava da un po’, fissandola
avanzare sul Lungarno, sola e a testa bassa, il cappuccio sul capo. Gli pareva
avesse un’aria familiare.
Lei tentò di scansarlo, ma lui le accostò al collo
l’impugnatura del bastone. Lei s’irrigidì. Lui fece risalire il legno lungo la
guancia, sollevandole una ciocca di capelli insieme al bordo del cappuccio,
fino a scoprirle parte del volto.
In un rigurgito
d’orgoglio alzai la testa e risposi decisa allo sguardo indagatore di
Vitellozzo. Non avevo dimenticato quel naso imponente e sgraziato, l’enorme neo
sullo zigomo, il collo taurino. Erano ancora vivi gl’interminabili giorni e le
notti allucinanti in quel padiglione, in compagnia dei suoi umori e della
febbre, col tormento addosso delle sue mani sudate e nel naso l’odore
penetrante d’urina,
«Ti riconosco» mi
disse, «sei la puttana del campo!»
Poi, rivolto a
Tarlatino: «Te la ricordi anche tu, vero?»
Rimise il bastone a
terra e allungò la mano ad arpionarmi una natica: «E come potrei scordare
queste chiappe sode!»
Sghignazzò un
attimo: «Che ci fai in giro tutta sola, eh? E perché sei in Pisa invece che a
sollazzare i fanti di Firenze?»
Mi stava addosso e
istintivamente mi ritirai.
Volevo fuggire, ma
un’occhiata di Tarlatino mi fece capire che non ci sarei riuscita.
Scappata dal campo
fiorentino, l’ingresso in Pisa mi era costato un’ora in compagnia del capoposto
di turno alla Porta di San Marco. Poi lo stesso armigero mi aveva indicato un
fondaco in rovina, lungo l’Arno, abbandonato dai tempi della prima conquista
fiorentina. Mi ci ero rintanata, in un angolo buio ma riparato, formando un
giaciglio con la poca paglia asciutta d’una stalla attigua. In attesa di
trovarmi un lavoro onesto, ero sopravvissuta accettando le visite del soldato e
di alcuni suoi commilitoni: in fondo, non erano diversi dagli armati fiorentini
e certo meno brutali di quel capitano sudicio e malato.
«Sei muta? Anche al
campo, ora che ci penso, non ho mai sentito la tua voce, né saputo il tuo nome…
Non importa. M’hai fatto servizio lo stesso, e voglio dimostrarti la mia
gratitudine. Hai conosciuto Vitellozzo malato. Ora voglio che tu lo conosca
guarito: t’assicuro che sarà molto più divertente!»
Ancora una risata,
coperta da un tuono più forte e vicino dei precedenti, mi gelò il sudore lungo
la schiena. Tarlatino mi prese in consegna, costringendomi a seguirli verso la cittadella.
Prima di attraversare il Ponte a Mare, Vitellozzo
gettò un’occhiata dalla parte di Stampace, dove squadre di uomini donne e
ragazzi erano impegnati nel frenetico lavoro di ricostruzione dei tratti di
mura abbattuti dalle sue artiglierie: la presa del forte era stata proprio un
capolavoro d’arte militare. Ancora qualche giorno, accidenti, e in Pisa ci
sarebbero entrati in trionfo, lui e suo fratello!
Arrivarono alla Porta dell’Arsenale mentre i primi
goccioloni annunciavano l’inizio della pioggia tanto attesa.
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