Un mese dopo la nostra fuga, io e l’Adele arrivammo
a Perugia, con la promessa di venir maritate a due fratelli senza mestiere, che
si offrivano come fanti o arcieri a chiunque assicurasse loro un tozzo di pane
ed una minima paga.
Non ero riuscita a
tornare sulla mia collina, ma avevamo trovato una sistemazione accettabile nel
borgo di Malmantile, sulla strada fra Pisa e Firenze, ed è lì che avevamo
incontrato i due, clienti occasionali come tanti. Anche loro avevano disertato
il campo fiorentino ed erano diretti a Perugia perché i Baglioni, così dissero,
pagavano meglio. Ci convinsero ad andar con loro promettendo, appunto, di
sposarci.
Passato l’inverno e
finita pure la primavera, la loro promessa era ancora tale, e noi eravamo
sempre a Perugia, in attesa che si decidessero.
Domenica 28 di giugno lo scampanio festoso delle
chiese svegliò la città in un radioso mattino. L’intera Via Maestra, tra le
case dei Baglioni e la Piazza Grande si presentava pavesata da festoni
colorati, vessilli e bandiere, intervallata da magnifici archi trionfali, intrecciati
con rami foglie e fiori lussureggianti; broccati arazzi e tappeti pendevano dai
davanzali in pietra sulle facciate dei palazzi signorili; chiarine e tamburi
chiamavano il popolo a raccolta, mentre per i vicoli e nelle piazze gruppi di
fanciulle volteggiavano in leggiadre danze fin dalle prime ore; le sete preziose
delle eleganti dame frusciavano sul selciato e i nobili cavalieri sfoggiavano i
loro abiti più raffinati.
Il banchetto nuziale fu allestito intorno al cerchio
della Fontana Maggiore, sulla Piazza Grande: tanti e di tale importanza erano
gli ospiti, che non si era potuto trovare un salone abbastanza vasto da
contenerli.
«T’immagini se fosse per noi!» mi disse l’Adele estasiata.
Invece quel giorno si celebravano le nozze tra
Astorre Baglioni e la bella Lavinia, della dinastia romana dei Colonna. Per lo
sposalizio, suggello al ritrovato dominio dei Baglioni sulla città, la famiglia
non aveva badato a spese, volendo che l’evento rimanesse nelle memorie non solo
dei Perugini.
Non tutta la famiglia, però. Dopo la morte del
grande Braccio, anni prima, i Baglioni erano infatti dilaniati da una mortale
lotta fratricida.
I nostri promessi sposi lavoravano nella guardia
armata del giovane Grifonetto, il più ricco e avvenente tra i Baglioni, bello
come un Ganimede ma ferocemente nemico di Astorre.
Il banchetto si protrasse per l’intera giornata, con
decine di paggi e servitori che veleggiavano tra i tavoli con le portate più
ricche ed elaborate, mentre giocolieri funamboli musicanti ballerini e attori intrattenevano
i commensali con i loro spettacoli, e scorrevano a fiumi vino ed allegria. La
gente, e noi tra loro, faceva ressa dai vicoli e lungo i muri, s’ingrassava gli
occhi e condiva l’ammirazione con l’invidia.
Durante il pomeriggio arrivò alla Fontana un carro
carico di confetti, e vi fu posto sopra il piccolo Simonetto, col suo incantevole
visino paffutello contornato da stupendi riccioli biondi, ed egli lanciava i
confetti al popolino intorno, e rispondeva ai baci e agli applausi con sorrisi
luminosi.
Ma non tutti partecipavano alla festa.
Appoggiato ai bugni d’angolo del Palazzo dei Priori,
Grifonetto assisteva alla gioia degli altri e si arrovellava, masticando la sua
rabbia, tetro come il grifo bronzeo che aveva ispirato il suo nome ed ora lo
guardava minaccioso dalla facciata del palazzo.
Per le sue nozze, lui che era nipote diretto di
Braccio, nessuno aveva neanche pensato a tanta pompa. Eppure la sua Zenobia non
era meno bella di Lavinia. Semmai non era una Colonna. Ecco la vera differenza,
perdio, dicevano i nostri promessi, la sola, unica differenza: l’abilità
politica dei suoi congiunti, le trame e i maneggi, le conoscenze e gli intrighi
avevano portato Astorre ad occupare un posto che non gli spettava e relegato in
un angolo lui, legittimo erede.
Dal tavolo a cui non si era voluto sedere, sua madre
Atalanta e la moglie Zenobia, sedute vicine, gli lanciavano spesso occhiate
supplichevoli, ansiose che mettesse da parte l’orgoglio almeno quel giorno e
s’unisse a loro, togliendole dall’imbarazzo degli ammiccamenti malevoli e dei
pettegolezzi che correvano sussurrati per l’intero banchetto.
Ma il giovane le ignorava con ostentazione. Dal mio
punto di osservazione potevo vederlo bene e vi assicuro che mi facevano pena,
sia lui che sua madre.
Verso sera, mentre si accendevano decine e decine di
torce sulla fontana e tutto intorno alla piazza e lungo la Via Maestra e giù in
fondo davanti al palazzo Baglioni, e con esse riprendeva vigore la festa,
un’ombra si materializzò alle sue spalle.
«Lo riconosco» mi sussurrò l’Adele, che
evidentemente teneva d’occhio Grifonetto come me, «è il Barciglia, un altro dei
Baglioni uscito malconcio dalla lotta per il potere».
Anche Carlo Oddo, vero nome del Barciglia, poteva
accampare buoni diritti. Parlottarono per un po’, occhieggiando di tanto in
tanto in direzione di Giampaolo, da molti ritenuto il personaggio più potente
della casata e il vero organizzatore della festa di quel giorno.
Da dove ci trovavamo, pareva in verità che a parlare
fosse soprattutto il Barciglia, e che Grifonetto ascoltasse con interesse e
quasi con stupore. Ma il buio si faceva più fitto e non saprei dire quanto la
mia impressione corrispondesse al vero. Di sicuro c’è che ad un certo punto si
allontanarono insieme. Atalanta e Zenobia si guardarono, più stupite di noi.
I festeggiamenti si protrassero per due settimane,
con grande gioia dei Perugini. Dopo qualche giorno gli ospiti forestieri cominciarono
ad andarsene, ma ogni mattina Astorre e la sua sposa, sempre più bella e
raggiante, si affacciavano al piccolo balcone della loro camera per dare inizio
alle danze agli spettacoli e ai banchetti, ed ogni sera sfilavano fino alla
Piazza Grande per accogliere le acclamazioni della folla. Giampaolo appariva
sempre al loro fianco.
Anche la sera del 14 luglio il copione si ripeté puntuale.
Mi trovai tra la folla, vicino al portone di casa
Baglioni, mentre gli sposi rientravano. Salivano alla camera nuziale per
un’altra notte d’amore, immaginai.
Astorre guardò gli occhi azzurri di Lavinia: «Mi
piange il cuore» le sussurrò, ma non così piano da impedirmi di sentire, «ma dovremo
metter fine a tutto questo».
Un’espressione delusa si dipinse sul volto della
sposa: «Se proprio dobbiamo», annuì abbassando la testa rassegnata e
poggiandola vezzosamente sulla spalla del suo amato.
Quello che so dei fatti di quella notte mi fu raccontato
il giorno dopo dal mio promesso, coinvolto insieme a suo fratello in
quell’azione vergognosa.
Fu suo il colpo che abbatté la porta della camera e
risvegliò di scatto gli sposi che dormivano abbracciati, strappandoli al sogno
con la violenza d’un tuono improvviso. Il bagliore delle torce che invasero la
stanza accecò Astorre come se una saetta fosse caduta ai piedi del letto.
Prima che avesse tempo di recuperare lucidità, la
mano di Grifonetto lo afferrò per la camicia trascinandolo sul pavimento. Il
Barciglia gli si fece accanto e con un piede immobilizzò il braccio sinistro
dello sposo. Grifonetto bloccò quello destro e premendo la punta della spada
alla gola del parente.
«La tua luna di miele è finita!» gli gridò, il volto
reso paonazzo dal troppo vino bevuto, dall’ira e dal riverbero dei lumi.
Lavinia, gli occhi sbarrati dal terrore, s’era
trascinata nell’angolo lontano della stanza, tirandosi addosso le coltri fin
quasi a coprirsi anche il capo. Spalancava la bocca per urlare, ma nessun suono
usciva dalla sua gola.
Stranamente la mano che impugnava la spada non
ubbidì alla rabbia di Grifonetto e si rifiutò di affondare il colpo. Il Barciglia
se ne accorse, scansò il giovane con uno spintone e si scagliò sul prigioniero
col pugnale.
Arrivò prima la spada di un altro parente, Filippo
Baglioni, che trapassò il petto di Astorre. Un rantolo strozzato fu l’unico
fiato che uscì dalla bocca del disgraziato, mentre stavolta l’urlo di Lavinia
riempì la camera, corse per i corridoi, volò dalla finestra aperta, sulle case
e per i vicoli di Perugia, mischiandosi al lontano ululato d’un lupo. Parve di
udirlo anche a me, sprofondata nel sonno, ma pensai di sognare.
Per un momento infinito i congiurati si guardarono
muti, poi l’ebbrezza e l’odore del sangue fasciarono la testa di Filippo. Ritirò
la spada, tolse il pugnale dalla mano del Barciglia, mise un ginocchio sul
ventre del morto, gli strappò la camicia, affondò la corta lama nella ferita e
la squarciò, in lungo e in largo. Un lago di sangue si sparse sul petto, gli
lordò le mani e scese ad allargarsi sull’assito.
Gli occhi allucinati di Filippo guardarono l’orrendo
lavoro. Scagliò lontano il pugnale, alzò la testa a fissare l’incredulo Grifonetto,
proruppe in una risata agghiacciante, affondò le dita nello sbrano aperto e
tirò. Dio! Tirò fino a strappare il cuore di Astorre!
Quando tese in alto il braccio col suo trofeo, il Barciglia
fece un balzo indietro, Grifonetto s’afflosciò con la testa che gli ronzava, e
il mio promesso, rimasto sull’uscio, si piegò a vomitare. Lavinia, che aveva
intravisto la scena dietro il velo delle lacrime, svenne.
Sulla via davanti al palazzo, dove aveva cominciato
a radunarsi la gente svegliata dal trambusto, tornò a risuonare la risata
demoniaca di Filippo, che, non ancora pago, s’affacciò al terrazzino e fece
roteare il braccio, scagliando il suo trofeo sulle teste. La folla sbandò
inorridita. Tornato dentro, afferrò il morto per i piedi e lo trascinò fin
sotto la finestra più vicina, berciando agli altri rimasti immobili: «Aiutatemi,
perdio!»
Lo raggiunsero due servi, ed insieme sollevarono il
cadavere, salirono i gradini dello strombo, lo appoggiarono sul davanzale e,
tra le grida delle donne sulla via, lo scaraventarono giù.
In quel momento si fece largo entrando nella stanza
un altro dei congiurati, Girolamo della Staffa, seguito da un gruppo di armati.
«Il lavoro è fatto» annunciò. «Qui non c’è più un
uomo vivo». Guardò Grifonetto che continuava a fissare la macchia di sangue
rimasta sul pavimento. «E neanche un bambino» concluse freddo.
«Anche il piccolo Simonetto?» s’informò stupito il
Barciglia. Girolamo annuì nel momento che nuove urla arrivarono dalla via.
Filippo tornò ad affacciarsi e annunciò che da altre finestre stavano lanciando
i corpi del vecchio Guido e di Gismondo.
«Andiamo!» ordinò Girolamo. «I miei uomini trascineranno
quei corpi maledetti fino al Palazzo dei Priori, così che tutti vedano la fine
che fanno i prepotenti in Perugia. Noi occupiamoci di Giampaolo, ora».
Uscì dalla stanza, seguito dal Barciglia che si
trascinava dietro l’inebetito Grifonetto. Il mio promesso s’era accasciato di
lato alla porta, e lì rimase. Suo fratello, invece, non era entrato con gli
altri nel palazzo, rimanendo per strada, di guardia.
In strada c’era anche Giampaolo Baglioni. Svegliato
come tutti dal fragore, arrivò davanti alla casa di Astorre giusto in tempo per
veder volare i cadaveri dei suoi parenti. Il promesso di Adele lo vide farsi
largo tra la folla, divenuta immensa, per correre a dar man forte, ma fu
fermato da un gruppo di giovani, raggiunti dallo scompiglio mentre tiravano
notte in taverna ed accorsi con indosso la divisa dello Studium cittadino.
«Non andate, o farete la stessa fine» li sentì dire.
Giampaolo si oppose, tentò di svincolarsi,
bestemmiò, ma alla fine dovette cedere. Prese la via di casa sua, ma di nuovo i
ragazzi lo sconsigliarono: «Vi cercheranno. Su, venite con noi».
Rimasto senza ordini precisi e spinto dalla
curiosità, l’armato li seguì fino ad un vicolo. Sotto un arco uno degli studenti
si sfilò il corto mantello col cappuccio e il corpetto con lo stemma dell’Universitas. «Mettete questi. Non vi riconosceranno.
Chissà mai che fra le guardie non vi sia qualche traditore».
Fatto lo scambio, si diressero alle mura di levante
ed arrivarono davanti ad una postierla. Due dei giovani confabularono col
capoposto, che quasi subito venne a sfilare il pesante catenaccio.
«Lo abbiamo pagato» sussurrò un altro della brigata.
«Vi sdebiterete al vostro ritorno».
Gli studenti lo spinsero fuori e tornarono sui loro
passi. Il promesso dell’Adele si nascose dietro un cumulo d’immondizia e mentre
gli sfilarono accanto li sentì confabulare.
«C’è suo padre Rodolfo e suo cugino Adriano, là
fuori. Lo condurranno a Marsciano»
«Laggiù troveranno Vitellozzo con le sue Compagnie,
si faranno raggiungere da quelli rimasti loro fedeli e in pochi giorni torneremo
padroni di Perugia».
Lo studente fu buon profeta. L’indomani gli autori
della strage cercarono di presentarsi come liberatori agli occhi dei Perugini,
ma non vi riuscirono. La stessa Atalanta, saputo cos’aveva combinato il figlio
Grifonetto, lo maledisse, cacciandolo dalla propria casa. Pianto lutto e paura
s’impadronirono delle famiglie più in vista, mentre il popolino cominciava a mugugnare,
impressionato dalla ferocia dei congiurati e commosso dalla morte del piccolo
Simonetto: le donne ancora lo vedevano sorridente sul carro dei confetti e
piangevano la sua sorte.
Meno di una settimana dopo Giampaolo e Vitellozzo
marciavano alla volta di Perugia con un forte contingente di armati. Sotto le
mura un furioso combattimento lasciò sul terreno più di trecento uomini. Anche
i nostri due pretendenti morirono quel giorno, combattendo fianco a fianco.
Passando sui loro cadaveri i condottieri entrarono in città. Il Barciglia e
Girolamo della Staffa, che avevano assunto il governo, si dettero alla fuga.
Non fu altrettanto pronto Grifonetto. Mi ritrovai sulla
Piazza Grande quando alcuni armati lo circondarono davanti alla Fontana
Maggiore.
Arrivò Giampaolo: «Pensateci voi» ordinò guardando
il nipote con disprezzo, «non voglio macchiarmi del sangue di parenti, io!».
Lo trafissero in dieci e lo lasciarono morente sul
gradino della Fontana. Accorse Atalanta e dietro di lei la disperata Zenobia.
Grifonetto rantolava.
Intorno a lui si formò un capannello, ma non ebbi
cuore di avvicinarmi. Dicono che Atalanta, accostando le labbra all’orecchio
del figlio e bagnando i riccioli biondi col proprio pianto, gli abbia
sussurrato: «Cos’hai fatto, vita mia? Cos’hai fatto? Come ti presenterai ora a
Dio Giudice? Solo una cosa ti può salvare: perdona, Grifonetto. Perdona chi ti
ha ucciso e forse Dio perdonerà te».
Raccontano che il bellissimo giovane, con un supremo
sforzo, abbia posato la sua mano su quella della madre, a chiedere per primo il
perdono di lei che l’aveva maledetto, e spirò. Atalanta si alzò in piedi,
questo lo vidi, gli occhi asciutti, e lo benedisse.
Da allora, i Perugini chiamarono quei tragici
sponsali le nozze rosse.
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