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Nel
palazzotto che i Priori di Firenze avevano messo a disposizione degli esuli
aretini, Rinaldo dei Bostoli stava passando il secondo Natale solitario dopo la
sua cacciata da Arezzo.
Quella
lega con Fiorentini e Senesi gli andava stretta, e ne avrebbe fatto volentieri
a meno.
«Andiamo
a chiedere asilo a Firenze» proposero in molti la stessa notte dell’esilio,
rifugiati nello spedale di Santa Maria sopra i Ponti, proprio fuori della Porta
del Borgo.
«No»
replicò Rinaldo meravigliando i più. «Non subito» si corresse, «perché non
sembri che mendichiamo aiuto. Siamo ancora forti e possiamo dir la nostra.
Riuniamo le masnade dai nostri castelli del contado: metteremo insieme un
esercito, piccolo magari, ma in grado di produrre guasti».
La
proposta piacque e così si fece. Nel giro di qualche giorno si organizzò
un’oste, che nel corso dell’estate s’impadronì con facilità dei castelli di
Rondine e di Monte San Savino.
E fu
proprio a Rondine, nel maniero sulla Cassia Antica a strapiombo sulle gole
dell’Arno, che Rinaldo ricevette ai primi di settembre una nuova visita dei due
notai fiorentini. Come li ebbe davanti, gli tornò l’impressione sgradevole del
primo incontro.:il loro sguardo aveva un che di beffardo, come a rinfacciargli
l’eccesso di fiducia riposta sulla lealtà dei ghibellini.
«Avremmo
preferito» disse malignamente uno dei due «incontrarvi stavolta dentro le mura
di Arezzo»
«Ho
la coscienza tranquilla» si risentì «e la serenità d’aver fatto quello che era
giusto»
«Spesso
il bando è la moneta che ripaga la lealtà» aggiunse l’altro. «Ma non siamo qui
per recriminare» proseguì conciliante. «Firenze è molto preoccupata per la
situazione aretina: ormai si configura una vera e propria signoria del Vescovo
sulla città»
«E’
vero, ma covano malumori, nelle casate ghibelline».
Il
primo notaio insisté: «Resta comunque il fatto che nessuno gli s’è opposto»
«Firenze
si sente minacciata» riprese il secondo. «I Priori hanno ricevuto il mandato di
fare tutto il necessario per difendere i nostri interessi»
«Come
vedete, i guelfi aretini, pur traditi ed esuli, non si sono certo arresi»
«Proprio
per questo vi invitiamo ad unirvi alle altre città toscane. Entrate nella Lega
guelfa e vi riporteremo in città».
Stavolta
Rinaldo non trovò argomenti per tirarsi indietro. Troppa la nostalgia, troppi i
mesi, gli anni di esilio, troppo pochi i giorni in cui si era goduto casa sua
dopo il primo rientro e l’uccisione di Guelfo da Lucca. E poi il pensiero
fisso, struggente, di Ippolita. Non c’erano alternative e lo sapeva bene: da
soli gli esuli potevano dar fastidio agli avversari, ma non sarebbero mai stati
in grado di riprendere la città.
Martedì
7 di ottobre del 1287, in un tiepido pomeriggio di sole, i guelfi aretini
entrarono in Firenze, accolti come alleati.
Non
vi trovarono però quella concordia e determinazione in cui avevano sperato.
Tutt’altro.
Come
spesso accade, quando non ci sono nemici esterni, che si creino divisioni nella
stessa casa o gruppo o fazione, così la dea della discordia aveva sparso i suoi
semi a piene mani tra i guelfi di Firenze e Rinaldo si trovò di fronte almeno
due partiti.
Vieri
dei Cerchi, capo del banco di famiglia e della consorteria più potente di
Firenze, caldeggiava, per moderazione personale e interessi, una soluzione
diplomatica con Arezzo. In più di un’occasione Rinaldo lo aveva sollecitato ad
agire, ricevendone in risposta inviti alla pazienza, ché il tempo tutto
aggiusta.
Le
sue speranze s’appuntarono allora su un personaggio di carattere e tempra ben
diverse. Meno ricco e pur nobile, Corso Donati s’era fatto un nome per la sua
arroganza e la smania di potere. Non esitava a calpestare chiunque gli s’opponesse,
fin nella sua stessa famiglia.
Non
era, diciamolo, un bel soggetto, ma a Rinaldo appariva l’unico che mirasse davvero
a strappare ai ghibellini le città toscane e quindi anche Arezzo.
Da
anni chiedeva, ad esempio, che tutti i Comuni sulla strada da Roma a Pisa la
finissero d’imporre pedaggi ai mercanti fiorentini di passaggio, altrimenti si
facesse viva guerra per impadronirsi
delle loro terre.
Rinaldo
gli indirizzava frequenti missive, e Corso le usava per sostenere in Consiglio
le sue tesi bellicose.
Le
speranze degli esuli s’erano riaccese nel giugno dell’anno prima, quando i
Fiorentini avevano assediato Arezzo, ma sappiamo com’era finita. Il Bostoli e
gli altri erano nel campo dell’Olmo la maledetta notte del pauroso temporale
che aveva costretto l’oste guelfa ad abbandonar l’impresa, e poi n’era seguito
l’agguato del Toppo.
Nel
suo secondo Natale da esule, dunque, dopo aver preso messa in San Giovanni con
gli altri fuoriusciti, aveva cortesemente respinto l’invito al pranzo comune,
adducendo che non c’era proprio niente da festeggiare. S’era invece disposto a
trascorrerlo in solitudine, masticando rabbia e delusione, nutrendo la mente
con improbabili piani per rientrare in città, cullando il rimpianto per la pace
del castello di Lorenzano e ingrossando il fegato con l’immagine d’Ippolita che
scaldava il letto di Boso.
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