giovedì 19 marzo 2020

CAPITOLO 8 - PERUGIA: LE NOZZE ROSSE


Un mese dopo la nostra fuga, io e l’Adele arrivammo a Perugia, con la promessa di venir maritate a due fratelli senza mestiere, che si offrivano come fanti o arcieri a chiunque assicurasse loro un tozzo di pane ed una minima paga.

Non ero riuscita a tornare sulla mia collina, ma avevamo trovato una sistemazione accettabile nel borgo di Malmantile, sulla strada fra Pisa e Firenze, ed è lì che avevamo incontrato i due, clienti occasionali come tanti. Anche loro avevano disertato il campo fiorentino ed erano diretti a Perugia perché i Baglioni, così dissero, pagavano meglio. Ci convinsero ad andar con loro promettendo, appunto, di sposarci.
Passato l’inverno e finita pure la primavera, la loro promessa era ancora tale, e noi eravamo sempre a Perugia, in attesa che si decidessero.
Domenica 28 di giugno lo scampanio festoso delle chiese svegliò la città in un radioso mattino. L’intera Via Maestra, tra le case dei Baglioni e la Piazza Grande si presentava pavesata da festoni colorati, vessilli e bandiere, intervallata da magnifici archi trionfali, intrecciati con rami foglie e fiori lussureggianti; broccati arazzi e tappeti pendevano dai davanzali in pietra sulle facciate dei palazzi signorili; chiarine e tamburi chiamavano il popolo a raccolta, mentre per i vicoli e nelle piazze gruppi di fanciulle volteggiavano in leggiadre danze fin dalle prime ore; le sete preziose delle eleganti dame frusciavano sul selciato e i nobili cavalieri sfoggiavano i loro abiti più raffinati.
Il banchetto nuziale fu allestito intorno al cerchio della Fontana Maggiore, sulla Piazza Grande: tanti e di tale importanza erano gli ospiti, che non si era potuto trovare un salone abbastanza vasto da contenerli.
«T’immagini se fosse per noi!» mi disse l’Adele estasiata.
Invece quel giorno si celebravano le nozze tra Astorre Baglioni e la bella Lavinia, della dinastia romana dei Colonna. Per lo sposalizio, suggello al ritrovato dominio dei Baglioni sulla città, la famiglia non aveva badato a spese, volendo che l’evento rimanesse nelle memorie non solo dei Perugini.
Non tutta la famiglia, però. Dopo la morte del grande Braccio, anni prima, i Baglioni erano infatti dilaniati da una mortale lotta fratricida.
I nostri promessi sposi lavoravano nella guardia armata del giovane Grifonetto, il più ricco e avvenente tra i Baglioni, bello come un Ganimede ma ferocemente nemico di Astorre.
Il banchetto si protrasse per l’intera giornata, con decine di paggi e servitori che veleggiavano tra i tavoli con le portate più ricche ed elaborate, mentre giocolieri funamboli musicanti ballerini e attori intrattenevano i commensali con i loro spettacoli, e scorrevano a fiumi vino ed allegria. La gente, e noi tra loro, faceva ressa dai vicoli e lungo i muri, s’ingrassava gli occhi e condiva l’ammirazione con l’invidia.
Durante il pomeriggio arrivò alla Fontana un carro carico di confetti, e vi fu posto sopra il piccolo Simonetto, col suo incantevole visino paffutello contornato da stupendi riccioli biondi, ed egli lanciava i confetti al popolino intorno, e rispondeva ai baci e agli applausi con sorrisi luminosi.
Ma non tutti partecipavano alla festa.
Appoggiato ai bugni d’angolo del Palazzo dei Priori, Grifonetto assisteva alla gioia degli altri e si arrovellava, masticando la sua rabbia, tetro come il grifo bronzeo che aveva ispirato il suo nome ed ora lo guardava minaccioso dalla facciata del palazzo.
Per le sue nozze, lui che era nipote diretto di Braccio, nessuno aveva neanche pensato a tanta pompa. Eppure la sua Zenobia non era meno bella di Lavinia. Semmai non era una Colonna. Ecco la vera differenza, perdio, dicevano i nostri promessi, la sola, unica differenza: l’abilità politica dei suoi congiunti, le trame e i maneggi, le conoscenze e gli intrighi avevano portato Astorre ad occupare un posto che non gli spettava e relegato in un angolo lui, legittimo erede.
Dal tavolo a cui non si era voluto sedere, sua madre Atalanta e la moglie Zenobia, sedute vicine, gli lanciavano spesso occhiate supplichevoli, ansiose che mettesse da parte l’orgoglio almeno quel giorno e s’unisse a loro, togliendole dall’imbarazzo degli ammiccamenti malevoli e dei pettegolezzi che correvano sussurrati per l’intero banchetto.
Ma il giovane le ignorava con ostentazione. Dal mio punto di osservazione potevo vederlo bene e vi assicuro che mi facevano pena, sia lui che sua madre.
Verso sera, mentre si accendevano decine e decine di torce sulla fontana e tutto intorno alla piazza e lungo la Via Maestra e giù in fondo davanti al palazzo Baglioni, e con esse riprendeva vigore la festa, un’ombra si materializzò alle sue spalle.
«Lo riconosco» mi sussurrò l’Adele, che evidentemente teneva d’occhio Grifonetto come me, «è il Barciglia, un altro dei Baglioni uscito malconcio dalla lotta per il potere».
Anche Carlo Oddo, vero nome del Barciglia, poteva accampare buoni diritti. Parlottarono per un po’, occhieggiando di tanto in tanto in direzione di Giampaolo, da molti ritenuto il personaggio più potente della casata e il vero organizzatore della festa di quel giorno.
Da dove ci trovavamo, pareva in verità che a parlare fosse soprattutto il Barciglia, e che Grifonetto ascoltasse con interesse e quasi con stupore. Ma il buio si faceva più fitto e non saprei dire quanto la mia impressione corrispondesse al vero. Di sicuro c’è che ad un certo punto si allontanarono insieme. Atalanta e Zenobia si guardarono, più stupite di noi.
I festeggiamenti si protrassero per due settimane, con grande gioia dei Perugini. Dopo qualche giorno gli ospiti forestieri cominciarono ad andarsene, ma ogni mattina Astorre e la sua sposa, sempre più bella e raggiante, si affacciavano al piccolo balcone della loro camera per dare inizio alle danze agli spettacoli e ai banchetti, ed ogni sera sfilavano fino alla Piazza Grande per accogliere le acclamazioni della folla. Giampaolo appariva sempre al loro fianco.
Anche la sera del 14 luglio il copione si ripeté puntuale.
Mi trovai tra la folla, vicino al portone di casa Baglioni, mentre gli sposi rientravano. Salivano alla camera nuziale per un’altra notte d’amore, immaginai.
Astorre guardò gli occhi azzurri di Lavinia: «Mi piange il cuore» le sussurrò, ma non così piano da impedirmi di sentire, «ma dovremo metter fine a tutto questo».
Un’espressione delusa si dipinse sul volto della sposa: «Se proprio dobbiamo», annuì abbassando la testa rassegnata e poggiandola vezzosamente sulla spalla del suo amato.
Quello che so dei fatti di quella notte mi fu raccontato il giorno dopo dal mio promesso, coinvolto insieme a suo fratello in quell’azione vergognosa.
Fu suo il colpo che abbatté la porta della camera e risvegliò di scatto gli sposi che dormivano abbracciati, strappandoli al sogno con la violenza d’un tuono improvviso. Il bagliore delle torce che invasero la stanza accecò Astorre come se una saetta fosse caduta ai piedi del letto.
Prima che avesse tempo di recuperare lucidità, la mano di Grifonetto lo afferrò per la camicia trascinandolo sul pavimento. Il Barciglia gli si fece accanto e con un piede immobilizzò il braccio sinistro dello sposo. Grifonetto bloccò quello destro e premendo la punta della spada alla gola del parente.
«La tua luna di miele è finita!» gli gridò, il volto reso paonazzo dal troppo vino bevuto, dall’ira e dal riverbero dei lumi.
Lavinia, gli occhi sbarrati dal terrore, s’era trascinata nell’angolo lontano della stanza, tirandosi addosso le coltri fin quasi a coprirsi anche il capo. Spalancava la bocca per urlare, ma nessun suono usciva dalla sua gola.
Stranamente la mano che impugnava la spada non ubbidì alla rabbia di Grifonetto e si rifiutò di affondare il colpo. Il Barciglia se ne accorse, scansò il giovane con uno spintone e si scagliò sul prigioniero col pugnale.
Arrivò prima la spada di un altro parente, Filippo Baglioni, che trapassò il petto di Astorre. Un rantolo strozzato fu l’unico fiato che uscì dalla bocca del disgraziato, mentre stavolta l’urlo di Lavinia riempì la camera, corse per i corridoi, volò dalla finestra aperta, sulle case e per i vicoli di Perugia, mischiandosi al lontano ululato d’un lupo. Parve di udirlo anche a me, sprofondata nel sonno, ma pensai di sognare.
Per un momento infinito i congiurati si guardarono muti, poi l’ebbrezza e l’odore del sangue fasciarono la testa di Filippo. Ritirò la spada, tolse il pugnale dalla mano del Barciglia, mise un ginocchio sul ventre del morto, gli strappò la camicia, affondò la corta lama nella ferita e la squarciò, in lungo e in largo. Un lago di sangue si sparse sul petto, gli lordò le mani e scese ad allargarsi sull’assito.
Gli occhi allucinati di Filippo guardarono l’orrendo lavoro. Scagliò lontano il pugnale, alzò la testa a fissare l’incredulo Grifonetto, proruppe in una risata agghiacciante, affondò le dita nello sbrano aperto e tirò. Dio! Tirò fino a strappare il cuore di Astorre!
Quando tese in alto il braccio col suo trofeo, il Barciglia fece un balzo indietro, Grifonetto s’afflosciò con la testa che gli ronzava, e il mio promesso, rimasto sull’uscio, si piegò a vomitare. Lavinia, che aveva intravisto la scena dietro il velo delle lacrime, svenne.
Sulla via davanti al palazzo, dove aveva cominciato a radunarsi la gente svegliata dal trambusto, tornò a risuonare la risata demoniaca di Filippo, che, non ancora pago, s’affacciò al terrazzino e fece roteare il braccio, scagliando il suo trofeo sulle teste. La folla sbandò inorridita. Tornato dentro, afferrò il morto per i piedi e lo trascinò fin sotto la finestra più vicina, berciando agli altri rimasti immobili: «Aiutatemi, perdio!»
Lo raggiunsero due servi, ed insieme sollevarono il cadavere, salirono i gradini dello strombo, lo appoggiarono sul davanzale e, tra le grida delle donne sulla via, lo scaraventarono giù.
In quel momento si fece largo entrando nella stanza un altro dei congiurati, Girolamo della Staffa, seguito da un gruppo di armati.
«Il lavoro è fatto» annunciò. «Qui non c’è più un uomo vivo». Guardò Grifonetto che continuava a fissare la macchia di sangue rimasta sul pavimento. «E neanche un bambino» concluse freddo.
«Anche il piccolo Simonetto?» s’informò stupito il Barciglia. Girolamo annuì nel momento che nuove urla arrivarono dalla via. Filippo tornò ad affacciarsi e annunciò che da altre finestre stavano lanciando i corpi del vecchio Guido e di Gismondo.
«Andiamo!» ordinò Girolamo. «I miei uomini trascineranno quei corpi maledetti fino al Palazzo dei Priori, così che tutti vedano la fine che fanno i prepotenti in Perugia. Noi occupiamoci di Giampaolo, ora».
Uscì dalla stanza, seguito dal Barciglia che si trascinava dietro l’inebetito Grifonetto. Il mio promesso s’era accasciato di lato alla porta, e lì rimase. Suo fratello, invece, non era entrato con gli altri nel palazzo, rimanendo per strada, di guardia.
In strada c’era anche Giampaolo Baglioni. Svegliato come tutti dal fragore, arrivò davanti alla casa di Astorre giusto in tempo per veder volare i cadaveri dei suoi parenti. Il promesso di Adele lo vide farsi largo tra la folla, divenuta immensa, per correre a dar man forte, ma fu fermato da un gruppo di giovani, raggiunti dallo scompiglio mentre tiravano notte in taverna ed accorsi con indosso la divisa dello Studium cittadino.
«Non andate, o farete la stessa fine» li sentì dire.
Giampaolo si oppose, tentò di svincolarsi, bestemmiò, ma alla fine dovette cedere. Prese la via di casa sua, ma di nuovo i ragazzi lo sconsigliarono: «Vi cercheranno. Su, venite con noi».
Rimasto senza ordini precisi e spinto dalla curiosità, l’armato li seguì fino ad un vicolo. Sotto un arco uno degli studenti si sfilò il corto mantello col cappuccio e il corpetto con lo stemma dell’Universitas. «Mettete questi. Non vi riconosceranno. Chissà mai che fra le guardie non vi sia qualche traditore».
Fatto lo scambio, si diressero alle mura di levante ed arrivarono davanti ad una postierla. Due dei giovani confabularono col capoposto, che quasi subito venne a sfilare il pesante catenaccio.
«Lo abbiamo pagato» sussurrò un altro della brigata. «Vi sdebiterete al vostro ritorno».
Gli studenti lo spinsero fuori e tornarono sui loro passi. Il promesso dell’Adele si nascose dietro un cumulo d’immondizia e mentre gli sfilarono accanto li sentì confabulare.
«C’è suo padre Rodolfo e suo cugino Adriano, là fuori. Lo condurranno a Marsciano»
«Laggiù troveranno Vitellozzo con le sue Compagnie, si faranno raggiungere da quelli rimasti loro fedeli e in pochi giorni torneremo padroni di Perugia».
Lo studente fu buon profeta. L’indomani gli autori della strage cercarono di presentarsi come liberatori agli occhi dei Perugini, ma non vi riuscirono. La stessa Atalanta, saputo cos’aveva combinato il figlio Grifonetto, lo maledisse, cacciandolo dalla propria casa. Pianto lutto e paura s’impadronirono delle famiglie più in vista, mentre il popolino cominciava a mugugnare, impressionato dalla ferocia dei congiurati e commosso dalla morte del piccolo Simonetto: le donne ancora lo vedevano sorridente sul carro dei confetti e piangevano la sua sorte.
Meno di una settimana dopo Giampaolo e Vitellozzo marciavano alla volta di Perugia con un forte contingente di armati. Sotto le mura un furioso combattimento lasciò sul terreno più di trecento uomini. Anche i nostri due pretendenti morirono quel giorno, combattendo fianco a fianco. Passando sui loro cadaveri i condottieri entrarono in città. Il Barciglia e Girolamo della Staffa, che avevano assunto il governo, si dettero alla fuga.
Non fu altrettanto pronto Grifonetto. Mi ritrovai sulla Piazza Grande quando alcuni armati lo circondarono davanti alla Fontana Maggiore.
Arrivò Giampaolo: «Pensateci voi» ordinò guardando il nipote con disprezzo, «non voglio macchiarmi del sangue di parenti, io!».
Lo trafissero in dieci e lo lasciarono morente sul gradino della Fontana. Accorse Atalanta e dietro di lei la disperata Zenobia. Grifonetto rantolava.
Intorno a lui si formò un capannello, ma non ebbi cuore di avvicinarmi. Dicono che Atalanta, accostando le labbra all’orecchio del figlio e bagnando i riccioli biondi col proprio pianto, gli abbia sussurrato: «Cos’hai fatto, vita mia? Cos’hai fatto? Come ti presenterai ora a Dio Giudice? Solo una cosa ti può salvare: perdona, Grifonetto. Perdona chi ti ha ucciso e forse Dio perdonerà te».
Raccontano che il bellissimo giovane, con un supremo sforzo, abbia posato la sua mano su quella della madre, a chiedere per primo il perdono di lei che l’aveva maledetto, e spirò. Atalanta si alzò in piedi, questo lo vidi, gli occhi asciutti, e lo benedisse.
Da allora, i Perugini chiamarono quei tragici sponsali le nozze rosse.

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