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La
campana del convento chiamò fra Giacomo a mattutino.
«Devo
andare, ma voi potete riposare un po’».
A
quell’ora padre e figlio seguirono il consiglio di buon grado, e avrebbero
dormito per un bel po’ se il frate prima di laudi non avesse bussato all’uscio,
entrando nella cameretta con un po’ di frutta secca, un pezzo di pane nero e
una brocca d’acqua: «Buon Natale e buon anno nuovo!»
«Buon
giorno, fra Giacomo» rispose Pietro.
«Mi
dispiace di svegliarvi, ma tra poco dovrò tornare in chiesa, e sistemare prima
anche questa cella. D’altra parte so che v’aspettano a casa»
«Sì,
certo, dovremmo già essere per via».
Mauro
schizzò dal letto, addentò un pezzo di pane e due fichi secchi, infilò ai piedi
le calze-brache, fece passare la corta tunica dal capo, la legò in vita e vi
sistemò sopra la guarnacca foderata, annodandone con cura i lacci di pelle sul
petto; sempre masticando calzò poi le callighe di morbido cuoio. Bevve
direttamente dalla brocca e s’aggiustò sulle spalle il cappuccio di panno grigio.
Buttandosi sul braccio il pesante mantello, s’avviò alla porta: «Pronto!». Era
sveglio e allegro.
«A
presto, fra Giacomo, e che Dio vi ricompensi»
«A
presto, Pietro. Salutatemi la vostra Ilde: una bella fortuna, v’è toccata!»
In
effetti Ilde era davvero bella, anche adesso che aveva superato i 35 anni:
alta, formosa quanto basta, sana e robusta da reggere senza fatica apparente i
pesi della vita di campagna. I capelli lunghi dai riflessi biondi denotavano,
insieme al nome, la chiara provenienza da una delle famiglie longobarde che
s’erano installate nella zona secoli prima. Delle donne germaniche aveva pure
ereditato i modi spicci e una certa ritrosia ad aprir bocca.
Aveva
quattordici anni quando Pietro, diciottenne, l’aveva chiesta in moglie al
padre, Ardimanno di Tignozzo. Era costui l’ultimo discendente d’una fara,
una famiglia longobarda che in antico aveva fortificato un manso alla
Cafàggiola, nel territorio che fu poi dell’Abbazia di Campoleone, dotandolo
anche di una torre. Questa fara, diceva lui, s’era formata da un ramo
laterale dei Longobardi di Sassello e di queste origini Ardimanno andava fiero.
Per sposare la bella Ilde, Pietro aveva dovuto accettare che il matrimonio si
svolgesse secondo il diritto longobardo.
Il giorno
del fidanzamento Pietro aveva offerto al padre della Ilde un magnifico cavallo
bianco, come meta, disse Ardimanno, moderatamente felice perché avrebbe
dovuto passarlo alla figlia al momento del matrimonio, e ne aveva ricevuto,
come launechild, contraccambio, uno stupendo letto in legno d’ebano intarsiato.
Nonostante ciò il futuro suocero aveva storto il naso, e li aveva fatti penare
prima di cedere i suoi diritti di mundio, cioè di proprietà sulla
figlia, e acconsentire al matrimonio. Il giovane Pietro aveva tutto quanto un
padre può desiderare per sua figlia, tranne una cosa: non era d’origine
longobarda.
«Neppure
etrusca, o romana» si sfogava Ardimanno con la moglie. «Non ti dice niente il
nome Mauri? Hai visto la loro insegna? Una pantera e una mezzaluna, più chiaro
di così! Orde moresche, pirati saraceni e profanatori della Terra Santa, ecco
chi erano gli antenati di questi mezzi nobili!»
«Ma loro
son gente per bene»
provava a rintuzzarlo lei.
«E
il colorito della pelle? Come verranno i tuoi nipoti? Io potrei anche far finta
di niente, ma cosa diranno in Arezzo? Mi ci vedi, in chiesa con loro?»
Ardimanno
fu irremovibile, all’inizio, ma pan piano la paziente opera di convinzione
della futura suocera l’ebbe vinta sulle sue resistenze. Quando però si trattò
di decidere la data del matrimonio, un altro fatto rischiò di mandarle a monte:
Mauro dei Mauri, padre di Pietro e nonno del protagonista della nostra storia,
s’impuntò, rifiutandosi di permettere al figlio di offrire alla sposa il morgincap,
il dono del mattino, la ricompensa per la conservata verginità, che secondo
l’antica legge di Liutprando consisteva nella quarta parte dei beni dello
sposo, come garanzia per la vedovanza. Il vecchio Mauro non intendeva
assolutamente smembrare un patrimonio che considerava già esiguo.
«Sono
almeno cent’anni che nessuno applica più le regole longobarde!» tuonò il
vecchio. «Ti dovevi confondere proprio con questi barbari incalliti?»
Alla
fine il denaro risolse tutto. Il vecchio Mauro passò alla sposa un’ingente
quantità di grossi aretini d’argento, come donatio propter nuptias,
secondo il diritto romano, e il rigido Ardimanno venne tacitato con un’altra
somma di denaro, trenta libbre pro traditione sponsarum, sempre secondo
le usanze latine, e con l’offerta di quaranta once di pepe, della pregiata
varietà a chicchi lunghi. Il futuro suocero pretese anche venti soldi, pro
espleto mundio: così, disse, anche la regola longobarda era salva.
Definito
e scritto tutto questo alla presenza di testimoni delle due famiglie,
finalmente i due giovani poterono presentarsi al giudice e Pietro infilò
l’anello al dito della sua Ilde.
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L’ondata
di ricordi accompagnò Pietro giù per la Ruga Mastra. A distanza di tanti anni,
poteva considerare il suo matrimonio veramente riuscito. Anche se le
conseguenze del parto difficile con cui Mauro era venuto al mondo le avevano
impedito di dargli altri figli, anche se parlava poco ed era ancor meno
espansiva, tuttavia la sua Ilde s’era rivelata un dono prezioso, forte in ogni
occasione e perfetta organizzatrice della casa. Ed appariva felice, per quel
che Pietro poteva capirne.
Giunto
all’altezza del cantiere, vi gettò un’occhiata istintiva: da quanto tempo
accarezzava il sogno d’una casa in città! E non per venire ad abitare dentro le
mura in pianta stabile, no: non avrebbe resistito molto, negli spazi angusti
delle contrade, lui abituato alle cavalcate, alle battute di caccia, alle
camminate tra i campi col vento in faccia. Era soprattutto per Mauro, perché respirasse
l’aria cittadina; per farlo partecipe della vivacità delle botteghe,
dell’animazione dei mercati, delle interminabili discussioni nei palazzi
pubblici; perché soprattutto non aveva mai perso la speranza che s’avvicinasse
allo Studio, ai maestri che vi insegnavano e ai venti di novità portati dagli
altri studenti. Pietro era sicuro che tutto questo avrebbe aperto al suo
figliolo un futuro importante: forse, perché no, poteva condurlo a incarichi di
prestigio, anche al di sopra del suo rango.
Crollò
il capo, deluso dalla lentezza dei lavori, e proseguì.
Recuperati
i cavalli dalla stalla di Giunta, uscirono nella campagna e galopparono fianco
a fianco verso casa.
Le prime
colline del Casentino vennero loro incontro, spoglie nella veste invernale. Su di
un basso crinale sorgeva il loro castello, luogo detto Muciafora, strano nome della
cui origine s’era persa memoria. Più che d’un castello vero e proprio, si
trattava in realtà d’una villa, un insediamento rurale fortificato dai loro antenati.
Sulla torre sventolava il vessillo con la pantera e la mezzaluna tanto inviso
al suocero di Pietro.
Dalla
stretta finestra della camera di Mauro, al secondo piano, la Ilde spiava il
loro avvicinarsi, come era solita fare quando li aspettava di ritorno. Sembrano
fratelli, pensò vedendoli superare la Pieve di Santo Stefano, ai piedi della
salita verso casa, cavalcando fianco a fianco. I suoi uomini, come li chiamava
affettuosamente, erano per lei gioia ed orgoglio.
Gli
era piaciuto subito, Pietro, quando s’era presentato a chiederla in sposa; si
sentiva una bambina e quel ragazzone moro che le aveva messo gli occhi addosso
le era parso un gigante buono, che l’avrebbe protetta per tutta la vita.
Si
staccò dal davanzale e scese nella grande sala a sorvegliare gli ultimi
preparativi.
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