giovedì 26 marzo 2020

EPISODIO 13 - NATALE IN ESILIO



Nel palazzotto che i Priori di Firenze avevano messo a disposizione degli esuli aretini, Rinaldo dei Bostoli stava passando il secondo Natale solitario dopo la sua cacciata da Arezzo.
Quella lega con Fiorentini e Senesi gli andava stretta, e ne avrebbe fatto volentieri a meno.

«Andiamo a chiedere asilo a Firenze» proposero in molti la stessa notte dell’esilio, rifugiati nello spedale di Santa Maria sopra i Ponti, proprio fuori della Porta del Borgo.
«No» replicò Rinaldo meravigliando i più. «Non subito» si corresse, «perché non sembri che mendichiamo aiuto. Siamo ancora forti e possiamo dir la nostra. Riuniamo le masnade dai nostri castelli del contado: metteremo insieme un esercito, piccolo magari, ma in grado di produrre guasti».
La proposta piacque e così si fece. Nel giro di qualche giorno si organizzò un’oste, che nel corso dell’estate s’impadronì con facilità dei castelli di Rondine e di Monte San Savino.
E fu proprio a Rondine, nel maniero sulla Cassia Antica a strapiombo sulle gole dell’Arno, che Rinaldo ricevette ai primi di settembre una nuova visita dei due notai fiorentini. Come li ebbe davanti, gli tornò l’impressione sgradevole del primo incontro.:il loro sguardo aveva un che di beffardo, come a rinfacciargli l’eccesso di fiducia riposta sulla lealtà dei ghibellini.
«Avremmo preferito» disse malignamente uno dei due «incontrarvi stavolta dentro le mura di Arezzo»
«Ho la coscienza tranquilla» si risentì «e la serenità d’aver fatto quello che era giusto»
«Spesso il bando è la moneta che ripaga la lealtà» aggiunse l’altro. «Ma non siamo qui per recriminare» proseguì conciliante. «Firenze è molto preoccupata per la situazione aretina: ormai si configura una vera e propria signoria del Vescovo sulla città»
«E’ vero, ma covano malumori, nelle casate ghibelline».
Il primo notaio insisté: «Resta comunque il fatto che nessuno gli s’è opposto»
«Firenze si sente minacciata» riprese il secondo. «I Priori hanno ricevuto il mandato di fare tutto il necessario per difendere i nostri interessi»
«Come vedete, i guelfi aretini, pur traditi ed esuli, non si sono certo arresi»
«Proprio per questo vi invitiamo ad unirvi alle altre città toscane. Entrate nella Lega guelfa e vi riporteremo in città».
Stavolta Rinaldo non trovò argomenti per tirarsi indietro. Troppa la nostalgia, troppi i mesi, gli anni di esilio, troppo pochi i giorni in cui si era goduto casa sua dopo il primo rientro e l’uccisione di Guelfo da Lucca. E poi il pensiero fisso, struggente, di Ippolita. Non c’erano alternative e lo sapeva bene: da soli gli esuli potevano dar fastidio agli avversari, ma non sarebbero mai stati in grado di riprendere la città.
Martedì 7 di ottobre del 1287, in un tiepido pomeriggio di sole, i guelfi aretini entrarono in Firenze, accolti come alleati.
Non vi trovarono però quella concordia e determinazione in cui avevano sperato. Tutt’altro.
Come spesso accade, quando non ci sono nemici esterni, che si creino divisioni nella stessa casa o gruppo o fazione, così la dea della discordia aveva sparso i suoi semi a piene mani tra i guelfi di Firenze e Rinaldo si trovò di fronte almeno due partiti.
Vieri dei Cerchi, capo del banco di famiglia e della consorteria più potente di Firenze, caldeggiava, per moderazione personale e interessi, una soluzione diplomatica con Arezzo. In più di un’occasione Rinaldo lo aveva sollecitato ad agire, ricevendone in risposta inviti alla pazienza, ché il tempo tutto aggiusta.
Le sue speranze s’appuntarono allora su un personaggio di carattere e tempra ben diverse. Meno ricco e pur nobile, Corso Donati s’era fatto un nome per la sua arroganza e la smania di potere. Non esitava a calpestare chiunque gli s’opponesse, fin nella sua stessa famiglia.
Non era, diciamolo, un bel soggetto, ma a Rinaldo appariva l’unico che mirasse davvero a strappare ai ghibellini le città toscane e quindi anche Arezzo.
Da anni chiedeva, ad esempio, che tutti i Comuni sulla strada da Roma a Pisa la finissero d’imporre pedaggi ai mercanti fiorentini di passaggio, altrimenti si facesse viva guerra per impadronirsi delle loro terre.
Rinaldo gli indirizzava frequenti missive, e Corso le usava per sostenere in Consiglio le sue tesi bellicose.
Le speranze degli esuli s’erano riaccese nel giugno dell’anno prima, quando i Fiorentini avevano assediato Arezzo, ma sappiamo com’era finita. Il Bostoli e gli altri erano nel campo dell’Olmo la maledetta notte del pauroso temporale che aveva costretto l’oste guelfa ad abbandonar l’impresa, e poi n’era seguito l’agguato del Toppo.
Nel suo secondo Natale da esule, dunque, dopo aver preso messa in San Giovanni con gli altri fuoriusciti, aveva cortesemente respinto l’invito al pranzo comune, adducendo che non c’era proprio niente da festeggiare. S’era invece disposto a trascorrerlo in solitudine, masticando rabbia e delusione, nutrendo la mente con improbabili piani per rientrare in città, cullando il rimpianto per la pace del castello di Lorenzano e ingrossando il fegato con l’immagine d’Ippolita che scaldava il letto di Boso.

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