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Entrarono
nel tempio. Il profumo d’incenso si mescolava all’odore della cera calda di
centinaia di candele. Gli occhi di Mauro seguirono le volute di fumo che
risalivano le colonne, verso le volte; il gioco degli incroci sul soffitto
accompagnò il suo sguardo fino all’abside, per poi spingerlo a vagare tra gli effetti
decorativi della pietra, liberata dal suo peso materiale per divenire un
insieme armonioso di linee protese verso l’alto.
Lo
spettacolo dello stile gotico lo lasciò senza fiato, l’altezza delle
volte gli dette il capogiro, lo stupore si mescolò ad un senso di leggerezza e
di gioia. Intorno a lui gli Aretini, avvezzi alla serietà maestosa ma pesante
oscura spoglia delle vetuste pievi romane, tenevano il naso in aria per
assorbire la novità di quella meraviglia.
La nuova
Cattedrale era stracolma di popolo in piedi, mentre la parte più vicina al
presbiterio, riservata alle famiglie magnatizie e nobili, era occupata da file
di sedioli, via via più ricchi e imbottiti man mano che ci si avvicinava
all’altare, crescendo con essi l’importanza degli occupanti. Mauro e la Berta
raggiunsero Pietro nell’ultima fila di quei sedioli, in legno semplicemente lavorato,
mentre il coro modulava il ritmo dei versi di un salmo.
Alla
vista del figlio, Pietro lo apostrofò sottovoce: «Mauro! Alla buonora!»
«Questa
è la Berta».
La
guardò di sbieco.
«Vedo.
V’ho vista prima, al Murello» e poi ancora al figlio: «Qui siamo già un pezzo
avanti!»
«Può
prendere messa con noi?»
«Messa?
Quel che ne resta!» Dalla fila davanti si voltarono in due chiedendo silenzio
con l’indice alla bocca.
Al
centro del presbiterio, il Vescovo, mitria in testa e pastorale in mano, si
alzò. Davanti a lui l’altare, un’unica grande lastra di pietra lunga più di sei
braccia larga più di tre e dello spessore di mezzo braccio, sorretta da paretine
di pietra lavorata, con archetti trilobi e capitelli scolpiti. Altri vescovi
gli facevano corona e alle sue spalle, lungo le pareti dell’abside, erano
schierati i Canonici del Duomo e di Pieve.
Un
chierico gli porse un cofanetto d’argento coperto da un batuffolo d’ovatta.
Mentre dal coro si levava un canto a più voci, il Vescovo girò intorno all’altare
e ne unse i quattro angoli con l’olio santo contenuto nel vasetto. Poi, seguito
dal chierico, compì il giro della chiesa, consacrando allo stesso modo gli
altari laterali, le pareti e le colonne.
Mentre
tornava al presbiterio, dal coro si levò il Te Deum di ringraziamento. Guglielmino
afferrò l’aspersorio: con l’acqua benedetta ripeté il giro, e la folla orante
gli lasciava man mano un angusto passaggio che si richiudeva alle sue spalle.
Un
terzo giro concluse il rito, il turibolo agitato ora ad inviare bianche volute d’incenso
verso le volte.
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Finalmente
tornò al leggio e si mise a tormentare con le dita il prezioso pastorale. Tutti
gli occhi erano per lui. Il coro smorzò l’ennesimo salmo e sulle navate calò il
silenzio.
«Aretini,
fratelli in Cristo! Finalmente abbiamo una nuova, splendida Cattedrale!»
Alzò
lo sguardo alle volte: «E non è per caso, ma per volontà divina, che siamo qui
stanotte, in un Natale diverso dal solito. Osserviamo il meraviglioso disegno
dell’Altissimo. Dio ha posto il Sommo Pontefice a difesa dell’Ordine Celeste».
Pausa.
Accanto al leggio le insegne degli Ubertini.
«E
l’Imperatore a difesa dell’ordine terreno».
Nuova
pausa. Fissò gli uditori come ad imprimere nelle loro menti quei principi
fondamentali.
«Da
secoli la nostra famiglia, le altre famiglie nobili, i magnati e il popolo
tutto di Arezzo sono fedeli a questi due Ordini!»
Un
brusio prese corpo per tutta la chiesa: la gente si chiedeva dove volesse
arrivare. La mano appena alzata di Guglielmino riportò il silenzio: «Dai tempi
antichi il Vescovo di Arezzo si fregia del titolo di Conte. Noi, che abbiamo
appena consacrato questo nuovo tempio, siamo l’ultimo anello della dinastia
degli Antistiti!» Piantò gli occhi sul Podestà e sui Priori del Comune, che
assistevano dai primi posti della navata di destra. «Ed anche il vostro
signore, a gloria di Dio!» Le autorità comunali, perennemente affannate a far
valere il loro potere, a questo richiamo abbassarono il capo.
Si
voltò quindi alla navata di sinistra, dove stavano ritti suo nipote Guglielmo
dei Pazzi del Valdarno, il Capitano di guerra Buonconte di Guido da Montefeltro
e il Legato imperiale Percivalle Fieschi: «Per oltre quarant’anni abbiamo
combattuto per riportare in Italia la gloria dell’Impero!»
Un’occhiata
compiaciuta andò alle insegne al suo fianco e a quelle dei nobili ghibellini in
prima fila, dei Tarlati, degli Azzi, dei Bacci, dei Barbolani, dei Caponsacchi.
«La
nostra nuova Cattedrale veglia da oggi su una città ed un contado forti e leali
a difesa dell’ordine voluto da Dio».
Puntò
l’indice verso il fondo della chiesa: «Guai!»
La
moltitudine di artigiani mercanti e popolo in piedi, fu percorsa da un moto
d’inquietudine, ma lui guardava oltre, fuori dal duomo e dalla città, in
direzione di Firenze e di Siena.
«Guai
alle forze del Male! Guai a coloro che per vile commercio e per il dio denaro pretendono
di scardinare il disegno divino! Quantus
tremor est futurus, quando Iudex est venturus!»
La
minaccia rimbalzò a lungo per le navate, suonando come una ineluttabile promessa
di guerra.
«Ed
ora in ginocchio!» Con rumor di ferraglia, stridore di legni delle sedie
spostate e frusciar di vesti, l’ordine venne prontamente obbedito.
«Benedicat vos Omnipotens Deus... Pater... et Filius...
et Spiritus Sanctus». Gli
rispose un possente Amen!, e il popolo si fece il segno di croce.
Non
aveva finito: «L’anno che comincia oggi, questo 1289, verrà ricordato a lungo.
State pronti! Presto sarà la resa dei conti tra il Bene e il Male!» Levò le
braccia all’Eterno e terminò in latino: «Confutatis maledictis, flammis
acribus addictis, voca me cum benedictis!» Poi tornò zoppicando alla sua
sedia.
Un
gruppo di chierici attaccò il Pater Noster, ripetuto dal popolo in un
lugubre mormorio, mentre altri accoliti sparsi per la chiesa aggiungevano
incenso ai turiboli e li agitavano, avvolgendo le navate in una nebbia carica di
funesti presagi.
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Finita
la cerimonia s’imbrancarono verso l’uscita, e la Berta afferrò la mano di
Mauro: «Che discorso! Ho i brividi».
Fuori,
la notte era percorsa dal tramontano. Il sagrato era ancora illuminato dalle
torce che si andavano tuttavia esaurendo, i banchi dei venditori, sulla
spianata sotto di loro, erano ormai chiusi, e un drappello di guardie del
Vescovo continuava il suo giro di ronda. Giunta salutò gli amici affrettandosi
verso casa.
La
Berta tremava e Pietro se ne accorse: «Andiamo, per stanotte ho chiesto
ospitalità ai buoni padri del convento di San Marco, al Murello, ma prima
bisognerà accompagnare questa gentil fanciulla, se ci dice dove abita»
«Qui
vicino, nella contrada di Bongianni, appena prima della chiesa di San Domenico.
Son pochi passi e non c’è bisogno che v’incomodate»
«Nessun
incomodo. A quest’ora non si lascia una fanciulla per la via, e mentre andiamo
ci direte un po’ di voi. Vero, Mauro?» Il giovane annuì, non trovando una scusa
buona per poterla accompagnare lui solo.
La
Berta si sentì sotto esame e decise di togliersi rapidamente il pensiero: «Son
l’unica figlia di Bencio bicchieraio e aiuto il babbo nel lavoro. E tengo anche
la casa e lavo e fo da mangiare, perché, sapete, mia madre morì per mettermi al
mondo».
Non
poteva trovare attacco migliore: aveva toccato le corde giuste, ché gli uomini,
e soprattutto i cavalieri, ammirano chi reagisce alle sventure della vita. Si
godette gli sguardi di simpatia e seguitò: «Si fa di tutto, piatti coppe vasi,
sia di vetro che di ceramica, e si vendono nella bottega sotto casa».
Erano
già all’imbocco della contrada di Bongianni: «Ecco, abito proprio laggiù, dopo
il muro dell’orto dei Visdomini».
Pietro
sbirciò il figlio che pendeva dalle labbra della Berta, e poi, rivolto alla
ragazza, scandì: «Dunque siete vasari» e si leggeva nel tono della voce quella
punta di superiorità dei signori di campagna. C’era tuttavia anche un senso di
rispetto, perché l’arte della ceramica vantava in Arezzo tradizioni antiche e
molti artigiani s’erano fatti una solida posizione economica.
«Presto
s’aprirà bottega in Borgo Maestro. Per via delle fonti, sapete: dove si sta ora
d’acqua ce n’è poca». Ma lo disse per l’orgoglio di andare sulla via più
importante d’Arezzo.
Dalla
parte di San Clemente una campana buttò due tocchi e la Berta sgusciò via di
corsa: «Vado sola, son giunta. Buonanotte!» Sparì prima che Mauro potesse dire:
«Vi rivedo?»
Leggendogli
la delusione negli occhi, il padre gli passò una mano sulla spalla e insieme
tornarono al Murello.
Si
fermarono, affacciandosi al muro antico che arrivava loro al petto. Il vento
gelido teneva l’aria tersa e sotto un cielo affollato di stelle la luna
lasciava distinguere la sagoma del Pratomagno, solida montagna che chiude la piana
ad occidente della città. Sotto di loro, le torce del corpo di guardia della
Porta del Foro lanciavano bagliori sulle pietre della cinta. Il chiarore
permetteva all’occhio di risalire il solco della Ruga Mastra fino al cantiere
della loro casa di città.
«Verrà
sù un bel palazzo, vero, babbo?»
«Puoi
ben dirlo! Non avrà nulla da invidiare a quelli delle altre famiglie nobili, ma
sarà diverso»
«Diverso?»
«Hai
visto la nuova Cattedrale. I tempi cambiano, figlio mio, e non solo per le
chiese. Le case-torri sono scomodi manieri e ben triste è viverci rinchiusi. E
non servono, del resto, ad impedir vendette tradimenti e uccisioni. Noi faremo
porte ampie e grandi finestre»
«Già
me l’immagino, il cortile colonnato col pozzo nel mezzo, e il salone col grande
camino, e il soffitto a cassettoni di legno dipinto»
«Come
corri! Intanto andiamo, ché è tardi».
Si
chiusero nei mantelli e andarono a tirar la corda della campanella del
convento.
Li
accolse fra Giacomo e li accompagnò alla stanzetta che aveva preparato per loro,
nella foresteria: «Attenti alla testa. Qui le porte sono anguste».
Dalla
bugia che teneva in mano accese una candela sul piccolo tavolo e fece per
congedarsi: «Sia lodato Gesù Cristo. Santa notte, anche se non resta molto
tempo per il vostro sonno»
«Buon
riposo anche a voi»
«Oh,
io non tornerò neanche a coricarmi: il convento ha i suoi orari e tra un’ora
c’è mattutino »
«Perché
allora non ci raccontate un po’ di storia dell’Ab-bazia?» Mauro non aveva sonno.
Il convento del Murello e una vasta area dentro la
Porta del Foro, compresa la Ruga Mastra e il terreno sul quale stava sorgendo
la loro casa, dipendevano dall’Abbazia di Campoleone, un antico monastero
benedettino sorto intorno all’anno Mille sulle colline del Basso Casentino,
così ricco e potente che in Arezzo gli erano pari soltanto la Badia di Santa Flora
alla Torrita e l’Episcopio del Pionta.
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