"Che
giorno è?"
«Domenica,
Pietro, perché?»
«Niente.
Ho perso la misura del tempo. Son tre notti che non si dorme, accidenti!»
«Sshh!
Parlate piano».
La
notte tra il 25 e il 26 di giugno del 1288 era calda e rischiarata dalla luna,
che allungava le ombre dei pioppi sulle canne palustri e sui ciuffi di erbe
acquatiche.
I cespugli e le piante sembravano secchi e spettrali quasi vi fosse
passato uno stormo di fameliche Arpie.
Immersi
nella palude fino alle ginocchia, Pietro dei Mauri e Giunta dei Ricoveri ne
respiravano i fetori, tenendo i cavalli alla briglia coi musi nei sacchi di
fieno per farli star buoni. Erano lì da ore. Al loro fianco, a destra e a mancina,
altri cavalieri, a decine, in armi e schierati in una fila resa irregolare
dalla vegetazione. Dietro, centinaia di fanti con aste e forconi piantati nella
melma. Davanti allo schieramento alcuni passi, la scarpata nascondeva alla
vista un dispiegamento del tutto simile di armati in attesa dall’altra parte
della strada.
Erano
vicini al luogo chiamato il Toppo, un crocevia importante all’imbocco
settentrionale della valle del Chiana: proprio lì si dividevano la via senese e
la Cassia antica per Chiusi, dopo esservi giunte in unico tracciato da Arezzo per
l’Olmo. Vi sorgeva la vetusta pieve di Santa Maria, detta appunto del Toppo.
Ai
lati di quelle vie e intorno alla chiesa si spandevano gli stagni acquitrinosi
che coprivano gran parte della valle, frutto di un impaludamento secolare del
fiume Chiana. Colpa del suo lento procedere verso il lago perugino, troppo
lento per smaltire le acque che vi scendevano dalle alture. Colpa dello scarso
dislivello del terreno, tanto che alcuni pensavano addirittura di invertirne il
corso, dirigendolo verso l’Arno, a settentrione. Resta il fatto che il suo
stesso nome era diventato sinonimo di landa insalubre e plaga malarica: i pochi
abitanti della valle li potevi riconoscere per i volti straniti, lo sguardo
confuso e l’aspetto malato. Soprattutto d’estate l’aria delle paludi era
ammorbante e nelle calde notti vi sentivi aleggiare la morte, tra vapori immoti
e nugoli d’insetti molesti.
La
guerra quell’anno era cominciata presto, a febbraio.
La
cacciata dei guelfi, l’anno prima, aveva acuito le tensioni e tutti, in Firenze
come in Arezzo, s’erano convinti che l’unica soluzione fossero le armi.
La
Lega guelfa capeggiata da Firenze e da Siena aveva messo in campo un esercito
imponente, come non se ne vedevano da anni: in tutto quasi venticinque mila
armati. Lucca, Pistoia, Prato e poi San Gimignano, Volterra e Colle nella Val
d’Elsa avevano inviato armati. Cento cavalieri erano arrivati anche da Bologna
e non mancavano i guelfi aretini cacciati dal vescovo.
Costui,
da parte sua, non era stato a guardare.
Guglielmino
aveva assoldato truppe in gran numero e fatto arrivare ghibellini da tutta la
Toscana, dalle Romagne, dall’Umbria e perfino da Ancona. E, come suo costume,
s’era mosso per primo. Sostenuto dal vicario imperiale Percivalle Fieschi,
giunto da Basilea con un nutrito gruppo di cavalieri, aveva attaccato prima in
Valdarno e poi nella valle del Chiana. Dopo alcune scaramucce vittoriose culminate
con la conquista di Chiusi, i ghibellini s’erano però ritirati, paghi d’aver
dato dimostrazione di forza.
Allora
l’oste guelfa s’era impadronita del Valdarno, e ai primi di giugno aveva
posto il campo alla Torrita dell’Olmo, in vista della città. Erano seguite
settimane di piccoli scontri, sortite, azioni dimostrative. Infine, il giorno
di san Giovanni patrono di Firenze, avevano assediato Arezzo e ballato sotto le
sue mura.
«Ma
come pensavano di prender la città, secondo voi? Non avevano neanche una
macchina d’assedio! Non una torre, né un trabucco una catapulta un mangano!»
«Evidentemente,
Pietro, erano partiti per una campagna di scontri aperti. Fu subito chiaro che
l’assedio non poteva riuscire e nemmeno durare»
«Ma
abbandonare dopo solo due giorni!»
«Sarà
stata la tempesta di ieri notte: si dice che il gran vento e la grandine
abbiano distrutto l’accampamento guelfo, stracciando tende e abbattendo
padiglioni»
«Per
quello, s’è avuto paura anche noi, al riparo di solide case! Non ricordo temporale
peggiore»
Pietro
fu percorso da un brivido: «Se si resta dell’altro in quest’umido guazzo ne
usciremo con le febbri»
«Sarà
per poco. Guardate, comincia a far chiaro».
La
posizione non era delle più comode e gli sguardi andavano invidiosi ai capitani, schierati all’asciutto intorno alla chiesa.
Erano
arrivati la sera prima a buio, gli aretini, passando per il Bastardo e
Mugliano, dopo che in mattinata le spie avevano riferito che l’oste guelfa si
sarebbe divisa: i fiorentini sarebbero tornati a casa per la via solita del
Valdarno, i senesi invece avrebbero percorso la valle del Chiana per andare a
prendere Lucignano.
Il capitano di guerra Buonconte da Montefeltro, che comandava la piazza di Arezzo,
era salito al palazzo vescovile.
Era
costui il primogenito di Guido, conte del Montefeltro e di Urbino,
conquistatore di gran parte delle Romagne e faro del movimento ghibellino, che
guidava dall’alto della rocca di San Leo. Fino a cinque anni prima, quando una
sommossa fomentata da emissari pontifici lo costrinse ad abbandonare il suo
feudo. Da allora Guido si trovava confinato in Asti, mentre il figlio Buonconte
s’era spostato verso la ghibellina Arezzo.
Galoppando
su per il Borgo Maestro, gli era balenata l’idea dell’agguato: avrebbero
inflitto ai senesi un colpo durissimo, forse decisivo. In episcopio aveva
trovato pure il nipote del vescovo, anch’egli di nome Guglielmo, dei Pazzi del
Valdarno, suo compagno di tante imprese seppur di molto più vecchio di lui:
poche parole e il piano era fatto.
Pietro
s’irrigidì: «Zitto! Ascoltate»
«Arrivano,
arrivano». La parola, sussurrata, ripetuta, passata rapidamente dall’uno
all’altro, diventò brusio, poi movimento, agitazione, e infine silenzio teso.
Albeggiava,
alla pieve del Toppo, ma la visibilità non migliorò: il calore del nuovo giorno
sollevava nebulose di bruma grigiastra che avvolgeva tutto.
«Meglio!»
commentò Giunta «così non ci vedranno».
Perso
tra i cavalieri senesi che avanzavano al passo sul lungo rettifilo, Ercolano
Maconi, da tutti conosciuto come Lano da Siena, pensava ai casi suoi. Non gli
era mai piaciuta la guerra: odiava misurarsi con gli altri e aveva in uggia la
disciplina.
S’era
arruolato perché la guerra può dar da vivere, ma soprattutto può fornir
l’occasione per morire.
Ripensava
alle sue fortune e a come erano finite, non per disgrazia o malasorte, ma per
voglia. Ricco ci era nato, grazie al lavoro di tre generazioni di mercanti
accorti e fortunati. Non aveva mai conosciuto sua madre, morta di parto, ed era
cresciuto nella bambagia, coccolato e viziato: la decisione di suo padre di non
riprender moglie lo aveva lasciato con un ingente patrimonio giusto all’età di
diciott’anni, quando era rimasto orfano del tutto.
Aveva
trovato degni compari nei membri della Brigata Spendereccia, che raccoglieva in
Siena i figli sfaccendati e gaudenti della più grassa borghesia mercantile,
scontenti solo in proporzione a quanto i padri tenevano tirati i cordoni della
borsa. Considerato il suo carattere, Lano ci si era ambientato bene, tanto più
che non aveva padre cui render conto. Consigli gliene davano tanti, i suoi
parenti, preoccupati e interessati, ma Lano se la rideva e con l’energia della
sua gioventù in breve aveva dilapidato l’eredità in feste vestiti donne dadi
osterie.
Si
ritrovò, una notte d’estate, ubriaco e senza saper dove andare. Si buttò sotto
un melo e dormì finché il sole e il mal di testa non lo destarono la mattina
dopo.
Smaltita
la sbornia, realizzò la situazione disperata in cui s’era messo. Gli restavano
solo i ricchi vestiti che indossava, il cavallo che gli girava intorno
strappando l’erba delle prode e un piccolo appezzamento boschivo dal quale non
poteva certo ricavar di che vivere. Aveva
vergogna anche a rientrare in città e quando verso il mezzodì il suo
stomaco cominciò a farsi sentire, capì che non bastava a saziarlo la mela mezzo
acerba rubata all’albero che gli aveva fatto da tetto per la notte. Volle
morire.
Troppo
vigliacco per il suicidio, dopo aver vagato per giorni nei boschi, rubacchiando
qualche frutto e dando calci ai ciottoli che si trovava tra i piedi, gli capitò
di veder passare un drappello di armati e l’idea lo colpì. Il cavallo ce
l’aveva, la vendita dei vestiti e della terra avrebbe consentito l’acquisto di
un’armatura decente: si sarebbe dunque dato all’arte della guerra.
Eccolo
lì, adesso, di ritorno da una spedizione senza gloria, e soprattutto ancora
vivo, a combattere la sua vergogna.
"Largo!
Largo!" Un cavaliere lo raggiunse dalle retrovie, lo urtò e proseguì al galoppo
verso la testa della colonna. Lano si voltò sulla sella: nulla vedeva oltre le
poche file a cavallo che dietro di lui uscivano come spettri dalla bruma, ma
gli giunse sull’onda d’un brusio montante la notizia che un contingente di aretini s’era messo a seguirli.
«Ci
attaccano?»
«Pare
di no. Si mantengono a distanza»
«Vorranno
esser sicuri che si torni a Siena»
«Ma
quanti sono?»
«Diversi,
ma non abbastanza per darci pensiero»
«Speriamo.
Costretti sulla via dalle paludi, non potremmo neanche manovrare e i cavalli ci
sarebbero solo d’impaccio».
Quasi
avessero sentito, i cavalieri aretini appostati nel fango ai due lati della via
avevano legato gli animali ai rami bassi degli alberi e s’erano ammassati con i
fanti ai piedi del greppo.
Il
messaggero senese nel frattempo, raggiunti i comandanti, li ragguagliò sul
pericolo che si profilava alle loro spalle. Non finì però il suo rapporto,
interrotto da Ranuccio Farnese, capo dei mercenari di rinforzo, il quale sputò
un’imprecazione indicando davanti a loro.
«Là!
Cavalieri!»
Alla
luce del giorno la coltre di nebbia pian piano diradava lasciando vedere ai senesi lo schieramento dei cavalieri aretini sullo slargo davanti alla pieve.
La
sorpresa ammutolì i più mentre qualcuno gridava All’imboscata! Tradimento! Siamo attaccati! Le fila si scomposero,
i cavalli si urtarono, i fanti si spinsero abbozzando impossibili fughe: in
breve la confusione fu totale.
Ranuccio
capì subito il da farsi: «Usciamo da questo budello, presto! Attacchiamo prima
che ci attacchino! Al galoppo! Avanti! Avanti!»
Ma
l’attacco dei ghibellini era già partito, e non dai cavalieri.
Un’orda
di pedoni armati di aste lunghe ad un cenno di Buonconte sopravanzò i nobili e
si gettò contro i nemici.
Tra
i senesi fu il panico. Ranuccio cambiò l’ordine: «A terra, smontate! Mano alle
lance!» Ma dietro di lui non si capiva più niente e gli armati si travolgevano
l’un l’altro, mentre gli aretini che seguivano la colonna, sentite le urla,
scatenarono a loro volta l’attacco.
«Tocca
a noi!» Arrampicando sul greppo, Giunta incitò Pietro e gli altri: «Forza! Sono
in trappola!» Già parecchi senesi, spinti nell’acquitrino dal parapiglia, erano
stati trafitti ammazzati affogati. L’urlo che si alzò di qua e di là dalla via
per tutta la sua lunghezza scosse l’aria e gelò il sangue degli assaliti. Una
torma sporca di fango montò sulla strada a destra e a manca, menando fendenti e
mazzate.
Dall’inferno
si può solo fuggire ed è quello che tentarono gli sventurati, in avanti verso
la pieve, indietro verso Arezzo, meglio tra i cespugli nelle basse acque
stagnanti. Ma ormai la visibilità era buona e in breve la battaglia diventò
carneficina.
Pietro
e Giunta combattevano spalla a spalla, fermi nel punto della via dov’erano
saliti.
«Attento!»
All’urlo di Pietro, Giunta si gettò di lato appena in tempo per evitare di
venir travolto da un cavaliere senese al galoppo. Si fermarono un attimo a
seguire la corsa folle di Lano, finché il suo cavallo non finì sulle aste d’un
gruppo di pedoni, abbattendosi con un nitrito.
Scaraventato
a terra, gli occhi sbarrati, il gaudente fallito, cavaliere per disperazione,
si rizzò in piedi d’un balzo, raccattò uno spadone, lo impugnò a due mani e
prese a rotearlo all’impazzata facendo il vuoto intorno a sé. Venuto ad Arezzo
per cercarvi la morte, ora che se la vedeva davanti ne era terrorizzato e
tentava disperatamente di sfuggirle.
Dopo
alcuni giri, sempre più lenti, la punta dello spadone gli calò verso terra e
Lano s’appoggiò al pomolo, ansimante. Gli furono addosso in quattro. Si scosse,
però, scattò in avanti e continuò a piedi la forsennata fuga.
Non
lo inseguirono. Arrivato al crocevia s’arrestò: lo schieramento dei cavalieri
aretini davanti alla pieve non s’era mosso e gli sbarrava la strada. Li guardò
senza vederli, accecato da quella parata di colori. Non sapeva più dove fosse e
cosa facesse. Prese a destra e si lanciò sulla via di Mugliano, di corsa verso
la cortina dei poggi boscosi che promettevano nascondiglio protezione
sicurezza.
La
paura gli mise le ali, le sue gambe erano svelte, ma non bastò. Non si è mai
abbastanza veloci se t’insegue un quadrello di balestra, dritto, preciso,
letale. Lo colse in mezzo alla schiena e lui stramazzò. Gli occhi ora non
vedevano più il verde delle colline, ma l’azzurro del cielo, che scolorò in una
nebbia avvolgente e vuota. Le gambe contratte
negli ultimi spasimi si distesero abbandonate da ogni energia e le mani si
aprirono lasciando scivolare tra le dita la terra che avevano convulsamente
afferrato.
“Furonne
tra morti e presi più di trecento, pur de’ migliori cittadini di Siena, e de’
migliori gentili uomini di Maremma”. (G.Villani - Cronica)
Anche
sulla via dell’Olmo ormai era tutto finito. Pietro e Giunta, ancora vicini, le
spade calate, guardavano ai loro piedi il cadavere squarciato di Ranuccio
Farnese.
«Pietro!»
«Che?»
«Siete
ferito!?»
«No»
«Ma
cola sangue, dall’elsa della vostra spada! Fate vedere»
«Tutto
è sangue, qui attorno!»
Mentre
parlava con voce impastata, alzò la destra come per mostrare all’amico lo
scempio che questi sembrava non vedere. Inorridì sentendo il rumore della lama
che cadeva sull’armatura a brandelli del Farnese. Guardò stupito la sua mano
che non impugnava più niente: un fiotto di sangue schizzò dalle giunzioni di
tre dita che penzolavano quasi staccate. Non sentì dolore ma solo un’improvvisa
vampata di calore e poi un brivido freddo. Insieme ad un forte ronzio alla
testa arrivò il buio e svenne.
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