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Come
ogni anno, fin da bambino, Mauro s’aspettava un grande banchetto, con cento
portate, come quelli che nei racconti di suo nonno avvenivano tutti i giorni
alle corti dei re. Come ogni anno, restò deluso.
Raccolti
sul lato della lunga tavola più vicino al camino acceso, consumarono un pasto
simile a quello di ogni domenica, salvo per il finale, quando la famigliola
attinse alla ciotola di uva passa, dolce simbolo di buon augurio per l’anno che
cominciava.
Mentre
se la gustava, Mauro protestò timidamente con sua madre: «Però, almeno per
Natale, mamma, qualche servizio in più! Che so, un bel maiale arrosto!»
La
Ilde lo guardò comprensiva, come sempre, e come sempre a rispondergli fu suo
padre: «Suvvia! Sai che per noi la grande festa è domani, per Santo Stefano, il
patrono della nostra Pieve».
La
Ilde era già in faccende per riordinare la tavola. Si avvicinò al marito:
«Stamani alla messa il pievano ha detto che ci sarà anche il Vescovo»
«Guglielmino?
Qui!?» Pietro saltò letteralmente dalla sedia.
«Pare
che sia diretto al suo castello di Gressa, in Casentino, e voglia fermarsi qui
per la festa del Patrono»
«Poteva
darmi un cenno, stanotte, mandarmi qualcuno con un messaggio! Toccherà a noi,
riceverlo domani, e organizzare il banchetto. Bisognerà sistemar la casa, e
lucidar le armi».
La
Ilde lo lasciò sfogare senza scomporsi: «Ho disposto per tutto: le donne sono
al lavoro, in cucina, e ho fatto passar voce agli armati, ai servi e anche ai
contadini»
«Ecco
spiegato tutto quel gran daffare, quando siamo arrivati, e perché s’è mangiato
così alla svelta!» A Mauro non era sfuggita l’insolita agitazione che animava
il piccolo castello, e neppure una certa fretta nel servire il banchetto
natalizio.
«Su,
figliolo, va’ a chiamare i ragazzi della nostra gente. È pur sempre Natale e
dobbiamo distribuire il ceppo»
«Ma,
Ilde, non c’è tempo!» protestò Pietro.
«Sì,
che c’è tempo», lo guardò dura, «e Natale è oggi!»
Pietro
s’arrese e Mauro uscì a radunare i bambini.
Il ceppo
in origine era un grosso ciocco di quercia, che il signore regalava ad ogni
famiglia dipendente come segno di benevolenza, per scaldar le case nelle fredde
notti da Natale all’Epifania. Col tempo, la tradizione aveva aggiunto regali in
natura: la famiglia Mauri riempiva a ciascuno una brocca di vino, per far
festa, ed una d’olio, per integrare la magra alimentazione, una ciotola d’uva
passa, per buon augurio, e tre candele per rischiarar le loro serate. Si dava
tutto ai ragazzi, perché non paresse elemosina.
Pietro
s’avvicinò all’angolo dove era già preparata la legna e tutto il resto, e
borbottò alla moglie: «Anche l’olio! Sai che è stata una cattiva annata!»
«Proprio
per questo non ne hanno abbastanza. Noi ne venderemo di meno»
«Fai
presto, tu, ma non è facile far quadrare i conti!»
«So
che ce la farai, come sempre». Quando lo guardava con quel sorriso fiducioso, a
Pietro pareva di poter far tutto.
Ruppe
gl’indugi: «Su, venite! Chi è più forte? Tu sei robusto, eccoti il ceppo.
E tu? Sei la figlia di Oddo? Come ti sei fatta grande! Prendi la brocca del
vino, ma attenta che non cada, eh!»
Oddo
era a capo del piccolo drappello di armati che difendeva Muciafora, cinque
uomini in tutto, impiegati nei lavori più vari quando non servivano le loro
armi. Esperto e fedele, Oddo era per i suoi signori un vero e proprio tutore.
Mauro
e la Ilde aiutarono nella distribuzione, tra i sorrisi e gli inchini impacciati
dei bimbi, che ricevuto il proprio dono fuggivano via imbarazzati ma contenti. Rapidamente
l’angolo dei doni si svuotò e con esso il salone.
La
Ilde raggiunse le donne che lavoravano ai dolci, per i quali s’era attinto alle
scorte di mandorle di noci e di miele, mentre Pietro e Mauro si diressero alle
stalle e alle rimesse, dove i famigli lustravano le bardature e i finimenti dei
cavalli e ingrassavano le ruote dei carri. In un angolo della corte un
gruppetto di ragazze preparava festoni intrecciando rami e foglie secche, serti
di alloro, mazzi di pungitopo e di vischio, coi quali decorare i carri. Il loro
vociare riecheggiava allegro per il castello.
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Seduto
come al solito sul suo masso sotto al grande noce al centro della corte, il
vecchio Moro si massaggiava il moncherino della gamba destra incurante del
freddo.
Pareva
disinteressato a tutto quel gran daffare, ma in verità seguiva i preparativi
emozionato quasi più degli altri. Nel ’60 era al fianco del Vescovo a
Montaperti, la sua battaglia più epica, e purtroppo anche l’ultima.
Raccontava
sempre ai ragazzi che gli si facevano intorno curiosi, Mauro in testa, di come
sostenendo l’assalto di tre nemici, lo spadone d’uno di loro gli avesse
tranciato l’arto di netto, e di come avesse continuato a combattere fino ad
ucciderli tutti e tre, i maledetti, prima di svenire.
E
fortuna che il nonno di Mauro, gran guerriero, diceva lui, coraggioso fino
all’incoscienza, sfidando il pericolo lo soccorse e se lo caricò di peso sul
cavallo, salvandolo così da morte certa.
Tirava
avanti per ore, inserendo nel suo racconto ogni volta particolari inediti, di
come il padrone lo avesse portato in territorio aretino affidandolo ad una
vecchia che abitava in una capanna, di come questa lo avesse curato con
impacchi di erbe misteriose, di come si fosse svegliato dopo una settimana, e
di come lei, brutta come una strega, diceva, lo avesse nutrito e medicato per
un mese, finché rimesso in forze non fu in grado di tornare a Muciafora su un
caro mandato apposta dal padrone.
Per
Mauro e gli altri ragazzi i racconti del vecchio erano una vera fabbrica dei
sogni, mentre i sogni del Moro, dopo Montaperti, giravano intorno alla figura
di Guglielmino. A lui che fosse Vescovo non importava: l’essenziale era che
fosse un guerriero, così forte da sconfiggere i nemici suoi e di Arezzo, capace
di quelle imprese che lui non poteva più compiere.
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