Entrai
nella piccola cucina annerita dal fumo e depositai la brocca sulla panca
addossata alla parete. L’Adele stava rimestando nel grande paiolo sospeso sul
fuoco. Mi sorrise.
Dopo
la tragedia delle nozze rosse, eravamo scappate anche da Perugia. La vista di
Vitellozzo al fianco del Baglioni mi aveva terrorizzato, risvegliando i
fantasmi di Pisa. Pensai che se mi avesse ripresa, stavolta mi avrebbe uccisa.
Lo
dissi all’Adele, che senza esitare rispose: «Andiamo».
Decidemmo
di tornare a Malmantile.
Ci
pareva un posto tranquillo: qualche casa, una chiesetta, alcune botteghe
affacciate sulla via, baracche di legno per lo più, all’ombra d’un massiccio
castello posto a difesa della Dominante.
Stanche
delle nostre traversie, ci offrimmo come serve ai mercanti che vi soggiornavano
a periodi, secondo la stagione e i prodotti che avevano da vendere. In cambio
del cibo che mangiavamo, si cucinava per tutti, si lavavano i panni,
rassettavamo le baracche e svolgevamo piccole mansioni.
Ci
permisero di usare uno degli alloggi, rimasto vuoto per la morte del conciatore
di pelli che ne era proprietario. In breve diventammo “le donne del borgo”.
Nel
giro di qualche giorno, anzi di qualche notte, offrimmo ai mercanti pure la
nostra compagnia, ricavandone un guadagno non disprezzabile.
Stavamo
bene, tanto che un anno dopo, alla fine di maggio del 1501, eravamo ancora là.
«Com’è
andata, stanotte, col fabbro?» ammiccò l’Adele. «Focoso, vero?»
«Ha
due manacce!»
Mi
massaggiai il sedere ancora indolenzito.
L’Adele
mi squadrò: «Ti sei fatta più donna, lo sai? Forme arrotondate, carne soda, e i
tuoi lineamenti han perso ogni traccia di fanciullezza. Beata te, però, che di
quell’età conservi l’incarnato bianco e la pelle liscia».
Non
era gelosa, l’Adele. D’altronde ce n’era anche per lei. Il gruppo ormai quasi
fisso dei nostri frequentatori, tutti uomini tranquilli, l’aveva rassicurata.
Pian piano s’era sciolta, fino a sentirsi un po’ la loro moglie; di ognuno
conosceva difetti e segreti, diurni e notturni. Sapeva come prenderli e metteva
a frutto certe sue abilità molto apprezzate dagli amanti.
All’osteria,
la sera, si parlava con soddisfazione delle “donne del borgo” e per noi quelle
quattro baracche erano divenute un piccolo insperato paradiso.
«Dammi
quella ciotola, va, ché gli porto la zuppa in bottega, al fabbro: ha da far dei
conti, oggi, e non verrà a mangiar con gli altri».
Presi
la ciotola fumante, coperta da una grossa fetta di cruschello, e uscii per
strada. Mi fermai quasi subito, fissando il polverone che s’alzava dalla parte
di Empoli.
M’assalì
un’inquietudine strana. Con gesto meccanico allontanai dagli occhi una ciocca
ribelle. Man mano che la nube s’avvicinava e si faceva più grossa, cresceva con
lei un rumore sordo, guastando l’aria serena. Centinaia di zoccoli battevano la
terra seguendo ciascuno il proprio ritmo, così da formare un brontolio cupo e
continuo, una lugubre nota di morte.
Vitellozzo
cavalcava alla testa dei suoi. Come ne intravidi l’insegna, la ciotola mi cadde
di mano. Ancora! Anche lì! Non era possibile! Scappa, Maria! Scappa, prima che
ti veda. Ma le gambe rifiutarono di muoversi e mi tennero lì, in attesa
dell’inevitabile. M’accorsi d’avere l’Adele al mio fianco.
Vitellozzo
mi sfilò davanti, terribile nella sua armatura, senza vedermi come non vide il
piccolo popolo che s’era fatto sulla via per assistere al passaggio del suo
esercito. Sfilarono i luogotenenti, i vessilliferi, le artiglierie, le trombe e
i tamburi. Sfilarono le compagnie a cavallo e gli appiedati. Sfilarono infine i
carri, scortati da cavalli leggeri. Sul primo non c’erano armi né barili o
sacchi. Portava invece un carico di donne.
Fissai
i volti tristi e impauriti di quelle povere schiave e brutti ricordi mi
tornarono alla mente. D’improvviso mi sentii afferrare per la vita e sollevare
da terra. Urtai il fianco d’un cavallo e poi venni scaraventata nel carro, con
le altre. L’Adele m’arrivò addosso un attimo dopo.
Non
c’eravamo ancora rese conto, e già il borgo s’allontanava dietro al carro.
M’afferrai alla sponda per saltar giù, ma un colpo di frusta, preciso, mi
sfregiò le dita strappandomi un urlo. Ricaddi seduta e m’arresi, stringendomi
le mani al ventre, sbattuta dai sobbalzi del carro.
In testa alla colonna
Vitellozzo cavalcava soddisfatto: «Mi frutteranno un bel po’ di ducati, le
puttanelle che abbiamo raccattato! Conosco un paio di mezzane…»
Tarlatino lo guardò
perplesso. Possibile che il suo signore riuscisse a vedere nelle donne solo
merce? Anche in occasione della fuga di quella di Pisa s’era infuriato, ma solo
per lo smacco subito e non certo per aver perso un’amante.
Doveva però riconoscere
che la frenesia di Vitellozzo galvanizzava gli assoldati delle sue Compagnie,
continuamente spinti alla razzia al sacco e allo stupro.
Aspettando il Borgia,
assediarono il castello di Pomarance e tornarono anche a Pisa, per sventare un
tentativo di accordo tra gli stanchi assediati e gli stanchi assedianti.
Infine venne l’ora di
Piombino.
In giugno, però, furono
chiamati a Roma dal Valentino.
Re Luigi andava alla
conquista del regno di Napoli, e bisognava dargli man forte.
«Ottimo! Così
piazzeremo le nostre donne!».
Chissà perché le risate
di Vitellozzo erano sempre sgradevoli. Lasciato davanti a Piombino un campo
sufficiente a tener l’assedio, guidò i migliori dei suoi verso Roma.
Quella
che chiamavano Messalina, arrivata davanti a me, sfoggiò un sorriso compiaciuto
e sornione. Neanche lei, la cortigiana più famosa di Roma, ricordava il proprio
vero nome: per tutti era Messalina, incarnazione dei vizi e dei piaceri
dell’Urbe.
Vitellozzo
accarezzava soddisfatto il proprio neo. Riconoscendomi, aveva avuto un moto
d’incredulità e di stizza, subito frenato dalla sua avidità. Lo sguardo di
Messalina gli fece balenare un lauto guadagno, e le sue parole glielo
confermarono: «Prendo solo questa» gli disse senza degnarlo d’uno sguardo. «Le
altre puoi portarle alle mezzane di Trastevere. Quanto a te» mi alzò il mento
con la mano protetta da un fazzoletto ricamato, «con una adeguata preparazione
farai la tua figura alla corte di Papa Alessandro».
L’esperienza
non mi mancava e non ebbi bisogno di lunghe lezioni. Ripensando ai monaci di
casa mia, m’ero anche fatta un’idea di quello che mi aspettava. E invece non
finii tra le braccia del Borgia e neppure di nessuno dei suoi cardinali. Passavo
le mie giornate tra i lussi i bagni i profumi i cuscini i banchetti e i balli
della corte papale, al servizio però di Lucrezia, la giovane e avvenente figlia
del papa.
Ora
accadde quello che non avrei mai immaginato: lei s’invaghì di me, fino a
volermi nel suo letto.
«Sono
stanca degli uomini e della loro brutalità» mi ripeteva spesso, giocando con i
miei capelli o passandomi lungo i fianchi le dita delicate.
Non
era vero, naturalmente. La vedevo spesso farsi oggetto delle attenzioni ora
d’un capitano, poi d’un giovane cardinale, o magari d’un paggio piacente. Ma
che m’importava? Le carezze di Lucrezia erano sempre meglio della violenza d’un
soldato o di quell’animale di Vitellozzo. Almeno mangiavo bene, da signora.
Alle feste, quasi ogni giorno, dovevo danzare, spogliarmi ed offrirmi agli
occhi languidi di vecchi prelati, novella Susanna, ma i graffi i lividi e le botte
erano solo un brutto ricordo.
Fino
a quella maledetta notte.
Gli
abbracci e i baci di Lucrezia erano stati insolitamente caldi, la sera, ed
aveva voluto che dormissimo insieme, abbandonandosi su di me dopo un lungo pianto
sommesso di cui non ebbi cuore d’indagare il motivo.
Nel
mezzo della nottata Cesare, il Valentino, piombò nella camera della sorella
come una furia, svegliandoci di soprassalto. Senza dire parola mi scaraventò
giù dal letto e si mise cavalcioni a Lucrezia, spogliandosi freneticamente.
Non
credevo ai miei occhi.
Lei,
dopo qualche tentativo di resistenza, lo lasciò fare. Poi gli sorrise, d’un
ghigno complice, ed infine si diede a corrispondere all’amplesso bestiale.
Era
troppo anche per il mio stomaco avvezzo a mille porcherie. Strisciai sull’assito
tentando di guadagnare la porta. Il Valentino se n’avvide, balzò dal letto e mi
raggiunse. Mi sollevò di peso, scaraventandomi sul letto accanto alla sorella.
Mentre riprendeva l’incestuoso rapporto, si diede a frugarmi con le due mani e
a mordermi, finché non mi liberai con uno strattone, tentando una nuova fuga.
Di nuovo mi riprese. Uno schiaffo mi spaccò il labbro ed uno spintone mi mandò
a sbattere lo zigomo contro la colonna del baldacchino.
Eccitato
dal nuovo giocattolo, continuò a sfogare sul mio corpo la sua libidine
selvaggia, mentre Lucrezia rideva sguaiata.
Di
tutto dovetti subire, da quella coppia d’assatanati. Di tutto, per ore, prima
di sentirli crollare sfiniti sul letto, uno sopra all’altra. Ogni mio tentativo
di resistenza accendeva maggiormente la passione dei due, e non potei far altro
che lasciarli fare. Alla fine rimasi lì, distesa sul letto ad occhi chiusi,
ascoltando il loro respiro farsi via via più lento e regolare, fino a prendere
il ritmo del sonno.
Quando
fui certa che dormissero, mi lasciai scivolare lentamente sul pavimento e
strisciai piano verso la porta, rimasta aperta. Nell’anticamera mi alzai,
dolorante e ferita dai morsi della belva, recuperai la camicia abbandonata su
una panca e m’infilai in uno stretto corridoio, verso l’angusta scala a chiocciola
che sapevo mi avrebbe portato giù alle cucine.
L’alba
era lontana quando uscii a respirare l’aria fresca del Lungotevere. La luna si
rifletteva opaca sull’acqua sporca. Mi appoggiai al parapetto e piansi.
Non
so per quanto tempo rimasi là. Quando il cielo schiarì, m’accorsi di essere
ancora troppo vicina ai sacri palazzi. Dovevo fuggire, di nuovo.
Camminavo
radente ai muri dei vicoli di Roma, quando un portone si spalancò e ne uscì
improvvisa la scorta d’un Cardinale. M’appiattii contro lo stipite dell’uscio
d’una stalla, sperando di rimanere inosservata.
Il
Cardinal Giovanni de’ Medici mi vide, invece, si fermò ad osservarmi un momento
e poi mi venne incontro. Tremavo. Inaspettatamente si sfilò il mantello e me lo
appoggiò sulle spalle.
«Entra
in casa, su. Fatti lavare le ferite e dare un letto. Hai bisogno di riposo. Non
temere. Da questo momento sei sotto la mia protezione e nessuno ti farà più
male».
Lo
guardai, e i suoi occhi sciolsero il mio terrore.
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