Dal DECAMERON di
Giovanni Boccaccio - GIORNATA SETTIMA –
NOVELLA IV
(storia di corna e di scaltrezza femminile - libera trasposizione in italiano moderno)
Racconta Lauretta:
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo il quale fu Tofano
nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna il cui nome fu monna
Ghita, della quale egli, senza sapere perché, prestamente divenne geloso…
Come la donna se ne
rese conto, si sdegnò e gli chiese con insistenza quale motivo avesse la sua
gelosia, ricevendone soltanto risposte evasive ed offensive. Decise allora di
farlo morire del male di cui aveva paura senza motivo.
S’era già accorta che
un giovane che lei reputava perbene le aveva messo gli occhi addosso, e
cominciò a rispondere alle sue occhiate. In breve le cose tra loro erano andate
tanto avanti, che mancava solo di passare dalle parole ai fatti. E fu lei a trovare
il modo.
Suo marito era noto,
tra gli altri difetti, per il fatto che gli piaceva bere, e lei prese a lodarlo
per questo ed anzi lo sollecitava molto spesso con scaltrezza. E ci riuscì così
bene da condurlo all’ubriachezza ogni volta che voleva. Quando poi lo vedeva
del tutto ebbro, lo metteva a letto e se n’andava ad incontrare il suo amante.
Tanta divenne la sua
fiducia nell’ebbrezza di costui, che prese l’ardire di portarsi l’amante in
casa. Altre volte se n’andava a casa di lui, che non era lontana, e ci restava
gran parte della notte.
A furia d’insistere,
però, alla fine il povero marito si rese conto che, mentre lo incitava a bere,
lei per parte sua non beveva mai. S’insospettì perciò che la donna lo facesse
ubriacare per poter poi fare il suo comodo mentre lui dormiva. Cominciò cioè a
sospettar la verità e volle averne prova.
Si astenne dal bere
per l’intera giornata e la sera rincasò barcollando e parlando come l’uomo più
ubriaco del mondo, tanto che la donna lo mise a letto giudicando che non gli
servisse di bere ancora. Poi uscì, si recò a casa del suo amante e si trattenne
con lui fino a mezzanotte.
Uscita lei, Tofano si
alzò e andò a chiuder la porta di casa dall’interno e poi salì e si pose alla
finestra in attesa del ritorno della donna per dirle che l’aveva scoperta.
Quando lei tornò e si
trovò chiusa fuori, fu presa dall’agitazione e tentò di aprir l’uscio con la
forza. Tofano per un po’ la lasciò penare, poi s’affacciò e disse: “Donna, t’affanni
invano: qui dentro non ci metterai più piede. Torna dov’eri finora e sta’
sicura che non rientrerai in casa finché non ti avrò disonorata come meriti
davanti a parenti e vicini”.
La donna lo supplicò
che le aprisse per amor di Dio, affermando che non tornava da dove pensava lui,
ma dal vegliare con una vicina che soffriva d’insonnia. Ma le suppliche, dette
sottovoce, non ebbero effetto, ché quella bestia preferiva che tutti gli
aretini sapessero della lor vergogna, che fino a quel momento era rimasta
segreta.
La donna ricorse
allora alle minacce: “ Se non mi apri, farò di te l’uomo più infelice del mondo”.
E Tofano rispose: “E
che mi puoi fare, tu?”
E la donna, cui Amore
aveva aguzzato l’ingegno coi suoi consigli: “Prima di patire la vergogna che mi
vuoi far ricevere a torto, mi getterò nel pozzo qui dietro. E quando mi
troveranno morta, crederanno tutti che mi ci abbia buttata tu mentre eri
ubriaco. Non ti resterà che fuggire abbandonando i tuoi beni, o ti verrà
tagliata la testa per avermi ucciso”.
Ma Tofano non si
smosse, e allora la donna disse: “Basta! Non posso più soffrire le tue offese.
Dio ti perdoni”. E detto questo, se n’andò verso il pozzo. La notte era così
scura che a malapena ci si poteva vedere l’un l’altro incontrandosi per la via.
Prese una grossa pietra che trovò ai piedi del pozzo, gridò “Dio, perdonami!” e
la lasciò cadere nel pozzo.
La pietra piombò nell’acqua
con un tonfo fortissimo. Tofano l’udì e pensò che lei si fosse gettata davvero.
Prese la secchia con la fune e corse al pozzo. La donna, che s’era nascosta
vicino all’uscio, entrò in casa e si chiuse dentro. Quindi salì alla finestra e
cominciò a dire: “Lui vuol annacquare quello che bevono gli altri, e lo fa di
notte”.
Tofano si rese conto d’essere
stato ingannato, tornò all’uscio e cominciò a chiedere che gli aprisse.
Lei a quel punto prese
a gridare: “Per la croce di Dio, ubriacone che non sei altro, stanotte non
entrerai. È bene che tutti sappiano chi sei e a che ora torni a casa la notte!”.
Tofano da parte sua
prese a insultarla e ad urlare. I vicini, svegliati da quel baccano, s’affacciarono
alle finestre e chiesero cosa accadesse.
La donna si mise a
piangere: “E’ uno svergognato che mi torna ubriaco a casa la sera, o s’addormenta
per taverne e torna a quest’ora. Non ne posso più ed ora l’ho chiuso fuori di
casa”.
Quella bestia di
Tofano, da parte sua, disse come davvero erano andate le cose e continuò a
minacciarla.
“Vedete com’è” diceva
la donna. “Che direste voi se io fossi in strada al posto suo ed egli in casa
al posto mio? Qualcuno potrebbe dubitare delle sue parole? Ecco, da qui potere misurare la sua intelligenza. Lui dice
che ho fatto io quello che in verità ha fatto lui. Credeva di spaventarmi
gettando non so ché nel pozzo, e magari vi si fosse buttato lui davvero e vi
fosse affogato, così da annacquare per bene tutto il vino che ha bevuto!”
I vicini, uomini e
donne, cominciarono a prendersela con Tofano, a dargli la colpa e a sgridarlo
per le offese che faceva alla donna. Il rumore e lo scandalo tanto si sparse di
vicino in vicino che in breve arrivò alle orecchie dei parenti della donna, i
quali accorsero e furono informati dagli astanti.
Presero Tofano e lo riempirono
di botte tanto da rompergli tutte le ossa. Entrati in casa, presero le cose
della donna e con lei tornarono a casa loro, minacciando Tofano di morte.
Nei giorni successivi
Tofano, vista la mal parata, e considerando come l’aveva ridotto la sua gelosia,
mise in mezzo alcuni amici che andassero a professare tutto il suo amore per la
donna, e tanto insisté che alla fine poté riaverla a casa sua, promettendole
che non sarebbe stato geloso mai più.
Di più, le diede il
permesso di fare tutto quello che le piacesse, purché con tanta discrezione da
non farsene accorgere.
E così, a modo del villan matto, dopo danno fe’ patto.
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