giovedì 26 marzo 2020

EPISODIO 11 - LA ILDE



La campana del convento chiamò fra Giacomo a mattutino.
«Devo andare, ma voi potete riposare un po’».
A quell’ora padre e figlio seguirono il consiglio di buon grado, e avrebbero dormito per un bel po’ se il frate prima di laudi non avesse bussato all’uscio, entrando nella cameretta con un po’ di frutta secca, un pezzo di pane nero e una brocca d’acqua: «Buon Natale e buon anno nuovo!»

«Buon giorno, fra Giacomo» rispose Pietro.
«Mi dispiace di svegliarvi, ma tra poco dovrò tornare in chiesa, e sistemare prima anche questa cella. D’altra parte so che v’aspettano a casa»
«Sì, certo, dovremmo già essere per via».
Mauro schizzò dal letto, addentò un pezzo di pane e due fichi secchi, infilò ai piedi le calze-brache, fece passare la corta tunica dal capo, la legò in vita e vi sistemò sopra la guarnacca foderata, annodandone con cura i lacci di pelle sul petto; sempre masticando calzò poi le callighe di morbido cuoio. Bevve direttamente dalla brocca e s’aggiustò sulle spalle il cappuccio di panno grigio. Buttandosi sul braccio il pesante mantello, s’avviò alla porta: «Pronto!». Era sveglio e allegro.
«A presto, fra Giacomo, e che Dio vi ricompensi»
«A presto, Pietro. Salutatemi la vostra Ilde: una bella fortuna, v’è toccata!»
In effetti Ilde era davvero bella, anche adesso che aveva superato i 35 anni: alta, formosa quanto basta, sana e robusta da reggere senza fatica apparente i pesi della vita di campagna. I capelli lunghi dai riflessi biondi denotavano, insieme al nome, la chiara provenienza da una delle famiglie longobarde che s’erano installate nella zona secoli prima. Delle donne germaniche aveva pure ereditato i modi spicci e una certa ritrosia ad aprir bocca.
Aveva quattordici anni quando Pietro, diciottenne, l’aveva chiesta in moglie al padre, Ardimanno di Tignozzo. Era costui l’ultimo discendente d’una fara, una famiglia longobarda che in antico aveva fortificato un manso alla Cafàggiola, nel territorio che fu poi dell’Abbazia di Campoleone, dotandolo anche di una torre. Questa fara, diceva lui, s’era formata da un ramo laterale dei Longobardi di Sassello e di queste origini Ardimanno andava fiero. Per sposare la bella Ilde, Pietro aveva dovuto accettare che il matrimonio si svolgesse secondo il diritto longobardo.
Il giorno del fidanzamento Pietro aveva offerto al padre della Ilde un magnifico cavallo bianco, come meta, disse Ardimanno, moderatamente felice perché avrebbe dovuto passarlo alla figlia al momento del matrimonio, e ne aveva ricevuto, come launechild, contraccambio, uno stupendo letto in legno d’ebano intarsiato. Nonostante ciò il futuro suocero aveva storto il naso, e li aveva fatti penare prima di cedere i suoi diritti di mundio, cioè di proprietà sulla figlia, e acconsentire al matrimonio. Il giovane Pietro aveva tutto quanto un padre può desiderare per sua figlia, tranne una cosa: non era d’origine longobarda.
«Neppure etrusca, o romana» si sfogava Ardimanno con la moglie. «Non ti dice niente il nome Mauri? Hai visto la loro insegna? Una pantera e una mezzaluna, più chiaro di così! Orde moresche, pirati saraceni e profanatori della Terra Santa, ecco chi erano gli antenati di questi mezzi nobili!»
«Ma loro son gente per bene» provava a rintuzzarlo lei.
«E il colorito della pelle? Come verranno i tuoi nipoti? Io potrei anche far finta di niente, ma cosa diranno in Arezzo? Mi ci vedi, in chiesa con loro?»
Ardimanno fu irremovibile, all’inizio, ma pan piano la paziente opera di convinzione della futura suocera l’ebbe vinta sulle sue resistenze. Quando però si trattò di decidere la data del matrimonio, un altro fatto rischiò di mandarle a monte: Mauro dei Mauri, padre di Pietro e nonno del protagonista della nostra storia, s’impuntò, rifiutandosi di permettere al figlio di offrire alla sposa il morgincap, il dono del mattino, la ricompensa per la conservata verginità, che secondo l’antica legge di Liutprando consisteva nella quarta parte dei beni dello sposo, come garanzia per la vedovanza. Il vecchio Mauro non intendeva assolutamente smembrare un patrimonio che considerava già esiguo.
«Sono almeno cent’anni che nessuno applica più le regole longobarde!» tuonò il vecchio. «Ti dovevi confondere proprio con questi barbari incalliti?»
Alla fine il denaro risolse tutto. Il vecchio Mauro passò alla sposa un’ingente quantità di grossi aretini d’argento, come donatio propter nuptias, secondo il diritto romano, e il rigido Ardimanno venne tacitato con un’altra somma di denaro, trenta libbre pro traditione sponsarum, sempre secondo le usanze latine, e con l’offerta di quaranta once di pepe, della pregiata varietà a chicchi lunghi. Il futuro suocero pretese anche venti soldi, pro espleto mundio: così, disse, anche la regola longobarda era salva.
Definito e scritto tutto questo alla presenza di testimoni delle due famiglie, finalmente i due giovani poterono presentarsi al giudice e Pietro infilò l’anello al dito della sua Ilde.


L’ondata di ricordi accompagnò Pietro giù per la Ruga Mastra. A distanza di tanti anni, poteva considerare il suo matrimonio veramente riuscito. Anche se le conseguenze del parto difficile con cui Mauro era venuto al mondo le avevano impedito di dargli altri figli, anche se parlava poco ed era ancor meno espansiva, tuttavia la sua Ilde s’era rivelata un dono prezioso, forte in ogni occasione e perfetta organizzatrice della casa. Ed appariva felice, per quel che Pietro poteva capirne.
Giunto all’altezza del cantiere, vi gettò un’occhiata istintiva: da quanto tempo accarezzava il sogno d’una casa in città! E non per venire ad abitare dentro le mura in pianta stabile, no: non avrebbe resistito molto, negli spazi angusti delle contrade, lui abituato alle cavalcate, alle battute di caccia, alle camminate tra i campi col vento in faccia. Era soprattutto per Mauro, perché respirasse l’aria cittadina; per farlo partecipe della vivacità delle botteghe, dell’animazione dei mercati, delle interminabili discussioni nei palazzi pubblici; perché soprattutto non aveva mai perso la speranza che s’avvicinasse allo Studio, ai maestri che vi insegnavano e ai venti di novità portati dagli altri studenti. Pietro era sicuro che tutto questo avrebbe aperto al suo figliolo un futuro importante: forse, perché no, poteva condurlo a incarichi di prestigio, anche al di sopra del suo rango.
Crollò il capo, deluso dalla lentezza dei lavori, e proseguì.
Recuperati i cavalli dalla stalla di Giunta, uscirono nella campagna e galopparono fianco a fianco verso casa.
Le prime colline del Casentino vennero loro incontro, spoglie nella veste invernale. Su di un basso crinale sorgeva il loro castello, luogo detto Muciafora, strano nome della cui origine s’era persa memoria. Più che d’un castello vero e proprio, si trattava in realtà d’una villa, un insediamento rurale fortificato dai loro antenati. Sulla torre sventolava il vessillo con la pantera e la mezzaluna tanto inviso al suocero di Pietro.
Dalla stretta finestra della camera di Mauro, al secondo piano, la Ilde spiava il loro avvicinarsi, come era solita fare quando li aspettava di ritorno. Sembrano fratelli, pensò vedendoli superare la Pieve di Santo Stefano, ai piedi della salita verso casa, cavalcando fianco a fianco. I suoi uomini, come li chiamava affettuosamente, erano per lei gioia ed orgoglio.
Gli era piaciuto subito, Pietro, quando s’era presentato a chiederla in sposa; si sentiva una bambina e quel ragazzone moro che le aveva messo gli occhi addosso le era parso un gigante buono, che l’avrebbe protetta per tutta la vita.
Si staccò dal davanzale e scese nella grande sala a sorvegliare gli ultimi preparativi.

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