giovedì 19 marzo 2020

EPISODIO 9: GUAI ALLE FORZE DEL MALE!


Entrarono nel tempio. Il profumo d’incenso si mescolava all’odore della cera calda di centinaia di candele. Gli occhi di Mauro seguirono le volute di fumo che risalivano le colonne, verso le volte; il gioco degli incroci sul soffitto accompagnò il suo sguardo fino all’abside, per poi spingerlo a vagare tra gli effetti decorativi della pietra, liberata dal suo peso materiale per divenire un insieme armonioso di linee protese verso l’alto.

Lo spettacolo dello stile gotico lo lasciò senza fiato, l’altezza delle volte gli dette il capogiro, lo stupore si mescolò ad un senso di leggerezza e di gioia. Intorno a lui gli Aretini, avvezzi alla serietà maestosa ma pesante oscura spoglia delle vetuste pievi romane, tenevano il naso in aria per assorbire la novità di quella meraviglia.
La nuova Cattedrale era stracolma di popolo in piedi, mentre la parte più vicina al presbiterio, riservata alle famiglie magnatizie e nobili, era occupata da file di sedioli, via via più ricchi e imbottiti man mano che ci si avvicinava all’altare, crescendo con essi l’importanza degli occupanti. Mauro e la Berta raggiunsero Pietro nell’ultima fila di quei sedioli, in legno semplicemente lavorato, mentre il coro modulava il ritmo dei versi di un salmo.
Alla vista del figlio, Pietro lo apostrofò sottovoce: «Mauro! Alla buonora!»
«Questa è la Berta».
La guardò di sbieco.
«Vedo. V’ho vista prima, al Murello» e poi ancora al figlio: «Qui siamo già un pezzo avanti!»
«Può prendere messa con noi?»
«Messa? Quel che ne resta!» Dalla fila davanti si voltarono in due chiedendo silenzio con l’indice alla bocca.
Al centro del presbiterio, il Vescovo, mitria in testa e pastorale in mano, si alzò. Davanti a lui l’altare, un’unica grande lastra di pietra lunga più di sei braccia larga più di tre e dello spessore di mezzo braccio, sorretta da paretine di pietra lavorata, con archetti trilobi e capitelli scolpiti. Altri vescovi gli facevano corona e alle sue spalle, lungo le pareti dell’abside, erano schierati i Canonici del Duomo e di Pieve.
Un chierico gli porse un cofanetto d’argento coperto da un batuffolo d’ovatta. Mentre dal coro si levava un canto a più voci, il Vescovo girò intorno all’altare e ne unse i quattro angoli con l’olio santo contenuto nel vasetto. Poi, seguito dal chierico, compì il giro della chiesa, consacrando allo stesso modo gli altari laterali, le pareti e le colonne.
Mentre tornava al presbiterio, dal coro si levò il Te Deum di ringraziamento. Guglielmino afferrò l’aspersorio: con l’acqua benedetta ripeté il giro, e la folla orante gli lasciava man mano un angusto passaggio che si richiudeva alle sue spalle.
Un terzo giro concluse il rito, il turibolo agitato ora ad inviare bianche volute d’incenso verso le volte.

Finalmente tornò al leggio e si mise a tormentare con le dita il prezioso pastorale. Tutti gli occhi erano per lui. Il coro smorzò l’ennesimo salmo e sulle navate calò il silenzio.
«Aretini, fratelli in Cristo! Finalmente abbiamo una nuova, splendida Cattedrale!»
Alzò lo sguardo alle volte: «E non è per caso, ma per volontà divina, che siamo qui stanotte, in un Natale diverso dal solito. Osserviamo il meraviglioso disegno dell’Altissimo. Dio ha posto il Sommo Pontefice a difesa dell’Ordine Celeste».
Pausa. Accanto al leggio le insegne degli Ubertini.
«E l’Imperatore a difesa dell’ordine terreno».
Nuova pausa. Fissò gli uditori come ad imprimere nelle loro menti quei principi fondamentali.
«Da secoli la nostra famiglia, le altre famiglie nobili, i magnati e il popolo tutto di Arezzo sono fedeli a questi due Ordini!»
Un brusio prese corpo per tutta la chiesa: la gente si chiedeva dove volesse arrivare. La mano appena alzata di Guglielmino riportò il silenzio: «Dai tempi antichi il Vescovo di Arezzo si fregia del titolo di Conte. Noi, che abbiamo appena consacrato questo nuovo tempio, siamo l’ultimo anello della dinastia degli Antistiti!» Piantò gli occhi sul Podestà e sui Priori del Comune, che assistevano dai primi posti della navata di destra. «Ed anche il vostro signore, a gloria di Dio!» Le autorità comunali, perennemente affannate a far valere il loro potere, a questo richiamo abbassarono il capo.
Si voltò quindi alla navata di sinistra, dove stavano ritti suo nipote Guglielmo dei Pazzi del Valdarno, il Capitano di guerra Buonconte di Guido da Montefeltro e il Legato imperiale Percivalle Fieschi: «Per oltre quarant’anni abbiamo combattuto per riportare in Italia la gloria dell’Impero!»
Un’occhiata compiaciuta andò alle insegne al suo fianco e a quelle dei nobili ghibellini in prima fila, dei Tarlati, degli Azzi, dei Bacci, dei Barbolani, dei Caponsacchi.
«La nostra nuova Cattedrale veglia da oggi su una città ed un contado forti e leali a difesa dell’ordine voluto da Dio».
Puntò l’indice verso il fondo della chiesa: «Guai!»
La moltitudine di artigiani mercanti e popolo in piedi, fu percorsa da un moto d’inquietudine, ma lui guardava oltre, fuori dal duomo e dalla città, in direzione di Firenze e di Siena.
«Guai alle forze del Male! Guai a coloro che per vile commercio e per il dio denaro pretendono di scardinare il disegno divino! Quantus tremor est futurus, quando Iudex est venturus!»
La minaccia rimbalzò a lungo per le navate, suonando come una ineluttabile promessa di guerra.
«Ed ora in ginocchio!» Con rumor di ferraglia, stridore di legni delle sedie spostate e frusciar di vesti, l’ordine venne prontamente obbedito.
«Benedicat vos Omnipotens Deus... Pater... et Filius... et Spiritus Sanctus». Gli rispose un possente Amen!, e il popolo si fece il segno di croce.
Non aveva finito: «L’anno che comincia oggi, questo 1289, verrà ricordato a lungo. State pronti! Presto sarà la resa dei conti tra il Bene e il Male!» Levò le braccia all’Eterno e terminò in latino: «Confutatis maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis!» Poi tornò zoppicando alla sua sedia.
Un gruppo di chierici attaccò il Pater Noster, ripetuto dal popolo in un lugubre mormorio, mentre altri accoliti sparsi per la chiesa aggiungevano incenso ai turiboli e li agitavano, avvolgendo le navate in una nebbia carica di funesti presagi.


Finita la cerimonia s’imbrancarono verso l’uscita, e la Berta afferrò la mano di Mauro: «Che discorso! Ho i brividi».
Fuori, la notte era percorsa dal tramontano. Il sagrato era ancora illuminato dalle torce che si andavano tuttavia esaurendo, i banchi dei venditori, sulla spianata sotto di loro, erano ormai chiusi, e un drappello di guardie del Vescovo continuava il suo giro di ronda. Giunta salutò gli amici affrettandosi verso casa.
La Berta tremava e Pietro se ne accorse: «Andiamo, per stanotte ho chiesto ospitalità ai buoni padri del convento di San Marco, al Murello, ma prima bisognerà accompagnare questa gentil fanciulla, se ci dice dove abita»
«Qui vicino, nella contrada di Bongianni, appena prima della chiesa di San Domenico. Son pochi passi e non c’è bisogno che v’incomodate»
«Nessun incomodo. A quest’ora non si lascia una fanciulla per la via, e mentre andiamo ci direte un po’ di voi. Vero, Mauro?» Il giovane annuì, non trovando una scusa buona per poterla accompagnare lui solo.
La Berta si sentì sotto esame e decise di togliersi rapidamente il pensiero: «Son l’unica figlia di Bencio bicchieraio e aiuto il babbo nel lavoro. E tengo anche la casa e lavo e fo da mangiare, perché, sapete, mia madre morì per mettermi al mondo».
Non poteva trovare attacco migliore: aveva toccato le corde giuste, ché gli uomini, e soprattutto i cavalieri, ammirano chi reagisce alle sventure della vita. Si godette gli sguardi di simpatia e seguitò: «Si fa di tutto, piatti coppe vasi, sia di vetro che di ceramica, e si vendono nella bottega sotto casa».
Erano già all’imbocco della contrada di Bongianni: «Ecco, abito proprio laggiù, dopo il muro dell’orto dei Visdomini».
Pietro sbirciò il figlio che pendeva dalle labbra della Berta, e poi, rivolto alla ragazza, scandì: «Dunque siete vasari» e si leggeva nel tono della voce quella punta di superiorità dei signori di campagna. C’era tuttavia anche un senso di rispetto, perché l’arte della ceramica vantava in Arezzo tradizioni antiche e molti artigiani s’erano fatti una solida posizione economica.
«Presto s’aprirà bottega in Borgo Maestro. Per via delle fonti, sapete: dove si sta ora d’acqua ce n’è poca». Ma lo disse per l’orgoglio di andare sulla via più importante d’Arezzo.
Dalla parte di San Clemente una campana buttò due tocchi e la Berta sgusciò via di corsa: «Vado sola, son giunta. Buonanotte!» Sparì prima che Mauro potesse dire: «Vi rivedo?»
Leggendogli la delusione negli occhi, il padre gli passò una mano sulla spalla e insieme tornarono al Murello.
Si fermarono, affacciandosi al muro antico che arrivava loro al petto. Il vento gelido teneva l’aria tersa e sotto un cielo affollato di stelle la luna lasciava distinguere la sagoma del Pratomagno, solida montagna che chiude la piana ad occidente della città. Sotto di loro, le torce del corpo di guardia della Porta del Foro lanciavano bagliori sulle pietre della cinta. Il chiarore permetteva all’occhio di risalire il solco della Ruga Mastra fino al cantiere della loro casa di città.
«Verrà sù un bel palazzo, vero, babbo?»
«Puoi ben dirlo! Non avrà nulla da invidiare a quelli delle altre famiglie nobili, ma sarà diverso»
«Diverso?»
«Hai visto la nuova Cattedrale. I tempi cambiano, figlio mio, e non solo per le chiese. Le case-torri sono scomodi manieri e ben triste è viverci rinchiusi. E non servono, del resto, ad impedir vendette tradimenti e uccisioni. Noi faremo porte ampie e grandi finestre»
«Già me l’immagino, il cortile colonnato col pozzo nel mezzo, e il salone col grande camino, e il soffitto a cassettoni di legno dipinto»
«Come corri! Intanto andiamo, ché è tardi».
Si chiusero nei mantelli e andarono a tirar la corda della campanella del convento.
Li accolse fra Giacomo e li accompagnò alla stanzetta che aveva preparato per loro, nella foresteria: «Attenti alla testa. Qui le porte sono anguste».
Dalla bugia che teneva in mano accese una candela sul piccolo tavolo e fece per congedarsi: «Sia lodato Gesù Cristo. Santa notte, anche se non resta molto tempo per il vostro sonno»
«Buon riposo anche a voi»
«Oh, io non tornerò neanche a coricarmi: il convento ha i suoi orari e tra un’ora c’è mattutino »
«Perché allora non ci raccontate un po’ di storia dell’Ab-bazia?» Mauro non aveva sonno.
Il convento del Murello e una vasta area dentro la Porta del Foro, compresa la Ruga Mastra e il terreno sul quale stava sorgendo la loro casa, dipendevano dall’Abbazia di Campoleone, un antico monastero benedettino sorto intorno all’anno Mille sulle colline del Basso Casentino, così ricco e potente che in Arezzo gli erano pari soltanto la Badia di Santa Flora alla Torrita e l’Episcopio del Pionta.

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