giovedì 26 marzo 2020

CAPITOLO 12 - CORTIGIANA PER POCO

Entrai nella piccola cucina annerita dal fumo e depositai la brocca sulla panca addossata alla parete. L’Adele stava rimestando nel grande paiolo sospeso sul fuoco. Mi sorrise.
Dopo la tragedia delle nozze rosse, eravamo scappate anche da Perugia. La vista di Vitellozzo al fianco del Baglioni mi aveva terrorizzato, risvegliando i fantasmi di Pisa. Pensai che se mi avesse ripresa, stavolta mi avrebbe uccisa.
Lo dissi all’Adele, che senza esitare rispose: «Andiamo».

Decidemmo di tornare a Malmantile.
Ci pareva un posto tranquillo: qualche casa, una chiesetta, alcune botteghe affacciate sulla via, baracche di legno per lo più, all’ombra d’un massiccio castello posto a difesa della Dominante.
Stanche delle nostre traversie, ci offrimmo come serve ai mercanti che vi soggiornavano a periodi, secondo la stagione e i prodotti che avevano da vendere. In cambio del cibo che mangiavamo, si cucinava per tutti, si lavavano i panni, rassettavamo le baracche e svolgevamo piccole mansioni.
Ci permisero di usare uno degli alloggi, rimasto vuoto per la morte del conciatore di pelli che ne era proprietario. In breve diventammo “le donne del borgo”.
Nel giro di qualche giorno, anzi di qualche notte, offrimmo ai mercanti pure la nostra compagnia, ricavandone un guadagno non disprezzabile.
Stavamo bene, tanto che un anno dopo, alla fine di maggio del 1501, eravamo ancora là.
«Com’è andata, stanotte, col fabbro?» ammiccò l’Adele. «Focoso, vero?»
«Ha due manacce!»
Mi massaggiai il sedere ancora indolenzito.
L’Adele mi squadrò: «Ti sei fatta più donna, lo sai? Forme arrotondate, carne soda, e i tuoi lineamenti han perso ogni traccia di fanciullezza. Beata te, però, che di quell’età conservi l’incarnato bianco e la pelle liscia».
Non era gelosa, l’Adele. D’altronde ce n’era anche per lei. Il gruppo ormai quasi fisso dei nostri frequentatori, tutti uomini tranquilli, l’aveva rassicurata. Pian piano s’era sciolta, fino a sentirsi un po’ la loro moglie; di ognuno conosceva difetti e segreti, diurni e notturni. Sapeva come prenderli e metteva a frutto certe sue abilità molto apprezzate dagli amanti.
All’osteria, la sera, si parlava con soddisfazione delle “donne del borgo” e per noi quelle quattro baracche erano divenute un piccolo insperato paradiso.
«Dammi quella ciotola, va, ché gli porto la zuppa in bottega, al fabbro: ha da far dei conti, oggi, e non verrà a mangiar con gli altri».
Presi la ciotola fumante, coperta da una grossa fetta di cruschello, e uscii per strada. Mi fermai quasi subito, fissando il polverone che s’alzava dalla parte di Empoli.
M’assalì un’inquietudine strana. Con gesto meccanico allontanai dagli occhi una ciocca ribelle. Man mano che la nube s’avvicinava e si faceva più grossa, cresceva con lei un rumore sordo, guastando l’aria serena. Centinaia di zoccoli battevano la terra seguendo ciascuno il proprio ritmo, così da formare un brontolio cupo e continuo, una lugubre nota di morte.
Vitellozzo cavalcava alla testa dei suoi. Come ne intravidi l’insegna, la ciotola mi cadde di mano. Ancora! Anche lì! Non era possibile! Scappa, Maria! Scappa, prima che ti veda. Ma le gambe rifiutarono di muoversi e mi tennero lì, in attesa dell’inevitabile. M’accorsi d’avere l’Adele al mio fianco.
Vitellozzo mi sfilò davanti, terribile nella sua armatura, senza vedermi come non vide il piccolo popolo che s’era fatto sulla via per assistere al passaggio del suo esercito. Sfilarono i luogotenenti, i vessilliferi, le artiglierie, le trombe e i tamburi. Sfilarono le compagnie a cavallo e gli appiedati. Sfilarono infine i carri, scortati da cavalli leggeri. Sul primo non c’erano armi né barili o sacchi. Portava invece un carico di donne.
Fissai i volti tristi e impauriti di quelle povere schiave e brutti ricordi mi tornarono alla mente. D’improvviso mi sentii afferrare per la vita e sollevare da terra. Urtai il fianco d’un cavallo e poi venni scaraventata nel carro, con le altre. L’Adele m’arrivò addosso un attimo dopo.
Non c’eravamo ancora rese conto, e già il borgo s’allontanava dietro al carro. M’afferrai alla sponda per saltar giù, ma un colpo di frusta, preciso, mi sfregiò le dita strappandomi un urlo. Ricaddi seduta e m’arresi, stringendomi le mani al ventre, sbattuta dai sobbalzi del carro.

In testa alla colonna Vitellozzo cavalcava soddisfatto: «Mi frutteranno un bel po’ di ducati, le puttanelle che abbiamo raccattato! Conosco un paio di mezzane…»
Tarlatino lo guardò perplesso. Possibile che il suo signore riuscisse a vedere nelle donne solo merce? Anche in occasione della fuga di quella di Pisa s’era infuriato, ma solo per lo smacco subito e non certo per aver perso un’amante.
Doveva però riconoscere che la frenesia di Vitellozzo galvanizzava gli assoldati delle sue Compagnie, continuamente spinti alla razzia al sacco e allo stupro.
Aspettando il Borgia, assediarono il castello di Pomarance e tornarono anche a Pisa, per sventare un tentativo di accordo tra gli stanchi assediati e gli stanchi assedianti.
Infine venne l’ora di Piombino.
In giugno, però, furono chiamati a Roma dal Valentino.
Re Luigi andava alla conquista del regno di Napoli, e bisognava dargli man forte.
«Ottimo! Così piazzeremo le nostre donne!».
Chissà perché le risate di Vitellozzo erano sempre sgradevoli. Lasciato davanti a Piombino un campo sufficiente a tener l’assedio, guidò i migliori dei suoi verso Roma.

Quella che chiamavano Messalina, arrivata davanti a me, sfoggiò un sorriso compiaciuto e sornione. Neanche lei, la cortigiana più famosa di Roma, ricordava il proprio vero nome: per tutti era Messalina, incarnazione dei vizi e dei piaceri dell’Urbe.
Vitellozzo accarezzava soddisfatto il proprio neo. Riconoscendomi, aveva avuto un moto d’incredulità e di stizza, subito frenato dalla sua avidità. Lo sguardo di Messalina gli fece balenare un lauto guadagno, e le sue parole glielo confermarono: «Prendo solo questa» gli disse senza degnarlo d’uno sguardo. «Le altre puoi portarle alle mezzane di Trastevere. Quanto a te» mi alzò il mento con la mano protetta da un fazzoletto ricamato, «con una adeguata preparazione farai la tua figura alla corte di Papa Alessandro».
L’esperienza non mi mancava e non ebbi bisogno di lunghe lezioni. Ripensando ai monaci di casa mia, m’ero anche fatta un’idea di quello che mi aspettava. E invece non finii tra le braccia del Borgia e neppure di nessuno dei suoi cardinali. Passavo le mie giornate tra i lussi i bagni i profumi i cuscini i banchetti e i balli della corte papale, al servizio però di Lucrezia, la giovane e avvenente figlia del papa.
Ora accadde quello che non avrei mai immaginato: lei s’invaghì di me, fino a volermi nel suo letto.
«Sono stanca degli uomini e della loro brutalità» mi ripeteva spesso, giocando con i miei capelli o passandomi lungo i fianchi le dita delicate.
Non era vero, naturalmente. La vedevo spesso farsi oggetto delle attenzioni ora d’un capitano, poi d’un giovane cardinale, o magari d’un paggio piacente. Ma che m’importava? Le carezze di Lucrezia erano sempre meglio della violenza d’un soldato o di quell’animale di Vitellozzo. Almeno mangiavo bene, da signora. Alle feste, quasi ogni giorno, dovevo danzare, spogliarmi ed offrirmi agli occhi languidi di vecchi prelati, novella Susanna, ma i graffi i lividi e le botte erano solo un brutto ricordo.
Fino a quella maledetta notte.
Gli abbracci e i baci di Lucrezia erano stati insolitamente caldi, la sera, ed aveva voluto che dormissimo insieme, abbandonandosi su di me dopo un lungo pianto sommesso di cui non ebbi cuore d’indagare il motivo.
Nel mezzo della nottata Cesare, il Valentino, piombò nella camera della sorella come una furia, svegliandoci di soprassalto. Senza dire parola mi scaraventò giù dal letto e si mise cavalcioni a Lucrezia, spogliandosi freneticamente.
Non credevo ai miei occhi.
Lei, dopo qualche tentativo di resistenza, lo lasciò fare. Poi gli sorrise, d’un ghigno complice, ed infine si diede a corrispondere all’amplesso bestiale.
Era troppo anche per il mio stomaco avvezzo a mille porcherie. Strisciai sull’assito tentando di guadagnare la porta. Il Valentino se n’avvide, balzò dal letto e mi raggiunse. Mi sollevò di peso, scaraventandomi sul letto accanto alla sorella. Mentre riprendeva l’incestuoso rapporto, si diede a frugarmi con le due mani e a mordermi, finché non mi liberai con uno strattone, tentando una nuova fuga. Di nuovo mi riprese. Uno schiaffo mi spaccò il labbro ed uno spintone mi mandò a sbattere lo zigomo contro la colonna del baldacchino.
Eccitato dal nuovo giocattolo, continuò a sfogare sul mio corpo la sua libidine selvaggia, mentre Lucrezia rideva sguaiata.
Di tutto dovetti subire, da quella coppia d’assatanati. Di tutto, per ore, prima di sentirli crollare sfiniti sul letto, uno sopra all’altra. Ogni mio tentativo di resistenza accendeva maggiormente la passione dei due, e non potei far altro che lasciarli fare. Alla fine rimasi lì, distesa sul letto ad occhi chiusi, ascoltando il loro respiro farsi via via più lento e regolare, fino a prendere il ritmo del sonno.
Quando fui certa che dormissero, mi lasciai scivolare lentamente sul pavimento e strisciai piano verso la porta, rimasta aperta. Nell’anticamera mi alzai, dolorante e ferita dai morsi della belva, recuperai la camicia abbandonata su una panca e m’infilai in uno stretto corridoio, verso l’angusta scala a chiocciola che sapevo mi avrebbe portato giù alle cucine.
L’alba era lontana quando uscii a respirare l’aria fresca del Lungotevere. La luna si rifletteva opaca sull’acqua sporca. Mi appoggiai al parapetto e piansi.
Non so per quanto tempo rimasi là. Quando il cielo schiarì, m’accorsi di essere ancora troppo vicina ai sacri palazzi. Dovevo fuggire, di nuovo.
Camminavo radente ai muri dei vicoli di Roma, quando un portone si spalancò e ne uscì improvvisa la scorta d’un Cardinale. M’appiattii contro lo stipite dell’uscio d’una stalla, sperando di rimanere inosservata.
Il Cardinal Giovanni de’ Medici mi vide, invece, si fermò ad osservarmi un momento e poi mi venne incontro. Tremavo. Inaspettatamente si sfilò il mantello e me lo appoggiò sulle spalle.
«Entra in casa, su. Fatti lavare le ferite e dare un letto. Hai bisogno di riposo. Non temere. Da questo momento sei sotto la mia protezione e nessuno ti farà più male».
Lo guardai, e i suoi occhi sciolsero il mio terrore.

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