mercoledì 11 marzo 2020

EPISODIO 5 - L'AGGUATO DEL TOPPO


"Che giorno è?"
«Domenica, Pietro, perché?»
«Niente. Ho perso la misura del tempo. Son tre notti che non si dorme, accidenti!»
«Sshh! Parlate piano».
La notte tra il 25 e il 26 di giugno del 1288 era calda e rischiarata dalla luna, che allungava le ombre dei pioppi sulle canne palustri e sui ciuffi di erbe acquatiche.

I cespugli e le piante sembravano secchi e spettrali quasi vi fosse passato uno stormo di fameliche Arpie.
Immersi nella palude fino alle ginocchia, Pietro dei Mauri e Giunta dei Ricoveri ne respiravano i fetori, tenendo i cavalli alla briglia coi musi nei sacchi di fieno per farli star buoni. Erano lì da ore. Al loro fianco, a destra e a mancina, altri cavalieri, a decine, in armi e schierati in una fila resa irregolare dalla vegetazione. Dietro, centinaia di fanti con aste e forconi piantati nella melma. Davanti allo schieramento alcuni passi, la scarpata nascondeva alla vista un dispiegamento del tutto simile di armati in attesa dall’altra parte della strada.
Erano vicini al luogo chiamato il Toppo, un crocevia importante all’imbocco settentrionale della valle del Chiana: proprio lì si dividevano la via senese e la Cassia antica per Chiusi, dopo esservi giunte in unico tracciato da Arezzo per l’Olmo. Vi sorgeva la vetusta pieve di Santa Maria, detta appunto del Toppo.
Ai lati di quelle vie e intorno alla chiesa si spandevano gli stagni acquitrinosi che coprivano gran parte della valle, frutto di un impaludamento secolare del fiume Chiana. Colpa del suo lento procedere verso il lago perugino, troppo lento per smaltire le acque che vi scendevano dalle alture. Colpa dello scarso dislivello del terreno, tanto che alcuni pensavano addirittura di invertirne il corso, dirigendolo verso l’Arno, a settentrione. Resta il fatto che il suo stesso nome era diventato sinonimo di landa insalubre e plaga malarica: i pochi abitanti della valle li potevi riconoscere per i volti straniti, lo sguardo confuso e l’aspetto malato. Soprattutto d’estate l’aria delle paludi era ammorbante e nelle calde notti vi sentivi aleggiare la morte, tra vapori immoti e nugoli d’insetti molesti.
La guerra quell’anno era cominciata presto, a febbraio.
La cacciata dei guelfi, l’anno prima, aveva acuito le tensioni e tutti, in Firenze come in Arezzo, s’erano convinti che l’unica soluzione fossero le armi.
La Lega guelfa capeggiata da Firenze e da Siena aveva messo in campo un esercito imponente, come non se ne vedevano da anni: in tutto quasi venticinque mila armati. Lucca, Pistoia, Prato e poi San Gimignano, Volterra e Colle nella Val d’Elsa avevano inviato armati. Cento cavalieri erano arrivati anche da Bologna e non mancavano i guelfi aretini cacciati dal vescovo.
Costui, da parte sua, non era stato a guardare.
Guglielmino aveva assoldato truppe in gran numero e fatto arrivare ghibellini da tutta la Toscana, dalle Romagne, dall’Umbria e perfino da Ancona. E, come suo costume, s’era mosso per primo. Sostenuto dal vicario imperiale Percivalle Fieschi, giunto da Basilea con un nutrito gruppo di cavalieri, aveva attaccato prima in Valdarno e poi nella valle del Chiana. Dopo alcune scaramucce vittoriose culminate con la conquista di Chiusi, i ghibellini s’erano però ritirati, paghi d’aver dato dimostrazione di forza.
Allora l’oste guelfa s’era impadronita del Valdarno, e ai primi di giugno aveva posto il campo alla Torrita dell’Olmo, in vista della città. Erano seguite settimane di piccoli scontri, sortite, azioni dimostrative. Infine, il giorno di san Giovanni patrono di Firenze, avevano assediato Arezzo e ballato sotto le sue mura.
«Ma come pensavano di prender la città, secondo voi? Non avevano neanche una macchina d’assedio! Non una torre, né un trabucco una catapulta un mangano!»
«Evidentemente, Pietro, erano partiti per una campagna di scontri aperti. Fu subito chiaro che l’assedio non poteva riuscire e nemmeno durare»
«Ma abbandonare dopo solo due giorni!»
«Sarà stata la tempesta di ieri notte: si dice che il gran vento e la grandine abbiano distrutto l’accampamento guelfo, stracciando tende e abbattendo padiglioni»
«Per quello, s’è avuto paura anche noi, al riparo di solide case! Non ricordo temporale peggiore»
Pietro fu percorso da un brivido: «Se si resta dell’altro in quest’umido guazzo ne usciremo con le febbri»
«Sarà per poco. Guardate, comincia a far chiaro».
La posizione non era delle più comode e gli sguardi andavano invidiosi ai capitani, schierati all’asciutto intorno alla chiesa.
Erano arrivati la sera prima a buio, gli aretini, passando per il Bastardo e Mugliano, dopo che in mattinata le spie avevano riferito che l’oste guelfa si sarebbe divisa: i fiorentini sarebbero tornati a casa per la via solita del Valdarno, i senesi invece avrebbero percorso la valle del Chiana per andare a prendere Lucignano.
Il capitano di guerra Buonconte da Montefeltro, che comandava la piazza di Arezzo, era salito al palazzo vescovile.
Era costui il primogenito di Guido, conte del Montefeltro e di Urbino, conquistatore di gran parte delle Romagne e faro del movimento ghibellino, che guidava dall’alto della rocca di San Leo. Fino a cinque anni prima, quando una sommossa fomentata da emissari pontifici lo costrinse ad abbandonare il suo feudo. Da allora Guido si trovava confinato in Asti, mentre il figlio Buonconte s’era spostato verso la ghibellina Arezzo.
Galoppando su per il Borgo Maestro, gli era balenata l’idea dell’agguato: avrebbero inflitto ai senesi un colpo durissimo, forse decisivo. In episcopio aveva trovato pure il nipote del vescovo, anch’egli di nome Guglielmo, dei Pazzi del Valdarno, suo compagno di tante imprese seppur di molto più vecchio di lui: poche parole e il piano era fatto.
Pietro s’irrigidì: «Zitto! Ascoltate»
«Arrivano, arrivano». La parola, sussurrata, ripetuta, passata rapidamente dall’uno all’altro, diventò brusio, poi movimento, agitazione, e infine silenzio teso.
Albeggiava, alla pieve del Toppo, ma la visibilità non migliorò: il calore del nuovo giorno sollevava nebulose di bruma grigiastra che avvolgeva tutto.
«Meglio!» commentò Giunta «così non ci vedranno».

Perso tra i cavalieri senesi che avanzavano al passo sul lungo rettifilo, Ercolano Maconi, da tutti conosciuto come Lano da Siena, pensava ai casi suoi. Non gli era mai piaciuta la guerra: odiava misurarsi con gli altri e aveva in uggia la disciplina.
S’era arruolato perché la guerra può dar da vivere, ma soprattutto può fornir l’occasione per morire.
Ripensava alle sue fortune e a come erano finite, non per disgrazia o malasorte, ma per voglia. Ricco ci era nato, grazie al lavoro di tre generazioni di mercanti accorti e fortunati. Non aveva mai conosciuto sua madre, morta di parto, ed era cresciuto nella bambagia, coccolato e viziato: la decisione di suo padre di non riprender moglie lo aveva lasciato con un ingente patrimonio giusto all’età di diciott’anni, quando era rimasto orfano del tutto.
Aveva trovato degni compari nei membri della Brigata Spendereccia, che raccoglieva in Siena i figli sfaccendati e gaudenti della più grassa borghesia mercantile, scontenti solo in proporzione a quanto i padri tenevano tirati i cordoni della borsa. Considerato il suo carattere, Lano ci si era ambientato bene, tanto più che non aveva padre cui render conto. Consigli gliene davano tanti, i suoi parenti, preoccupati e interessati, ma Lano se la rideva e con l’energia della sua gioventù in breve aveva dilapidato l’eredità in feste vestiti donne dadi osterie.
Si ritrovò, una notte d’estate, ubriaco e senza saper dove andare. Si buttò sotto un melo e dormì finché il sole e il mal di testa non lo destarono la mattina dopo.
Smaltita la sbornia, realizzò la situazione disperata in cui s’era messo. Gli restavano solo i ricchi vestiti che indossava, il cavallo che gli girava intorno strappando l’erba delle prode e un piccolo appezzamento boschivo dal quale non poteva certo ricavar di che vivere. Aveva  vergogna anche a rientrare in città e quando verso il mezzodì il suo stomaco cominciò a farsi sentire, capì che non bastava a saziarlo la mela mezzo acerba rubata all’albero che gli aveva fatto da tetto per la notte. Volle morire.
Troppo vigliacco per il suicidio, dopo aver vagato per giorni nei boschi, rubacchiando qualche frutto e dando calci ai ciottoli che si trovava tra i piedi, gli capitò di veder passare un drappello di armati e l’idea lo colpì. Il cavallo ce l’aveva, la vendita dei vestiti e della terra avrebbe consentito l’acquisto di un’armatura decente: si sarebbe dunque dato all’arte della guerra.
Eccolo lì, adesso, di ritorno da una spedizione senza gloria, e soprattutto ancora vivo, a combattere la sua vergogna.

"Largo! Largo!" Un cavaliere lo raggiunse dalle retrovie, lo urtò e proseguì al galoppo verso la testa della colonna. Lano si voltò sulla sella: nulla vedeva oltre le poche file a cavallo che dietro di lui uscivano come spettri dalla bruma, ma gli giunse sull’onda d’un brusio montante la notizia che un contingente di aretini s’era messo a seguirli.
«Ci attaccano?»
«Pare di no. Si mantengono a distanza»
«Vorranno esser sicuri che si torni a Siena»
«Ma quanti sono?»
«Diversi, ma non abbastanza per darci pensiero»
«Speriamo. Costretti sulla via dalle paludi, non potremmo neanche manovrare e i cavalli ci sarebbero solo d’impaccio».
Quasi avessero sentito, i cavalieri aretini appostati nel fango ai due lati della via avevano legato gli animali ai rami bassi degli alberi e s’erano ammassati con i fanti ai piedi del greppo.
Il messaggero senese nel frattempo, raggiunti i comandanti, li ragguagliò sul pericolo che si profilava alle loro spalle. Non finì però il suo rapporto, interrotto da Ranuccio Farnese, capo dei mercenari di rinforzo, il quale sputò un’imprecazione indicando davanti a loro.
«Là! Cavalieri!»
Alla luce del giorno la coltre di nebbia pian piano diradava lasciando vedere ai senesi lo schieramento dei cavalieri aretini sullo slargo davanti alla pieve.
La sorpresa ammutolì i più mentre qualcuno gridava All’imboscata! Tradimento! Siamo attaccati! Le fila si scomposero, i cavalli si urtarono, i fanti si spinsero abbozzando impossibili fughe: in breve la confusione fu totale.
Ranuccio capì subito il da farsi: «Usciamo da questo budello, presto! Attacchiamo prima che ci attacchino! Al galoppo! Avanti! Avanti!»
Ma l’attacco dei ghibellini era già partito, e non dai cavalieri.
Un’orda di pedoni armati di aste lunghe ad un cenno di Buonconte sopravanzò i nobili e si gettò contro i nemici.
Tra i senesi fu il panico. Ranuccio cambiò l’ordine: «A terra, smontate! Mano alle lance!» Ma dietro di lui non si capiva più niente e gli armati si travolgevano l’un l’altro, mentre gli aretini che seguivano la colonna, sentite le urla, scatenarono a loro volta l’attacco.
«Tocca a noi!» Arrampicando sul greppo, Giunta incitò Pietro e gli altri: «Forza! Sono in trappola!» Già parecchi senesi, spinti nell’acquitrino dal parapiglia, erano stati trafitti ammazzati affogati. L’urlo che si alzò di qua e di là dalla via per tutta la sua lunghezza scosse l’aria e gelò il sangue degli assaliti. Una torma sporca di fango montò sulla strada a destra e a manca, menando fendenti e mazzate.
Dall’inferno si può solo fuggire ed è quello che tentarono gli sventurati, in avanti verso la pieve, indietro verso Arezzo, meglio tra i cespugli nelle basse acque stagnanti. Ma ormai la visibilità era buona e in breve la battaglia diventò carneficina.
Pietro e Giunta combattevano spalla a spalla, fermi nel punto della via dov’erano saliti.
«Attento!» All’urlo di Pietro, Giunta si gettò di lato appena in tempo per evitare di venir travolto da un cavaliere senese al galoppo. Si fermarono un attimo a seguire la corsa folle di Lano, finché il suo cavallo non finì sulle aste d’un gruppo di pedoni, abbattendosi con un nitrito.
Scaraventato a terra, gli occhi sbarrati, il gaudente fallito, cavaliere per disperazione, si rizzò in piedi d’un balzo, raccattò uno spadone, lo impugnò a due mani e prese a rotearlo all’impazzata facendo il vuoto intorno a sé. Venuto ad Arezzo per cercarvi la morte, ora che se la vedeva davanti ne era terrorizzato e tentava disperatamente di sfuggirle.
Dopo alcuni giri, sempre più lenti, la punta dello spadone gli calò verso terra e Lano s’appoggiò al pomolo, ansimante. Gli furono addosso in quattro. Si scosse, però, scattò in avanti e continuò a piedi la forsennata fuga.
Non lo inseguirono. Arrivato al crocevia s’arrestò: lo schieramento dei cavalieri aretini davanti alla pieve non s’era mosso e gli sbarrava la strada. Li guardò senza vederli, accecato da quella parata di colori. Non sapeva più dove fosse e cosa facesse. Prese a destra e si lanciò sulla via di Mugliano, di corsa verso la cortina dei poggi boscosi che promettevano nascondiglio protezione sicurezza.
La paura gli mise le ali, le sue gambe erano svelte, ma non bastò. Non si è mai abbastanza veloci se t’insegue un quadrello di balestra, dritto, preciso, letale. Lo colse in mezzo alla schiena e lui stramazzò. Gli occhi ora non vedevano più il verde delle colline, ma l’azzurro del cielo, che scolorò in una nebbia avvolgente e vuota. Le gambe contratte negli ultimi spasimi si distesero abbandonate da ogni energia e le mani si aprirono lasciando scivolare tra le dita la terra che avevano convulsamente afferrato.
Furonne tra morti e presi più di trecento, pur de’ migliori cittadini di Siena, e de’ migliori gentili uomini di Maremma”. (G.Villani - Cronica)
Anche sulla via dell’Olmo ormai era tutto finito. Pietro e Giunta, ancora vicini, le spade calate, guardavano ai loro piedi il cadavere squarciato di Ranuccio Farnese.
«Pietro!»
«Che?»
«Siete ferito!?»
«No»
«Ma cola sangue, dall’elsa della vostra spada! Fate vedere»
«Tutto è sangue, qui attorno!»
Mentre parlava con voce impastata, alzò la destra come per mostrare all’amico lo scempio che questi sembrava non vedere. Inorridì sentendo il rumore della lama che cadeva sull’armatura a brandelli del Farnese. Guardò stupito la sua mano che non impugnava più niente: un fiotto di sangue schizzò dalle giunzioni di tre dita che penzolavano quasi staccate. Non sentì dolore ma solo un’improvvisa vampata di calore e poi un brivido freddo. Insieme ad un forte ronzio alla testa arrivò il buio e svenne.

Nessun commento:

Posta un commento