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La
mattina di Santo Stefano, che quell’anno cadeva di domenica, la tramontana non s’era
ancora calmata e scompigliava le chiome degli ulivi in vortici di riflessi
argentei. La Pieve di Santo Stefano in Classe, che i Mauri erano soliti
chiamare la nostra pieve, aveva origini molto antiche, che risalivano ai
primi secoli dell’espansione cristiana, e nei tempi d’oro il suo territorio
arrivava addirittura fin oltre Subbiano.
Ora purtroppo mostrava chiaramente
tutti i segni del tempo. I Mauri vi tenevano un altare di famiglia, facevano
officiare messe e sostenevano economicamente gli sforzi del pievano per
mantenerla in uno stato decoroso. Ma i restauri apparivano urgenti e i nostri
speravano nella visita di Guglielmino per convincerlo a finanziare i lavori.
Dopo
la messa solenne, cominciata quasi a mezzogiorno e andata avanti per due ore
buone, Pietro s’avvicinò al presbiterio per rendere omaggio al Vescovo.
«Oh!
Ecco qui i nostri Mauri. È destino che ci vediamo spesso, questo Natale»
«Eccellenza,
ci farete l’onore di condividere la nostra mensa»
«Certamente,
certamente. Il vostro pievano, qui, ci ha detto del vostro invito e accettiamo
volentieri. Anzi, vorremmo chiedervi ospitalità anche per la notte, visto che
domani dovremo proseguire per il Casentino».
«Sarà
un onore».
Il
banchetto andò avanti l’intero pomeriggio, con soddisfazione dei commensali,
che parlarono poco e molto mangiarono. A sera i padroni di casa, sistemati gli
ospiti nelle stanze della torre, raggiunsero il Vescovo e il pievano, che
sorseggiavano il loro ippocrasso davanti al camino.
«Eh,
capita sempre di esagerare, in questi giorni di festa. Quando poi la cucina è
così buona!» il complimento del vecchio Guglielmino giunse alle orecchie della
Ilde, che non dette a vedere di aver udito.
«Ma
se avete mangiato così poco!» protestò Pietro.
«Ormai
da anni consumo quasi soltanto frutta e verdure, ma quel pesce arrostito sulle
braci era proprio speciale. E lo scaveccio di sarde, poi! Una delizia»
«Sono
lieto che vi sia piaciuto il nostro desinare: la mia Ilde ne andrà fiera. E
anche la gente di qui, sapete, non dimenticherà questo Santo Stefano».
Mauro
aveva in uggia quei convenevoli. A lui premeva una domanda: «Ci sarà la guerra?»
Pietro
stava per riprenderlo, perché non importunasse il Vescovo, ma Guglielmino lo
guardò con indulgenza, e forse era merito della buona cena.
«Vedete,
mio giovane ospite, io non voglio la guerra»
«Ma
il vostro discorso dell’altra sera, alla messa di Natale?»
«Sono
loro, che vogliono la guerra». Il Vescovo mandò giù un altro sorso del vino
speziato, e non si curò di chiarire chi fossero quei loro.
«Ma
perché?»
«La
ricchezza chiama potere, e a chi ce l’ha ogni confine sembra un limite, ogni
dazio una condanna»
«Anche
noi abbiamo le nostre Arti, e i nostri mercanti fanno affari con quelli di
Firenze»
«Ma
i nostri, vedete, non comandano la città come i loro. Noi abbiamo valori più
antichi e più giusti: le grandi famiglie della nobiltà terriera, gli ordini
religiosi, i cavalieri d’antico blasone».
«Mi
pare» incalzò Mauro,
«che non ci sia pace
neanche tra i nobili aretini. Perché cacciare i guelfi, sennò?»
«Mauro!»
intervenne Pietro. «Non
essere impertinente».
Il
Vescovo in effetti si rabbuiò. Dopo anni di tentativi per metter d’accordo le
due fazioni, accordi più o meno segreti con ciascuna delle parti, e l’obiettivo
dichiarato di farsi signore di Arezzo, alla fine aveva scelto di star coi
ghibellini, il partito della sua famiglia, e di cacciare Rinaldo dei Bostoli
con tutti i guelfi.
Non
fu, per lui, una scelta ideologica, o almeno non solo: c’erano interessi, in
gioco, alleanze, affari. C’era il potere, quello stesso che rimproverava ai
mercanti di Firenze ma che anche lui voleva. Ma valle a spiegare ad un giovane,
queste cose.
Il
vecchio Guglielmino non rispose, si alzò e, posata la mano benevola sulla
spalla di Pietro, s’avviò zoppicando verso il letto.
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Si
dormì poco, quella notte, nel piccolo castello di Muciafora: la dimora subì lo
sconquasso di un’ospitalità così importante. Gli armati dell’Ubertini trovarono
posto nei pagliericci o sul pavimento del corpo di guardia, i cui legittimi
occupanti furono comandati al portone o sulla torre. I servitori dei Mauri
condivisero le loro casupole coi famigli del presule, mentre nelle stalle i
cavalli di Muciafora fecero posto malvolentieri ai nobili destrieri vescovili.
Solo il terzo piano della torre, quello adibito a deposito e dispensa, rimase
gelosamente chiuso a chiave.
Gli
occhi alle nere travi del soffitto, la mente di Mauro passò in rassegna tutte
le cose successe in quello straordinario Natale. Quante volte, sorvegliando il
lavoro dei coloni e cercando di carpirne i segreti affascinato dalla loro
abilità, pure aveva pensato che la sua vita fosse monotona, che in campagna non
succedeva mai niente, che ogni giorno era inesorabilmente uguale al precedente.
Quante volte aveva improvvisato galoppate nei boschi del Guarniente sognando
avventure mai arrivate.
Ed
ecco che nel giro di due giorni s’era trovato improv-visamente coinvolto nella
grande storia cittadina.
Di
prima mattina l’Ubertini montò a cavallo con insospettata agilità. Pietro
abbozzò una protesta: «Eccellenza, partite così, senza rompere neanche il
digiuno»
«Grazie,
Pietro, ma non mangio mai, al mattino, e specialmente se devo viaggiare. Basta
l’aria frizzante di questa splendida giornata, a tenerci svegli»
La
giornata era veramente radiosa, l’aria gelida ma tersa come solo d’inverno è
dato vedere.
«Accettate
qualcosa da consumar per via»
«Abbiamo
le nostre scorte. Avete già fatto molto, per noi, e ve ne siamo grati. Adesso è
ora di andare». Diede un’occhiata al moncherino di Pietro che gli reggeva il
morso del cavallo, e poi guardò Mauro: «E
tu preparati. Non sempre chi non vuole la guerra riesce ad evitarla». Il corteo partì.
Quando
gli ospiti furono abbastanza lontani e l’eco dei tamburi si smorzò per la
campagna, mamma Ilde diede un cenno alla Bianca, la più sveglia tra le serve,
perché offrisse due mele ai padroni, rimasti in contemplazione del panorama.
Mauro
si godeva la veduta sui colli e sulla piana di Arezzo: un doppio filare di
pioppi argentati accompagnava il fiume e lo segnalava alla vista in mezzo ai
campi arati.
«Questo
è il posto più bello del mondo» disse Pietro.
«Lo
pensava anche il nonno»
«Gran
cavaliere, tuo nonno. Aveva l’idea fissa degli antenati: diceva che dobbiamo
esser degni del nome che portiamo»
«Raccontatemi
di loro».
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I progenitori dei Mauri abitavano la Mauretania,
zona dell’Africa compresa tra i dominî della potente Cartagine e le colonne
d’Ercole. Le colline che dalla catena di Atlante scendono al Mediterraneo erano
molto fertili, ma i Cartaginesi se ne impadronirono, spingendo le tribù verso
l’interno, nel deserto, e condannandole ad una vita grama. Molti allora
reagirono dandosi alle incursioni e alle scorrerie: divennero abilissimi
cavalieri e quando i Romani sbarcarono in Africa per chiudere i conti con
Cartagine, intravidero la possibilità di riscattarsi e dettero man forte alle
legioni di Roma. Un vento di riscossa si levò dal deserto al mare e sulle ali
dell’entusiasmo tutto sembrò possibile. Bocco, il Re dei Mauri, combatté contro
Giugurta, e pochi decenni dopo un altro Bocco, un cavaliere come tanti,
partecipò alla battaglia di Tapso al tempo delle guerre civili, inquadrato tra
le fila di Cesare contro Pompeo. Divenne effettivo delle legioni di Giulio
Cesare e in quello stesso anno lo seguì a Roma.
Fu
per lui un viaggio fantastico. Solcò sulle triremi quel mare che aveva visto
solo dalla terraferma, in Sicilia ammirò i templi greci, lui che aveva sempre vissuto
sotto le tende. Poi, risalendo l’Italia, attraversò verdi foreste e campi
coltivati e ruscelli e laghi, dopo una vita passata nel deserto a calpestar la
sabbia. E infine Roma, l’Urbe, con le sue ville i palazzi i marmi e l’oro.
Cesare
distribuì ai veterani buoni appezzamenti di terra e Bocco poté scegliere la sua
centuria, nella piana a settentrione di Arezzo, vicino all’Arno e al bosco sacro
di Campoluci. Mise su famiglia e in breve tutti, nella zona, li conobbero come i
Mauri.
L’orgoglio non faceva difetto, ai progenitori, e
quando si trattò di scegliere un blasone piazzarono una bella pantera nera su
fondo azzurro. Quando poi, secoli dopo, si sgretolò la potenza di Roma,
passarono sui loro campi orde di barbari scesi dal nord, fino alle tribù
longobarde che assunsero stabilmente il potere. Fu allora che si trasferirono
sulla collina, fortificarono la villa di Muciafora e, per marcare la loro
diversità, aggiunsero la mezzaluna d’argento all’insegna. E non la tolsero
nemmeno ai tempi delle terribili incursioni saracene: i Mauri avevano la loro
storia e l’avrebbero difesa, incuranti di chi li guardava storto.
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